I diritti del nascituro

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    I diritti del nascituro.

    Segnalo la seguente sentenza Cass. sez. III n.10741 del 2009, che a mio parere effettua un parziale renvirement del precedente orientamento sposato dalla sent. di Cass. 14480/2004 che affermava l'inesistenza di un diritto a non nascere se non sani (wrongful birth o life).
    Quest'ultima sentenza affermava l'inesistenza di tale diritto in modo assoluto, mentre la prima effettua un distingo tra danno da mancata informazione in ordine all'interruzione di gravidanza (non risarcito) e mancata informaione in ordine alla terapia ed ai farmaci da assumre (risarcito).

    Posto anche i seguenti brevi note che reputo complementari:

    1) da filodiritto.it:Secondo la Cassazione "limitatamente alla titolarità di alcuni interessi personali protetti, deve essere affermata la soggettività giuridica del nascituro, e, in via conseguenziale, il nesso di causalità tra il comportamento dei medici (di omessa informazione e di prescrizione dei farmaci dannosi) e le malformazioni dello stesso nascituro che, con la nascita, acquista l'ulteriore diritto patrimoniale al risarcimento".

    Vale la pena di ripercorrere integralmente il percorso motivazionale della Cassazione che muove da due premesse argomentative: "l'attuale modo di essere e di strutturarsi del nostro ordinamento, in particolare civilistico, quale basato su una pluralità di funti, con conseguente attuazione di c.d. principi di decodificazione e depatrimonializzazione e la funzione interpretativa del giudice in ordine alla formazione della c.d. giurisprudenza normativa, quale autonoma fonte di diritto".

    "È indubbio che il vigente codice civile, contrariamente alle sue origini storiche sulla scia delle codificazioni europee ottocentesche che videro nel code napoleon la più evidente manifestazione, non rappresenta oggi più l'unica fonte di riferimento per l'interprete in un ordinamento caratterizzato da più fonti, tra cui una posizione spetta alla Costituzione repubblicana del 1948, oltre alla legislazione ordinaria, alla normativa comunitaria, ed alla stessa giurisprudenza normativa; tale pluralità di fonti (civilistiche) ha determinato i due suddetti fenomeni tra loro connessi della decodificarione e della depatrimonializzazione, intendendosi la prima come il venir meno della tradizionale previsione di disciplina di tutti gli interessi ritenuti meritevoli di tutela in un unico testo normativo, a seguito del subentrare di altre fonti, e la seconda nell'attribuzione alla persona di una posizione di centralità, quale portatrice di interessi non solo patrimoniali.

    In tale assetto ordinamentale l'apporto della giurisprudenza di legittimità nell'espletamento delta funzione di "nomofilachia" della Corte di Cassazione, assume sempre più rilievo nel sistema delle fonti in linea con la maggiore consapevolezza dei giudici di operare in un sistema ordinamentale che, pur essendo di civil law e, quindi, non basato su soli principi generali come avviene nei paesi di cammon law, caratterizzati dal vincolo che una determinata pronuncia giurisprudenziale assume per le decisioni successive, si configura come semi-aperto perché fondata non solo su disposizioni di legge riguardanti settoriali e dettagliate discipline ma anche su c.d. clausole generali, e cioè su indicazioni di valori ordinamentali, espressi con formule generiche (buona fede, solidarietà, funzione sociale della proprietà, utile sociale dell"impresa, centralità della persona) che scientmlente il legislatore trasmette all'interprete per consentirgli, nell'ambito di una più ampia discrezionalità, di "attualizzare" il diritto, anche mediante l'individuazione (là dove consentito, come nel caso dei diritti personali, non tassativi) di nuove aree di protezione di interessi.

    ... proprio in virtù di una interpretazione basata sulla pluralità delle fonti e sulla clausola generale della centralità della persona si addiviene a ritenere il nascituro soggetto giuridico".

    (Corte di Cassazione - Terza Sezione Civile, Sentenza 11 maggio 2009, n.10741: Diritti del nascituro).

    2) da studiocataldi.it: La Corte di Cassazione ha stabilito che il diritto di nascita esiste sempre, anche per chi non è sano. Il principio e' stato affermato dalla terza Sezione civile (sentenza 10741/2009) che nella parte motiva chiarisce come "la mancanza di consenso informato", tale da porre la madre nelle condizioni di poter scegliere per l'interrruzione volontaria della gravidanza, "non puo' dar luogo a risarcimento anche nei confronti del nascituro poi nato con malformazioni, oltre che nei confronti della gestante madre". La Corte ricorda che nel nostro ordinamento non e' contemplato "un diritto a non nascere se non sano", e quindi il "concepito, poi nato, non potra' avvalersi del risarcimento del danno perche' la madre non e' stata posta nella condizione di praticare l'aborto". La sentenza della Suprema Corte prende in esame il caso di una coppia che non riuscendo ad avere figli dopo il matrimonio, si era rivolta ad una clinica dove veniva prescritto alla moglie un medicinale denominato 'Clomid'. Dopo alcuni mesi arriva la gravidanza ma, come ricostruisce la sentenza, la donna aveva dato alla luce un bambino con gravissime malformazioni. Il ragazzino, diventato maggiorenne, ha chiesto il risarcimento del danno insieme ai suoi genitori. La richiesta veniva vormulata sia per la mancanza di una corretta informazione sui pericoli della terapia prescritta sia per il fatto che la donna non era stata posta nelle condizioni di poter scegliere per l'interruzione della gravidanza. La Suprema Corte ha ricordato che il ragazzo godendo di una "soggettivita' giuridica sul piano personale quale concepito", aveva diritto "a nascere sano" e quindi ecco il perche' i sanitari dovranno risarcirlo "per mancata osservanza sia del dovere di una corretta informazione (ai fini del consenso informato) relativamente alla terapia prescritta alla madre, sia del dovere di somministrare farmaci non dannosi per il nascituro stesso". Quest'ultimo, però rimarca la Suprema Corte, non ha "diritto al risarcimento qualora il consenso informato necessitasse ai fini dell'interruzione di gravidanza (e non della mera prescrizione di farmaci), dal momento che non esiste il diritto a non nascere se non sano".

    (Data: 13/05/2009 18.31.00 - Autore: Roberto Cataldi)



     
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  2. max112
     
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    dal sito overlex.com articolo dell'Avv.Rosalia Conforti sulla tutela civile del nascituro

    Ai sensi dell’art. 1 del c.c. la capacità giuridica, ossia l’idoneità di essere titolari di poteri e doveri giuridici, si acquista al momento della nascita. Solo a seguito di tale evento, dunque, il soggetto diventa titolare di tutti quei diritti connessi al suo essere persona. Tuttavia, l’ordinamento giuridico riconosce che anche il concepito può essere titolare di alcuni diritti, subordinando tale riconoscimento alla condicio juris della nascita

    Tale disposizione è stata interpretata dalla dottrina, nel senso che la nascita rappresenterebbe una condizione sospensiva della fattispecie acquisitiva1. Secondo tale orientamento, dunque, subordinati all’evento della nascita sono i diritti che la legge riconosce al concepito e non già la soggettività dello stesso2. Il che significa che il concepito non è titolare di una mera aspettativa di diritti ma è già, in quanto concepito, titolare di alcuni diritti specificatamente riconosciuti dalla legge anche se sottoposti alla condizione sospensiva della nascita3.

    Lo stesso impianto codicistico, poi, conferma la interpretazione suddetta evidenziando come vi sia una diversa situazione tra il concepito e il concepturus ossi colui che si spera possa venire ad esistenza.

    Procedendo per ordine cronologico, viene in evidenza in primo luogo l’art. 462 c.c. relativo alla capacità di succedere. secondo tale norma sono capaci di succedere tutti coloro i quali sono nati o concepiti al tempo dell’apertura della successione. È evidente, dunque, come la norma attribuisca la capacità di succedere al concepito in quanto tale, equiparandolo, a tal fine, a coloro i quali sono già nati al tempo dell’apertura della successione.Una particolare forma di capacità è riconosciuta anche a favore dei non concepititi, i quali possono ricevere per testamento (art. 462, III comma c.c.). In tale caso l’unica condizione prevista dal legislatore è che si tratti di figli di una determinata persona vivente al tempo del testamento4.

    Anche per la donazione il legislatore ha previsto una particolare forma di tutela per i nascituri. Ed infatti, all’art. 784 c.c. è previsto che la donazione può essere fatta a favore di chi è stato soltanto concepito ovvero a favore di figli di una determinata persona vivente al tempo della donazione, benché concepiti5. L’unica differenza tra il concepito (il cui acquisto è attuale) e il non concepito (il cui acquisto viene differito al momento della nascita) la si rinviene nella disciplina dei frutti del bene donato: il concepito li acquista sin dal momento della donazione, mentre il non concepito li acquista dal momento della nascita.

    Nell’impianto del codice civile possono rinvenirsi altre norme che sono ispirate alla tutela dei nascituri concepiti o non ancora concepiti. L’art. 320 c.c. ad esempio, prevede che la rappresentanza in tutti gli atti civili e nell’amministrazione dei beni è attribuita al padre ma solo per i figli nati e nascituri e non anche per i nascituri non concepiti.

    Ulteriori forme di tutela a favore del nascituro possono trarsi, altresì, nel disposto dell’art. 85 D.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124 “Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali” e successive modifiche che, nell’elencare le categorie degli aventi diritto alla rendita nel caso in cui l’infortunio abbia come conseguenza la morte del lavoratore, al n. 2 ricomprende “tra i superstiti di cui al presente numero, dal giorno della nascita, i figli concepiti alla data dell’infortunio” presumendo concepiti a detta data i nati entro 300 giorni dall’evento.

    Dal punto di vista patrimoniale, dunque, si riconosce al concepito una “personalità anticipata” (una persona in senso giuridico che scompare, ove la nascita non segua) ovvero un’anticipazione della capacità giuridica sin dal momento del concepimento (la c.d. “capacità giuridica prenatale” per la tutela di interessi già oggettivamente determinati in capo ad una “oggettività anticipata6”): in entrambi i casi gli viene attribuita la titolarità potenziale di diritti7.

    Se non sussistono particolari problemi in ordine al riconoscimento dei diritti patrimoniali a favore del concepito più difficoltoso è il riconoscimento degli interessi non patrimoniali a favore dello stesso e tanto perchè questi ultimi non trovano una disciplina organica e necessitano di una trattazione in relazione a principi generali dell’ordinamento.

    Sebbene l’ordinamento giuridico riconosca, in particolari sfere, che esistono situazioni giuridiche meritevoli di tutela prima e indipendentemente dall’acquisto di quella capacità giuridica su cui si radica ordinariamente la titolarità di specifici diritti soggettivi (si veda ad esempio l’art. 254 c.c. in tema di riconoscimento dei figli naturali), inizialmente si riteneva non potesse essere riconosciuto alcun diritto non patrimoniale al concepito.

    Tale argomentazione è stata successivamente superata anche in considerazione di quanto statuito all’art. 2 della Costituzione che fa riferimento esplicito ai “diritti dell’uomo” e non ai diritti “attribuiti alla persona” dall’ordinamento giuridico. Con il significativo riferimento “all’uomo” il legislatore costituente ha voluto ancorare quelli che sono i diritti inviolabili dell’uomo alla posizione di chiunque sia portatore della qualità e della dignità di essere umano e quindi anche al concepito.

    La stessa dichiarazione dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite del 1948, solennemente proclama che l’individuo ha dei diritti anche prima del suo riconoscimento da parte dell’ordinamento giuridico e ha come primo diritto quello del “riconoscimento della sua personalità giuridica”8.

    In tal senso, dunque, si è parlato di “diritto a nascere sano” che, trovando il suo fondamento negli artt. 2 e 32 della Costituzione, integra un vero e proprio diritto del nascituro inteso a tutelare l’integrità psico – fisica dello stesso e quindi la salute dello stesso9.

    Anche la normativa interna ha contribuito al riconoscimento di diritti per il nascituro. Da segnalare in tal senso è la legge 194/78 sull’interruzione della gravidanza che all’art. 1 proclama solennemente che lo Stato tutela la vita umana sin dal suo inizio o ancora la legge 19 febbraio 2004 n. 40 “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita” la quale all’art. 1 10 afferma di assicurare i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito11, segnando un’importante pagina in materia di status giuridico dello stesso.

    Un riferimento esclusivo al concepito in quanto tale hanno poi le norme contenute nella legge 30 dicembre 1971, n. 1204 “ Tutela delle lavoratrici madri” la quale, nel predisporre una serie di cautele in merito alle modalità di svolgimento del lavoro, nonché un periodo di astensione obbligatoria per un dato periodo antecedente alla data presunta del parto, individua quali titolari di interessi cui la tutela è finalizzata, la lavoratrice gestante e il concepito, predisponendo così, all’uopo, un apparato normativo volto a garantire la salute di entrambi12.

    Il diretto riferimento al concepito autonomamente considerato si rinviene, altresì, in tutta una serie di provvedimenti successivi che hanno integrato e puntualizzato la disciplina delle lavoratrici gestanti, quali il D. Lgsl. 15 agosto 1991 n. 27713 che all’art. 12 prevede un obbligo di informazione a carico del datore di lavoro sui rischi per la salute dovuti all’esposizione al piombo, “compresi i rischi per il nascituro”.

    Ancora il D.M. 15 settembre 1975 n. 57850014, recante “istruzioni per l’esercizio della professione delle ostetriche” che all’art. 5 statuisce che l’ostetrica “deve concorrere a combattere eventuali pregiudizi e abitudini dannose della gestante e indurla a seguire, per il benessere proprio e del nascituro, le norme igieniche più appropriate per il suo stato al fine di assicurare il buon andamento della gravidanza, le migliori condizioni per il normale sviluppo del feto…”.

    Sulla medesima linea e con lo specifico riferimento alla necessità di evitare pregiudizi al nascituro, possono ricordarsi, infine, l’art. 69 del D. Lgsl. 17 marzo 1995 n. 23015 e l’art. 10 del D. Lgsl. 26 maggio 2000, n. 18716, entrambi volti, in particolari ipotesi di rischio, a informare, prevenire ed attenuare attentati alla salute ed integrità del concepito.

    Avv. Rosalia Conforti


    1 P. Rescigno, Capacità giuridica, in D. Disc. Priv. Sez. civ., vol. II, Torino, 1988, 221.

    2 Cfr. F. Santoro Passarelli, “Su un nuovo profilo dell’istituzione dei nascituri” in saggi di diritto civile, vol. II, Napoli,747.

    Contra Gazzoni, secondo cui il concepito non ha capacità giuridica, nemmeno provvisoria, anticipata o condizionata; può solo parlarsi di “tutela conservativa affidata ai genitori, di taluni diritti patrimoniali”.

    3 Una conferma a tale impostazione la si può rinvenire nella Relazione del Guardasigilli che accompagna il testo definitivo del codice civile secondo cui “quanto al concepito ho conservato nella sostanza la norma del progetto evitando l’espressione ‘riserva di diritti’ che mi è sembrata vaga ed imprecisa. In realtà al concepito sono stati riconosciuti, già nella legge vigente, veri diritti: salvo che la loro attribuzione è subordinata al verificarsi della nascita”.

    4 Il riferimento ai non concepiti è posto nell’ottica del cogitare de futuro tipica del testamento.

    5 Cfr. C. Scognamiglio, “La capacità di ricevere per donazione” in Successioni e donazioni, (a cura di) Rescigno, vol. II, Padova, 1994, 317.

    6 È questa l’espressione utilizzata dalla Corte di Appello di Messina, 26 aprile 1967, inRepertorio Foro Italiano, 1968, voce Persona giuridica, 1865, n. 9.

    7 In alcuni casi tali diritti sono sottoposti alla condizione della nascita, in altri è la stessa nascita che costituisce elemento essenziale di efficacia e non requisito che attiene alla perfezione del negozio.

    8 Articolo 6. Ogni individuo ha diritto in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica.

    9 Si veda “Il diritto alla salute del concepito” a cura di Avv. Rosalia Conforti su www.overlex.com.

    10ART. 1 : “Al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”.

    11 Sul tema cfr. L. Balestra “La legge sulla procreazione medicalmente assistita alla luce dell’esperienza francese” in Famiglia , 2004, 109; C. Casini-M. L. Di Pietro, “La legge italiana sulla procreazione medicalmente assistita” in Diritto famiglia, 2004, II, 489.

    12 In tal senso Corte Costituzionale 26 luglio 2000 n. 360, in Lavoro nella giurisprudenza, 2000, II, 1029.

    13 Decreto di attuazione delle direttive 80/1107/CE, 82/605/CE, 83/477/CE, 86/188/CE, 88/642/CE in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizioni ad agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro, a norma dell’art. 7 legge 30 luglio 1990, n. 212.

    14 Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 272 del 13 ottobre 1975.

    15 Decreto di attuazione delle direttive 89/618/EURATOM , 90/641/EURATOM, 92/3/EURATOM, 96/29/EURATOM in materia di radiazioni ionizzanti.

    16 Decreto di attuazione della direttiva 97/43/EURATOM in materia di protezione sanitaria delle persone contro i pericoli delle radiazioni ionizzanti connesse a esposizioni mediche.
     
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  3. max112
     
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    Queste che seguono sono mie considerazioni.

    Testo di riferimento: Studi di diritto civile- ed Giuffré

    Circa la tutela risarcitoria del nascituro (concepito) è possibile distinguere tra:
    -danno procurato a terzi (ad es il medico che lesiona la gestante ed il feto);
    - danno da nascita o vita ingiusta o indesiderata, in cui gli autori dell'illecito sono i genitori o il medico che ha omesso gli obblighi informativi in merito alle malformazioni.

    La giurisprudenza ha incasellato il danno cagionato da terzi sia nell'ambito della responsabilità extracontrattule sia in quello contrattuale. Secondo la tesi più recente si avrebbe,infatti, un'ipotesi di responsabilità da contatto, che è una figura di responsabilità a metà strada tra i contract ed il tort.
    Questa l'evoluzione giurisprudenziale:
    a) La giurisprudenza dei primi anni 70 NEGA che il concepito abbia diritto al risarcimento del danno ex art.2043 cc, perché si afferma che l'acquisto della capacità giuridica, che s verifica al momento della nascita è un presupposto imprescindibile per l'acquisizione dei diritti nel patrimonio giuridico. Il 2043 risarcisce cioè solo un diritto assoluto di un soggetto attualmente esistente. Di conseguenza manca un soggetto che possa far valere la pretesa risarcitoria: non la madre perché colpita di riflesso, non il figlio perché non esistente.
    b) La giurisprudenza degli anni 90: afferma che il concepito è un centro di interessi giuridicamente tutelato e che la nascita non è una "condizione sufficiente" ad interropere il nesso causlae tra condotta ed evento dannoso. Di conseguenza il risarcimento spetta anche al nascituro; nel 2000 si precisa che è risarcibile anche un interesse diverso dal diritto soggettivo assoluto e che non è necessaria la contestualità tra condotta ed evento dannoso, potendo quest'ultimo verificarsi ad anni di distanza (cd danni lungo latenti).

    Tuttavia, la tesi della responsabilità extracontrattuale ha i suoi difetti (prescrizione di 5 anni ed onere probatorio).
    Cosicché la giurisprudenza più sensibile cerca di configurare la responsabilità contrattuale, in modo da agevolare il creditore danneggiato.
    Due sono le teorie che sono state proposte:
    1) Teoria del contratto a favore del terzo o con effetti protettivi del terzo: Si è osservato che quando la gestante entra in ospedale sigla un contratto con effetti a favore di un terzo che sta per venire alla nascita (contratto di spedalità atipico). Tuttavia, questa tesi pecca laddove non consente al danneggiato di agire direttamente verso il medico. Per ovviare si è richamato 28 cost; 1228 cc.; o contratto di lavoro a favore del terzo.
    2) tesi del contatto sociale: Secondo questa tesi tra medico, gestante e feto si ha un contatto sociale qualificato che genera dalla peculiarità degli obblighi scaturenti dall'esercizio della professione medica. Da questo contatto sociale qualificato deriverebbe una responsabiltà.
    contrattuale e ciò in conformità del 1173 cc.

    Diverso è invece l'orientamento della giurisprudenza sul danno da vita indesiderata, perchè la cassazione nel 2004 ha negato che sussista un diritto a non nascere se non sani con conseguente risarcimento in caso di lesione.
    A sostegno di questa tesi la Cass 14488/2004 svolgeva le seguenti argomentazioni:
    a) la possibilità di farlo in valere in giudizio è subordinata alla nascita del bambino. Diversamente è un diritto adespota, che peraltro rileva solo nella sua fase patologica;
    b) Riconoscere il diritto anon nascere se non sani porterebbe ad ammettere un aborto eugenetico, che ai sensi della l.194/78 non è ammesso (addirittura potrebbe costituire reato);
    c) il nostro ordinamento tutela il diritto alla nascita e non alla nascita in quanto sano,perchè la vita (anche con disabilità) è sempre meglio della non vita. Inoltre, mancherebbe la perdita patrimoniale per configurare danno risarcibile. Il danno cioè una perdita del patrimonio del soggetto e cioè la differenza tra un prima e un dopo. Effettuando questo confronto si desume che il soggetto nato malformato non ha perso nulla, in quanto è venuto ad esistenza e, quindi, avendo, acquistato la vita non solo non ha la perdita ma addirittura acquista un quid pluris che in precedenza non aveva.

     
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  4. max112
     
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    Da filodiritto.it

    17.05.09 - Corte Costituzionale: no al limite massimo di tre embrioni della legge sulla procreazione assistita


    La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 2, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), limitatamente alle parole «ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre»; e dell’art. 14, comma 3, della legge n. 40 del 2004 nella parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, come stabilisce tale norma, debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna.

    Secondo la Consulta, "La previsione della creazione di un numero di embrioni non superiore a tre, in assenza di ogni considerazione delle condizioni soggettive della donna che di volta in volta si sottopone alla procedura di procreazione medicalmente assistita, si pone, in definitiva, in contrasto con l’art. 3 Cost., riguardato sotto il duplice profilo del principio di ragionevolezza e di quello di uguaglianza, in quanto il legislatore riserva il medesimo trattamento a situazioni dissimili; nonché con l’art. 32 Cost., per il pregiudizio alla salute della donna – ed eventualmente, come si è visto, del feto – ad esso connesso".

    L'intervento demolitorio - prosegue la Corte Costituzionale - "mantiene salvo il principio secondo cui le tecniche di produzione non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario, secondo accertamenti demandati, nella fattispecie concreta, al medico, ma esclude la previsione dell’obbligo di un unico e contemporaneo impianto e del numero massimo di embrioni da impiantare, con ciò eliminando sia la irragionevolezza di un trattamento identico di fattispecie diverse, sia la necessità, per la donna, di sottoporsi eventualmente ad altra stimolazione ovarica, con possibile lesione del suo diritto alla salute.

    Le raggiunte conclusioni, che introducono una deroga al principio generale di divieto di crioconservazione di cui al comma 1 dell’art. 14, quale logica conseguenza della caducazione, nei limiti indicati, del comma 2 – che determina la necessità del ricorso alla tecnica di congelamento con riguardo agli embrioni prodotti ma non impiantati per scelta medica – comportano, altresì, la declaratoria di incostituzionalità del comma 3, nella parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, come previsto in tale norma, debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna".

    (Corte Costituzionale, Sentenza 8 maggio 2009, n.151: incostituzionale il limite massimo di tre embrioni della legge sulla procreazione assistita).
     
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  5. seppietta
     
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    Ulteriori contributi alla sentenza segnalata

    Nascituro – diritto a nascere sano – soggettività giuridica – sussistenza [art. 32, Costituzione; art. 1411 c.c.; artt. 1175-1337-1375 c.c.]

    Nascituro, diritto a nascere sano, soggettività giuridica, sussistenza
    Cassazione civile , sez. III, sentenza 11.05.2009 n° 10741

    Il nascituro o concepito risulta dotato di autonoma soggettività giuridica ed ha diritto a nascere sano.

    Sia il contratto che la paziente pone in essere con la struttura sanitaria e sia il contratto della stessa con il singolo medico risultano produttivi di effetti, oltre che nei confronti delle stesse parti, anche di ulteriori effetti, c.d. protettivi, nei confronti del concepito e del genitore, come terzi.

    Il consenso informato deve essere presente sia nella fase di formazione del consenso, sia nella fase antecedente che in quella di esecuzione del contratto, riconducibile (come in altri settori) alla clausola generale di buona fede del nostro ordinamento civilistico ex artt. 1175, 1337, 1375 c.c..

    La violazione di tale obbligo comporta, consistendo in un dovere di comportamento, non un vizio (nullità) del contratto stesso, in mancanza di una esplicita previsione in tal senso, bensì il risarcimento del danno.

    La valutazione del nesso di causalità (materiale), in sede civile, pur ispirandosi ai criteri di cui agli artt. 40 e 41 c.p. (per cui un evento è da considerarsi causato da un altro se il primo non può verificarsi in assenza del secondo), fatte salve alcune peculiarità, presenta una rilevante differenza in relazione ai parametri probatori. Infatti, stante la diversità dei valori in gioco tra la responsabilità penale (in cui principale punto di riferimento per il legislatore è l'autore del reato, in relazione a fattispecie tipiche) e quella civile (in cui il legislatore è di regola equidistante dalle parti contendenti, con particolari situazioni di tutela del danneggiato, e vige, per l'illecito aquiliano, la regola generale del neminem laedere), nel primo caso occorre che sia fornita la prova “oltre ogni ragionevole dubbio” (in tal senso l'ormai consolidato indirizzo della giurisprudenza penale di questa Corte) mentre in materia civile vige il diverso principio del “più probabile che non”, ovvero della prevalenza probabilistica, rispetto alla (quasi) certezza. Diversi sono i criteri di indagine in ordine alla responsabilità penale ed alla responsabilità civile, perché, con riferimento a quest'ultima, l’illecito extracontrattuale è “sanzionato” con il risarcimento del danno ove il fatto sia oggettivamente probabile e soggettivamente prevedibile, mentre la responsabilità contrattuale, anch'essa fonte in primis dell'obbligo risarcitorio, sussiste se la prestazione eseguita non corrisponde a quanto pattuito (per qualità, quantità, vizi, ritardo ed altro) in stretta connessione con il grado di diligenza richiesto nel caso di specie.

    La limitazione stabilita dall'art. 2236 c.c., della responsabilità del prestatore d'opera intellettuale alla colpa grave, configurabile nel caso di mancata applicazione della cognizioni fondamentali attinenti alla professione, è applicabile soltanto per la colpa da imperizia nei casi di prestazioni particolarmente difficili; non possono invece mai difettare, neppure nei casi di particolare difficoltà, nel medico gli obblighi di diligenza del professionista che è un debitore qualificato, ai sensi dell'art. 1176, 2 comma c.c., e di prudenza, che pertanto, pur in casi di particolare difficoltà, risponde per colpa lieve.

    Il concepito ha diritto nascere sano ed il corrispondente obbligo di detti sanitari di risarcirlo (diritto al risarcimento che per il nascituro, avente carattere patrimoniale, è condizionato, quanto alla titolarità, all'evento nascita ed azionabile dagli esercenti la potestà) per mancata osservanza sia del dovere di una corretta informazione (ai fini del consenso informato) in ordine alla terapia prescritta alla madre (e ciò in quanto il rapporto instaurato dalla madre con i sanitari produce effetti protettivi nei confronti del nascituro), sia del dovere di somministrare farmaci non dannosi per il nascituro stesso.

    Non vi è diritto al risarcimento qualora il consenso informato necessitasse ai fini dell'interruzione di gravidanza (e non della mera prescrizione di formaci), stante la non configurabilità del diritto a non nascere (se non sano). (1-12)

    NDR: la presente sentenza si segnala per importanza e linearità: viene ricostruito lo schema della responsabilità civile in ambito sanitario (con riferimento alla soggettività giuridica del concepito), con particolare chiarezza.

    (1) Si veda il focus RINALDI, Esercizio delle professioni intellettuali (2229 c.c.).
    (2) In tema di struttura sanitaria e foro del consumatore, si veda Cassazione civile, sez. III, ordinanza 02.04.2009 n° 8093.
    (3) In tema di responsabilità del medico e causalità, si veda Cassazione civile, sez. III, sentenza 10.03.2009 n° 5735.
    (4) In tema di responsabilità del medico e consenso, si veda Cassazione civile, sez. III, sentenza 30.01.2009 n° 2468.
    (5) In materia di consenso del paziente alla prestazione medica sul fronte penale, si veda Cassazione penale, SS.UU., sentenza 21.01.2009 n° 2437.
    (6) In materia di responsabilità del medico e trattamento sanitario necessario, si veda Cassazione penale, sez. IV, sentenza 30.09.2008 n° 37077.
    (7) Sul complesso tema della responsabilità del medico, si rinvia al Focus La responsabilità del medico: conferme e novità giurisprudenziali.
    (8) Sulla responsabilità della struttura sanitaria, si veda Cassazione civile, SS.UU., n. 577/2008.
    (9) Sul problema della trasfusione di sangue e Testimone di Geova, si veda Cassazione civile 23676/2008.
    (10) In materia di consenso incompleto del paziente, si veda Cassazione penale 11335/2008.
    (11) Tra le pubblicazioni più recenti, si veda MARSEGLIA, VIOLA, La responsabilità penale e civile del medico, 2007.
    (12) Si veda anche, in tema di assenza di diritto a non nascere se non sano, Cassazione civile, sez. III, sentenza 14.07.2006 n° 16123, con nota di VIOLA.

    (Fonte: Altalex Massimario 20/2009)




    SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

    SEZIONE III CIVILE

    Sentenza 11 maggio 2009, n. 10741

    (Pres. Varrone - est. Spagna Russo)

    Motivi della decisione

    Ricorso A..

    Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 2043, 1223 e 2056 c.c., nonché dei principi in materia di rapporto di causalità; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.

    Si censurano due profili argomentativi della Corte territoriale, in ordine al disposto risarcimento dei danni: la violazione dell'obbligo informativo nei confronti della V. da parte dei medici curanti, “che non potevano essere all'oscuro dei rischi rappresentati dal farmaco prescritto”; l'assunzione da parte della V. di clomifene (contenuto nel Clomid), causa delle malformazioni del figlio.

    Si afferma che “la conclusione è infondata. La Corte napoletana non imputa ai medici di aver prescritto un farmaco erroneo, cioè incapace di curare la sterilità, ma di aver violato il dovere informativo circa i rischi di esso. L'obbligazione di curare è stata esattamente e diligentemente adempiuta. I medici non hanno prescritto un farmaco erroneo, e dunque, sotto questo riguardo, non sono responsabili né verso i genitori né verso il minore”.

    Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 115, e 191 e sgg. c.p.c. e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

    Si afferma che, in ordine alla ritenuta somministrazione del Clomid in due cicli (uno anteriore alla gravidanza, l'altro “più prossimo”), gli attori non hanno fornito alcuna prova (al di fuori della sola dichiarazione resa dalla V. al consulente tecnico d'ufficio).

    Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 32 Cost., 5 c.c., nonché dei principi della legge n. 194/1978 e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia. Si deduce che “la sentenza impugnata omette di motivare intorno al titolo di risarcimento accordato al minore. Posto che esso non è riconducibile all'inadempimento del dovere informativo, è altresì da escludere che discenda da violazione del diritto a non nascere”.

    Ricorso incidentale C..

    Con il primo motivo si deduce “violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 324, 329, 345, 346 e 167 c.p.c., concernenti norme di legge sul procedimento, per superamento dei limiti della domanda e del giudicato formatosi sulla sentenza di primo grado. Violazione dei principi del contraddittorio e del diritto di difesa (art 360 nn. 3 e 4 c.p.c.)”.

    Si afferma che “del tutto illegittimamente la Corte d'Appello ha disposto la condanna del C.D. al risarcimento dei danni pretesi dagli attori, senza considerare che mancava una domanda delle parte in tal senso ed anzi, per effetto della mancata impugnazione da parte dei coniugi P. del capo della sentenza di primo grado concernente il rigetto della domanda nei confronti del C., nei loro confronti si era formato il giudicato”; si aggiunge che erroneamente la Corte d'Appello ha dichiarato la responsabilità anche del C. in quanto mancava una domanda in tal senso; si aggiunge ancora che “la domanda originaria formulata in citazione dai coniugi P. anche nei confronti dei C. e R. per la declaratoria di responsabilità professionale e la condanna al risarcimento dei danni, già relegata in forma subordinata nelle conclusioni rassegnate in primo grado dagli attori e comunque esplicitamente rigettata dal Tribunale, doveva ritenersi del tutto abbandonata in grado di appello, non essendo stata riproposta (art. 346 c.p.c.) con appello incidentale dagli stessi coniugi P., né avendo comunque formato oggetto di considerazioni nei motivi della toro impugnativa parziale, con conseguente acquiescenza (art. 329 ultimo comma c.p.c.) e formazione del giudicato”.

    Con il secondo motivo si deduce violazione degli artt. 1228, 1299, 2055 e 2232 c.c., nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 324, 329 e 346 c.p.c. concernenti norme di legge sul procedimento e sul giudicato interno.

    Si afferma che “del tutto illegittimamente la Corte d'Appello di Napoli ha condannato il C.D. al risarcimento dei danni nei confronti degli attori senza considerare che, essendosi formato il giudicato sulla circostanza che il contratto d'opera professionale era sorto direttamente tra la V. ed il A. nonché in ordine alla sussistenza di un rapporto di collaborazione retribuita tra l'A. ed il C., la fattispecie rientrava nella previsione dell'art. 2232 c.c., con la conseguente non configurabilità di una responsabilità diretta dei collaboratori nei confronti dei clienti del professionista, dovendo essi rispondere soltanto in sede di eventuale rivalsa esercitata dal professionista titolare, ove ne sussistano le condizioni di legge”.

    Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 132 e 189 c.p.c. nonché 118 disp. att c.p.c., concernenti norme di legge sul procedimento, in relazione ai limiti della domanda (att. 360 nn. 3 e 4 c.p.c.). Violazione e falsa applicazione degli artt. 1223 e 2056 c.c. per la determinazione dei danni. Omessa motivazione.

    Si afferma che “la Corte d'Appello è incorsa in un'ulteriore grave violazione là dove, condannando il C. al risarcimento dei danni liquidati dal Tribunale, ne ha condiviso l'errore, consistente nell'inammissibile superamento, per di più senza la benché minima motivazione, delle indicazioni quantitative fornite dagli attori in ordine al danno biologico ed al danno morale”.

    Con il quarto motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 1228, 2043, 2232, 2236 c.c. (art 360 nn. 3 e 4 c.p.c.). Violazione e falsa applicazione degli artt. 113, 115, 116 e 132 c.p.c., nonché 118 disp. att c.p.c., concernenti norme di legge sul procedimento e sulla valutazione delle prove per superamento delle risultanze processuali (art. 360 nn. 3, 4 e 5 c.p.c). Omessa motivazione.

    Si afferma che “manca agli atti il benché minimo elemento per ritenere che il C. non avesse provveduto ad informare la paziente in ordine ai rischi potenziali dell'utilizzazione del farmaco e, stante la natura extracontrattuale dell'asserita responsabilità verso gli attori di tale medico collaboratore dell'A., l'onere della prova incombeva ai coniugi P.”.

    Con il quinto motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1225, 2043, 2056 e 2697 c.c. Violazione degli artt. 112, 115, 116 e 132 c.p.c. nonché 118 disp. att c.p.c. concernenti norme di legge sul procedimento e sulla valutazione delle prove (artt. 360 nn. 3 e 4 c.p.c.). Omessa motivazione. Si afferma che “in ogni caso, la sentenza impugnata è palesemente illegittima là dove la Corte d'Appello, pur individuando la fonte della responsabilità dei medici unicamente nell'asserita omissione dell'informativa alla paziente sui rischi dell'utilizzazione del farmaco, ha poi disposto la condanna al risarcimento anche in favore del minore per le malformazioni con cui è nato, quasi che le stesse potessero ritenersi cagionate dall'omessa informativa”.

    Preliminarmente, disposta la riunione dei ricorsi ai sensi dell’art. 335 c.c., deve rilevarsi sia che ammissibile è il ricorso principale nella parte in cui risulta proposto nei confronti di P.D. e V.S., oltre che in proprio, quali genitori esercenti la potestà sul minore F., in quanto ad essi notificato in data 3-2-2005 e prima che detto minore diventasse maggiorenne in data omissis; sia che è ammissibile il ricorso incidentale del C. (nella “versione” del ricorso incidentale come anche del ricorso dallo stesso C. proposto come “principale”, ricorsi entrambi dall'identico contenuto) in quanto proposto con atto notificato in data 17-3-05 allo stesso P.F., ormai diventato maggiorenne, in proprio, come attestato dalla cartolina dell'avviso di ricevimento, prodotta in atti. In relazione a tale notifica (del ricorso incidentale del C.) si ribadisce quanto già statuito da questa Corte (Cass. N. 116/2004), secondo cui “qualora la capacità di stare in giudizio in rappresentanza del figlio minore venga meno per il raggiungimento della maggiore età da parte di quest'ultimo dopo la pubblicazione della sentenza, l'impugnazione va proposta nei confronti dell'ex minore divenuto maggiorenne (e notificata presso il suo domicilio reale) e non nei confronti dei genitori (ovvero del figlio rappresentato dai genitori)”.

    In relazione al ricorso principale il primo motivo presenta profili, da un lato, di inammissibilità e, dall'altro, di infondatezza.

    Infatti, quanto al primo aspetto, detta doglianza non individua la ratio decidendi dell'impugnata decisione sul punto perché, contrariamente a quanto asserito dal ricorrente, la Corte napoletana non si limita a ritenere violato il dovere informativo in ordine ai rischi connessi all'assunzione, da parte della madre, di clomifene ma imputa ai medici anche la prescrizione, ai fini dell'ovulazione, di detto farmaco con proprietà teratogene, sulla base di quanto specificamente asserito in una delle espletate consulenze tecniche di ufficio e dei dati statistici in essa indicati; ciò risulta in modo evidente dalla motivazione della pronuncia in esame in cui, dopo aver premesso non rispondere al vero “che l'unica prescrizione del Clomid alla paziente sia stata fatta in epoca lontana dall'ovulazione”, si afferma che il consulente “ha descritto una casistica di malformazioni su nati da donne, che avevano assunto il clomifene; in particolare ha riportato che, su 2269 gravidanze associate con somministrazione di tale farmaco, si sono avuti 58 prodotti del concepimento malformati ed ha descritto le malformazioni riscontrate, fra le quali ci sono anche quelle di cui è affetto il minore F., l'ipospadia, la sindattilia e le lesioni congenite intestinali. Ha aggiunto che in otto madri del gruppo di 58 il farmaco fu assunto durante le prime 6 settimane di gravidanza. Ha evidenziato, inoltre, che nei primi 42 mesi di commerciabilità della sostanza si era avuta notizia di 7 infanti malformati su 7 gravidanze. Tali dati statistici sono incontrovertibili e, come ha assunto il primo ausiliare, la considerazione della scarsa frequenza della teratogenicità non giustifica certo la nescienza sulla pericolosità del farmaco, già evidenziata dalla letteratura all'epoca dell'assunzione da parte della V., né l'aver trascurato, da parte dei medici, te precauzioni necessarie per la somministrazione. Si noti a tale ultimo proposito che anche il secondo ausiliario, che pure ha assunto una posizione più cauta sulla capacità teratogena del Clomid, non l'ha negata recisamente...”.

    Ed è proprio sulla ritenuta, in premessa, potenzialità dannosa del farmaco in questione, che la Corte di merito configura la sussistenza di colpevolezza in ordine al mancato esercizio di una corretta informazione, sostenendo che “da tutto quanto osservato discende innanzitutto la considerazione che i medici curanti, che non potevano essere all'oscuro dei rischi rappresentanti dal farmaco prescritto per la presenza di studi scientifici in proposito anche all'epoca della prescrizione, sono colpevoli in quanto non hanno reso edotta la donna di tali rischi, anche se non frequenti; la conoscenza di essi avrebbe consentito ai coniugi P. di valutare appieno la scelta di ricorrere o meno a tale farmaco per indurre l'ovulazione, ben consapevoli delle possibilità, a cui andavano incontro, di insorgenza di malformazioni nel feto”.

    Riguardo, poi, al secondo aspetto, il primo motivo è infondato là dove prospetta che la mancata corretta informazione in questione ha inciso esclusivamente sul “potere di scelta” spettante i genitori sul “se assumere o non assumere il farmaco” per cui la violazione del dovere informativo può dar luogo a risarcimento del danno soltanto in favore dei genitori, nel senso che “la condotta omissiva dei medici determina la perdita del potere di scelta ma non presenta alcun rapporto di causalità con le menomazioni del bambino. Altro è non informare, non trasmettere dati conoscitivi, che consentirebbero una scelta consapevole; altro, determinare un danno fisico a soggetto diverso dalle parti negoziali”.

    Tale tesi non può assolutamente essere condivisa: ritiene, infatti, la Corte che, limitatamente alla titolarità di alcuni interessi personali protetti, vada affermata la soggettività giuridica del nascituro, e, in via consequenziale, il nesso di causalità tra il comportamento dei medici (di omessa informazione e di prescrizione dei fermaci dannosi) e le malformazioni dello stesso nascituro che, con la nascita, acquista l'ulteriore diritto patrimoniale al risarcimento. L'asserzione della configurabilità del nascituro quale soggetto giuridico comporta lo sviluppo di due ineludibili premesse argomentative: l'attuale modo di essere e di strutturarsi del nostro ordinamento, in particolare civilistico, quale basato su una pluralità di fonti, con conseguente attuazione di cd. principi di decodificazione e depatrimonializzazione e la funzione interpretativa del giudice in ordine alla formazione della cd. giurisprudenza-normativa, quale autonoma fonte di diritto.

    È indubbio che il vigente codice civile, contrariamente alle sue origini stanche sulla scia delle codificazioni europee ottocentesche che videro nel code napoleon la più evidente manifestazione, non rappresenta oggi più l’unica fonte di riferimento per l'interprete in un ordinamento caratterizzato da più fonti, tra cui una posizione preminente spetta alla Costituzione repubblicana del 1948 (che ha determinato il passaggio dallo Stato liberale allo Stato sociale, caratterizzato da un punto di vista giuridico dalla c.d. centralità della persona), oltre alla legislazione ordinaria (finalizzata anche all'adeguamento del testo codicistico ai principi costituzionali), alla normativa comunitaria, ed alla stessa giurisprudenza normativa; tale pluralità di fonti (civilistiche) ha determinato i due suddetti fenomeni, tra loro connessi, della decodificazione e della depatrimonializzazione, intendendosi la prima come il venir meno della tradizionale previsione di disciplina di tutti gli interessi ritenuti meritevoli di tutela in un unico testo normativo, a seguito del subentrare di altre fonti, e la seconda nell'attribuzione alla persona (in una prospettiva non individuale ma nell'ambito delle formazioni sociali in cui estrinseca la propria identità e l'insieme dei valori di cui è espressione) una posizione di centralità, quale portatrice di interessi non solo patrimoniali ma anche personali (per quanto esplicitamente previsto, tra l'altro, nello stesso testo costituzionale, con particolare riferimento agli artt. 2 e 32).

    In tale assetto ordinamentale rapporto della giurisprudenza, in specie di legittimità nell'espletamento della funzione di “nomofilachia” (vale a dire di indirizzo ai imi di un'uniforme interpretazione delle norme) della Corte di Cassazione, assume sempre più rilievo nel sistema delle fonti in linea con la maggiore consapevolezza dei giudici di operare in un sistema ordinamentale che, pur essendo di civil law e, quindi, non basato su soli principi generati come avviene nei paesi di common law (Inghilterra, Stati Uniti ed altri), caratterizzati dal vincolo che una determinata pronuncia giurisprudenziale assume per le decisioni successive, si configura come semi-aperto perché fondata non solo su disposizioni di legge riguardanti settoriali e dettagliate discipline ma anche su cd. clausole generati, e cioè su indicazioni di “valori” ordinamentali, espressi con formule generiche (buona fede, solidarietà, funzione sociale della proprietà, utile sociale dell'impresa, centralità della persona) che scientemente il legislatore trasmette all'interprete per consentirgli, nell'ambito di una più ampia discrezionalità, di “attualizzare” il diritto, anche mediante l'individuazione (là dove consentito, come nel caso dei diritti personali, non tassativi) di nuove aree di protezione di interessi.

    In tal modo, con evidente applicazione del modello ermeneutico tipico della interessenjurisprudenz (c.d. giurisprudenza degli interessi, in contrapposizione alla begriffsjurisprudenz o giurisprudenza dei concetti quale espressione di un esasperato positivismo giuridico) si evita sia il rischio, insito nel c.d. sistema chiuso (del tutto codificato e basato sul solo dato testuale delle disposizioni legislative senza alcun spazio di autonomia per l'interprete), del mancato, immediato adeguamento all'evolversi dei tempi, sia il rischio che comporta il cd. sistema aperto, che rimette la creazione dette norme al giudice sulla base anche di parametri socio-giuridici (ordine etico, coscienza sociale etc.) la cui valutazione può diventare arbitraria ed incontrollata.

    La funzione interpretativa del giudice, i suoi limiti, la sua vis expansiva sono, dunque, funzionalmente collegati all'assetto costituzionale del nostro ordinamento quale Stato di diritto anch'esso caratterizzato dal Rute of law (vale a dire dal principio di legalità), assetto in cui il primato della legge passa necessariamente attraverso l'attività ermeneutica del giudice.

    Pertanto, proprio in virtù di una interpretazione basata sulla pluralità delle fonti e, nel caso in esame, sulla clausola generale della centralità della persona, si addiviene a ritenere il nascituro soggetto giuridico. Tale tesi trova conforto in numerose disposizioni di legge, oltre che in precedenti giurisprudenziali di questa Corte e della Corte Costituzionale. Ed, infatti, l'art. 1 della legge n. 40/2004, nell'indicare le finalità della procreazione medicalmente assistita statuisce la tutela dei diritti “di tutti i soggetti coinvolti compreso il concepito” (tra l'altro, la Corte costituzionale ha dichiarato con sentenza n. 45/2005 inammissibile la richiesta di sottoporre a referendum abrogativo della intera legge perché “costituzionalmente necessaria” in relazione agli interessi tutelati, anche a livello internazionale, con particolare riferimento alla Convenzione di Oviedo del 4-4-1997); l'art. 1 della legge n. 194/1978 prevede testualmente che “lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio”; l'art. 254, 1 comma, c.c. prevede che il riconoscimento del figlio naturale può effettuarsi non solo a favore di chi è già nato ma anche dopo il solo concepimento; la legge n. 405/1975, nel disciplinare l'istituzione dei consultori familiari, afferma esplicitamente l'esigenza di protezione della salute del “prodotto del concepimento”; l'art. 32 Cost. (che oltre a prevedere come fondamentale il diritto alla salute e che ha costituito norma primaria di riferimento per l'interprete in relazione all'evoluzione dei diritti della persona), riferendosi all'individuo quale destinatario della relativa tutela, contempla implicitamente la protezione del nascituro; “il diritto alla vita”, quale spettante ad “ogni individuo”, è esplicitamente previsto non solo dall'art. 3 della Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo del 1948 (approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10-11-1948) ma anche dall'art. 2 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 7-12-2000 (poi inglobata nella Costituzione europea), alla quale il recente Trattato di Lisbona (con il quale in data 13-12-2007 i capi dei governi europei hanno deciso di dotare l'Unione europea di nuovo assetto istituzionale) ha riconosciuto l'efficacia, negli ordinamenti degli Stati-membri, propria dei Trattati dell'Unione europea; la Corte Costituzionale con la sentenza n. 35/1997 attribuisce al concepito il diritto alla vita, dando arto che il principio della tutela della vita umana è stato oggetto anche di un riconoscimento nella Dichiarazione sui diritti del fanciullo (approvata dalla Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1959 a New York e nel cui preambolo è previsto che “il fanciullo, a causa della sua mancanza di maturità fisica ed intellettuale, necessita di una protezione e di cure particolari, ivi compresa una protezione legale appropriata, sia prima che dopo la nascita”).

    Deve, quindi, oggi intendersi per soggettività giuridica una nozione senz'altro più ampia di quella di capacità giuridica delle persone fisiche (che si acquista con la nascita ex art. 1, 1° comma, c.p.c.), con conseguente non assoluta coincidenza, da un punto di vista giuridico, tra soggetto e persona, e di quella di personalità giuridica (con riferimento agli enti riconosciuti, dotati conseguentemente di autonomia “perfetta” sul piano patrimoniale): sono soggetti giuridici, infatti, i titolari di interessi protetti, a vario titolo, anche sul piano personale, nonché gli enti non riconosciuti (che pur dotati di autonomia patrimoniale "imperfetta" sono idonei a essere titolari di diritti ed a esercitarli a mezzo dei propri organi rappresentativi; sul punto, Cass. N. 8239/2000). In tale contesto, il nascituro o concepito risulta comunque dotato di autonoma soggettività giuridica (specifica, speciale, attenuata, provvisoria o parziale che dir si voglia) perché titolare, sul piano sostanziale, di alcuni interessi personali in via diretta, quali il diritto alla vita, il diritto alla salute o integrità psico-fisica, il diritto all'onore o alla reputazione, il diritto all'identità personale, rispetto ai quali l'avverarsi della condicio iuris della nascita ex art. 1, 2 comma, c.c. (sulla base dei due presupposti della fuoriuscita del feto dall'alveo materno ed il compimento di un atto respiratorio, fatta eccezione per la rilevanza giuridica del concepito, anche sul piano patrimoniale, in relazione alla successione mortis causa ex art. 462 c.c. ed alla donazione ex art. 784 c.c.) è condizione imprescindibile per la toro azionabilità in giudizio a fini risarcitori; su tale punto non può non rilevarsi come la questione della soggettività del concepito sia stata già posta più volte all'attenzione del legislatore italiano con alcuni disegni e proposte di legge (tra cui in particolare il disegno di legge n. 1436/1996, di iniziativa di alcuni senatori e la proposta di legge n. 2965/1997 di iniziativa di alcuni deputati).

    Ne deriva che, se da un lato, per quanto esposto, appaiono condivisibili le asserzioni già in precedenza espresse da questa Cotte e di cui alla sentenza n. 11503/1993 (poi pedissequamente fatte proprie dalla sentenza n. 14488/2004) secondo cui “lo stesso diritto alla salute che trova fondamento nell'art. 32 Cost., per il quale la tutela della salute è garantita come fondamentale diritto dell'individuo, oltre che interesse della collettività, non è limitato alle attività che si esplicano dopo la nascita od a questa condizionate, ma deve ritenersi esteso anche al dovere di assicurare le condizioni favorevoli per l'integrità del nascituro nel periodo che la precedono. Numerose norme prevedono del resto forme di assistenza sanitaria alle gestanti non al solo fine di garantire la salute della donna ma altresì al fine di assicurare il miglior sviluppo e la salute stessa del nascituro”, non altrettanto può dirsi, dall'altro lato, in ordine alle ulteriori affermazioni (sempre in dette sentenze) secondo cui “attraverso tali norme non viene ovviamente attribuita al concepito la personalità giuridica, ma dalle stesse si evince chiaramente che il legislatore ha inteso tutelare l'individuo sin dal suo concepimento, garantendo se non un vero e proprio diritto alla nascita, che sia fatto il possibile per favorire la nascita e la salute”. Ciò in quanto, a parte la considerazione che attualmente l'espressione personalità giuridica ha acquisito uno specifico significato tecnico (come sopra già detto) con riferimento alla sola categoria degli enti riconosciuti (perché è proprio il riconoscimento che attribuisce personalità, ma non soggettività, e con essa un particolare regime di responsabilità patrimoniale), non si può riconoscere all'individuo-concepito la titolarità di un interesse protetto senza attribuirgli soggettività.

    Con specifico riferimento al thema decidendum in esame il nascituro ha, dunque, il diritto a nascer sano, in virtù, in particolare, degli artt. 2 e 32 della Costituzione (senza dimenticare l’art. 3 della citata Dichiarazione di Diritti fondamentali dell'Unione europea che esplicitamente prevede il diritto di ogni individuo all'integrità psico-fisica); su tale aspetto, la relativa lesione in questione a carico di P.F. risulta correttamente affermata e motivata sulla base dell'inadempimento detto specifico obbligo a carico sia dell'A., nella qualità, che del C. di non somministrare medicinali potenzialmente dannosi, anche dal punto di vista teratogeno nonché dell'obbligo di corretta informazione, ai fini del consenso, nei confronti della V. in ordine ai rischi della terapia adottata (obbligo, quest'ultimo, che “si riflette” anche nei confronti di P.F., quale terzo destinatario di effètti protettivi in relazione al rapporto madre-medico).

    La Corte territoriale, infatti, sulla base delle risultanze processuali e della discrezionale valutazione dei dati delle espletate consulenze tecniche d'ufficio, non ulteriormente esaminabili nella presente sede di legittimità, dopo aver premesso che “l'A. ha dichiarato nel suo atto di appello di non impugnare la sentenza, nella parte in cui ha riconosciuto che la V. si rivolse al suo studio (e non al C.) per la cura della sua sterilità ed ha, conseguentemente, dichiarato resistenza di un rapporto contrattuale tra l'appellante e la donna, da cui è derivata la responsabilità del detto medico per le malformazioni del minore F.”, ha statuito che “da tutto quanto osservato discende innanzitutto la considerazione che i medici curanti, che non potevano essere all'oscuro dei rischi rappresentati dal farmaco prescritto per la presenza di studi scientifici in proposito anche all'epoca della prescrizione, sono colpevoli in quanto non hanno reso edotta la dorma di tali rischi, anche se non frequenti; la conoscenza di essi avrebbe consentito ai coniugi P. di valutare appieno la scelta di ricorrere o meno a tale farmaco per indurre l'ovulazione, ben consapevoli delle possibilità, a cui andavano incontro, di insorgenza di malformazioni nel feto. In secondo luogo, considerato che non può escludersi la capacità teratogena del clomifene, la sua presenza in circolo all'epoca del concepimento, l'assenza di aberrazioni cromosomiche nei genitori del piccolo F. e di altre cause scatenanti, nonché il verificarsi proprio di alcune di quelle malformazioni evidenziate dalla letteratura scientifica e dalla stessa casa farmaceutica produttrice della sostanza, deve riconoscersi che le malformazioni da cui è affetto il minore fin dalla nascita vadano ascritte alla assunzione, da parte della madre, di clomifene”.

    Detto argomentare evidenzia che il comportamento posto in essere dall'A. e dal C. ha riguardato, provocando i danni per cui è processo, P.F. dopo il suo concepimento (questione di fatto non ulteriormente valutabile da questa Corte) e risulta in linea con quanto già asserito dalla giurisprudenza di legittimità sulla responsabilità medica nei confronti del nascituro in ordine alla somministrazione di fermaci anche potenzialmente dannosi per la salute, e indipendentemente da una corretta informazione ai fini del consenso. Deve premettersi, in generale, che sia il contratto che la paziente pone in essere con la struttura sanitaria e sia il contratto della stessa con il singolo medico risultano produttivi di effetti, oltre che nei confronti delle stesse parti, anche di ulteriori effetti, c.d. protettivi, nei confronti del concepito e del genitore, come terzi (sul punto, tra le altre, Cass. n. 14488/2004, n. 698/2006, n. 13953/2007, e n. 20320/2005); ciò in quanto, con specifico riferimento al tema in esame, l'efficacia del contratto, che si determina in base alla regola generale ex art 1372 c.c. ovviamente tra le parti, si estende a favore di terzi soggetti, più che in base alla pur rilevante disposizione di cui all'art. 1411 c.c., in virtù della lettura costituzionale dell'intera normativa codicistica in tema di efficacia e di interpretazione del contratto, per cui tale strumento negoziale non può essere considerato al di fuori della visione sociale (e non individuale) del nostro ordinamento, caratterizzato dalla centralità della persona. Se, in tale prospettiva, causa del contratto (sia tipico che atipico) è la sintesi degli interessi in concreto dei soggetti contraenti, quale fonte dei c.d. effetti essenziali che lo stesso produce, non può negarsi all'accordo negoziale che intercorre tra una paziente-gestante, una struttura sanitaria ed i medici l'idoneità a dar luogo a conseguenze giuridiche riguardo al soggetto nascituro e all'altro genitore, nella sua qualità di componente familiare; detto accordo, infatti, “si proietta” nei confronti del destinatario “finale” del negozio (il concepito che poi viene ad esistenza) come anche nei confronti di chi (genitore), insieme alla madre, ha i diritti ed i doveri nei confronti dei figli di cui all'art. 30 Cost. ed alla connessa normativa codicistica ed ordinaria.

    Riguardo al consenso informato, deve ribadirsi che la relativa esigenza del suo “realizzarsi” trova riscontro, oltre che in quanto previsto in tema di Codice deontologico dei medici (dapprima nella versione del 1998 agli artt. 30 e 32 e in seguito in quella del 2006 agli artt. 33 e 35, per cui il medico deve correttamente ed esaurientemente informare il paziente in ordine alle terapie praticate al fine di ottenere il consenso), principalmente nell'art. 32, secondo comma, Cost. (a norma del quale “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”), nell'art. 13 Cost. (che garantisce l'inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute ed integrità fisica), nell'art. 33 della legge n. 833/1978 (che esclude trattamenti salutari contro l'assenso del paziente se questo non è in grado di esprimerlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità ex art. 54 c.p.); detto consenso ha come presupposto una attività di corretta informazione, sia nella fase di formazione del consenso, sia nella fase antecedente che in quella di esecuzione del contratto, riconducibile (come in altri settori) alla clausola generale di buona fede del nostro ordinamento civilistico ex artt. 1175, 1337, 1375 c.c.

    La violazione di tale obbligo comporta, consistendo in un dovere di comportamento, non un vizio (nullità) del contratto stesso, in mancanza di una esplicita previsione in tal senso, bensì il risarcimento del danno, come di recente affermato da questa Corte a Sezioni Unite (con la sentenza n. 26724/2007). Come bene messo in evidenza nella decisione impugnata, nella vicenda in esame la mancata osservanza dell'obbligo dei sanitari del consenso informato ha riguardato esclusivamente la somministrazione a fini terapeutici di medicinali poi rivelatisi dannosi per il concepito e non l'eventuale esercizio del diritto all'interruzione di gravidanza; in proposito ha affermato la Corte territoriale che “non appare rilevante la censura dell'appello principale riguardante l'omessa rilevazione e comunicazione alla V. delle malformazioni del feto, onde consentirle di ricorrere all'aborto terapeutico... non potrebbe, a prescindere dalla sussistenza o meno di tali requisiti, comunque riconoscersi un risarcimento a tale titolo, poiché la donna non ha dimostrato che essa avrebbe effettivamente esercitato il diritto all'interruzione di gravidanza, se fosse stata esattamente informata dal medico sulle malformazioni del feto”: è dunque evidente che detta mancanza di consenso (ai fini della terapia e non dell'interruzione di gravidanza), in relazione anche agli effetti nei confronti del nascituro, ha determinato l'obbligo a carico del responsabile al risarcimento del danno.

    Non sfugge, infatti, a questo Collegio che la mancanza di consenso informato, nella diversa fattispecie da quella in esame con riguardo alla interruzione volontaria di gravidanza (e non in relazione alla sola effettuazione di una terapia), non può dar luogo a risarcimento anche nei confronti del nascituro poi nato con malformazioni, oltre che nei confronti della gestante-madre; ciò perché, in base alla condivisibile giurisprudenza di questa Corte (sul punto, tra le altre, la già citata sentenza n. 14488/2004, la n. 6735/2002 e la n. 16123/2006) non è configurabile nel nostro ordinamento un diritto “a non nascere se non sano” perché, in base alla legge n. 194/1978, sull'interruzione volontaria di gravidanza, e in particolare agli artt. 4 e 6 nonché all'art. 7, 3 comma, che prevedono la possibilità di interrompere la gravidanza nei soli casi in cui la sua prosecuzione o il parto comportino un grave pericolo per la salute o la vita della donna, deve escludersi nel nostro ordinamento il c.d. aborto eugenetico. Pertanto il concepito, poi nato, non potrà avvalersi del risarcimento del danno perché la madre non è stata posta nella condizione di praticare l'aborto; tale circostanza non è in contrasto con la tutela riconosciuta al nascituro, quale soggetto giuridico, ed ai suoi interessi e non prospetta profili di incostituzionalità per quanto affermato anche dalla Corte Costituzionale, con la pronuncia n. 27/1975 (anche se antecedente alla legge sulla interruzione volontaria di gravidanza), secondo cui, pur sussistendo una tutela costituzionale del concepito, deducibile dagli artt. 31, secondo comma, e 2 Cost., gli interessi dello stesso possono venire in collisione con altri beni anch'essi costituzionalmente tutelati (come, nel caso di specie, la salute della madre). Del pari la Corte territoriale ha ritenuto la responsabilità dei medici curanti (A. oltre che C.) in ordine alla somministrazione di un farmaco dannoso, e ciò sulla base di una valutazione in fatto non ulteriormente censurabile nella presente sede di legittimità; ha affermato in proposito detta Corte: “né può l'A. asserire che, poiché il parto fu preso dai soli dottori C. e R., ogni responsabilità sia da ascrivere esclusivamente ai detti medici. Invero, innanzitutto è dimostrato con i testi e la documentazione della camere di commercio che il reparto della Clinica omissis, ove partorì la donna, è riservato alle partorienti in cura pressi il Centro omissis e che il dott. A. è azionista della detta Clinica; in secondo luogo, le malformazioni al minore non sono derivante da una cattiva conduzione del parto, bensì dalla somministrazione del clomifene, avvenuta durante il periodo in cui la V. era in cura presso il Centro omissis ed affidata al dott. C.. Deve, dunque, ritenersi la responsabilità concorrente dei dottori A. e C. per i danni causati agli attori”.

    Altresì infondata è l'ulteriore censura, sempre espressa nel primo motivo, in ordine alla dedotta violazione “dei principi in materia di rapporto di causalità”. Sul punto, deve ribadirsi quanto già statuito da questa Corte, secondo cui la valutazione del nesso di causalità (materiale), in sede civile, pur ispirandosi ai criteri di cui agli artt. 40 e 41 c.p. (per cui un evento è da considerarsi causato da un altro se il primo non può verificarsi in assenza del secondo), fatte salve alcune peculiarità, presenta una rilevante differenza in relazione ai parametri probatori. Infatti, stante la diversità dei valori in gioco tra la responsabilità penale (in cui principale punto di riferimento per il legislatore è l'autore del reato, in relazione a fattispecie tipiche) e quella civile (in cui il legislatore è di regola equidistante dalle parti contendenti, con particolari situazioni di tutela del danneggiato, e vige, per l'illecito aquiliano, la regola generale del neminem laedere), nel primo caso occorre che sia fornita la prova “oltre ogni ragionevole dubbio” (in tal senso l'ormai consolidato indirizzo della giurisprudenza penale di questa Corte) mentre in materia civile vige il diverso principio del “più probabile che non”, ovvero della prevalenza probabilistica, rispetto alla (quasi) certezza (sul punto, di recente Cass. S.U. n. 576/2008 nonché Cass. n. 21619/2007).

    Deve aggiungersi, poi, che in tema di responsabilità contrattuale (o da “contatto sociale”, spesso configurabile, sulla base della giurisprudenza di questa Corte, in caso di attività medico-chirurgica nell'ambito di strutture sanitarie), come nel caso in esame, rileva in particolar modo l'oggettiva “inesattezza” dell'adempimento da parte del debitore da compararsi al soggettivo criterio di valutazione del suo operato in base alla diligenza media o “rafforzata” di cui, rispettivamente, all'art. 1176, 1° e 2° comma, c.c..

    In definitiva, diversi sono i criteri di indagine in ordine alla responsabilità penale ed alla responsabilità civile, perché, con riferimento a quest'ultima, l’illecito extracontrattuale è “sanzionato” con il risarcimento del danno ove il fatto sia oggettivamente probabile e soggettivamente prevedibile, mentre la responsabilità contrattuale, anch'essa fonte in primis dell'obbligo risarcitorio, sussiste se la prestazione eseguita non corrisponde a quanto pattuito (per qualità, quantità, vizi, ritardo ed altro) in stretta connessione con il grado di diligenza richiesto nel caso di specie.

    Ciò premesso, nella vicenda in esame, risultando comunque l'accertamento della sussistenza del nesso di causalità come quaestio facti, è da rilevare che logica e sufficiente è la motivazione sul punto: sia l'A. che il C. sono stati ritenuti responsabili contrattualmente perché, da un lato, non hanno informato compiutamente la V. in relazione alla pericolosità dei fermaci prescritti, con ciò venendo meno allo specifico dovere di comportamento sopra richiamato (sul rapporto di causalità in tema di obbligo informativo, Cass. n. 14638/2004) e, dall'altro, hanno “inesattamente” adempiuto la prestazione a loro carico, in modo non diligente ai sensi dell’art. 1176, secondo comma c.c. prescrivendo un farmaco dannoso per il nascituro (sul tema, Cass. n. 11316/2003). In entrambe dette ipotesi è evidente la sussistenza del nesso di causalità: il comportamento omissivo ha impedito alla V. di acconsentire al trattamento (o di negarlo) in piena consapevolezza dei rischi connessi; la prescrizione del Clomid, sulla base di un'evidente e grave negligenza (per quanto accertato dalla Corte territoriale), ha determinato le lesioni e le malformazioni in oggetto.

    In relazione a tale ultimo punto in ordine alla diligenza professionale del medico-chirurgo, la sentenza in esame risulta in linea con quanto più volte affermato di recente da questa Corte (tra le altre, Cass. n. 12273/2004), secondo cui, in linea con la decisione della Consulta n. 166/1973, deve affermarsi che la limitazione stabilita dall'art. 2236 c.c., della responsabilità del prestatore d'opera intellettuale alla colpa grave, configurabile nel caso di mancata applicazione della cognizioni fondamentali attinenti alla professione, è applicabile soltanto per la colpa da imperizia nei casi di prestazioni particolarmente difficili; non possono invece mai difettare, neppure nei casi di particolare difficoltà, nel medico gli obblighi di diligenza del professionista che è un debitore qualificato, ai sensi dell'art. 1176, 2 comma c.c., e di prudenza, che pertanto, pur in casi di particolare difficoltà, risponde per colpa lieve.

    In parte infondato e in parte inammissibile è il secondo motivo (del ricorso principale) in ordine alla prova “offerta” dagli attori, con specifico riferimento alla “duplice” somministrazione del farmaco, nonché in ordine all'accoglimento “acritico” da parte della Corte territoriale del contenuto della relazione tecnica. Infondata è la censura sul regime probatorio nella controversia in esame: in proposito deve ribadirsi quanto già statuito in modo consolidato da questa Corte (tra le altre Cass. n. 9471/2004) che, dando luogo la relazione che si instaura tra medico (nonché la struttura sanitaria) e paziente ad un rapporto di tipo contrattuale (quand'anche fondato su solo contatto sociale), in base alla regola di cui all'art. 1218 c.c. compete non già al paziente “allegarne” e provarne la sussistenza, ma al medico ed alla struttura sanitaria dimostrarne la mancanza; il paziente ha l'onere di “allegare” l'inesattezza dell'adempimento non la colpa né tanto meno la gravità della colpa.

    Per il resto detto secondo motivo è inammissibile là dove tende ad un non consentito riesame delle risultanze di causa (modalità di somministrazione del Clomid) o dei dati della consulenza di ufficio, discrezionalmente valutabili dal giudice di merito.

    Altresì, inammissibile è il terzo motivo in quanto non censura, come tra l'altro esposto in sede di esame del primo motivo, la ratio decidendi dell'impugnata decisione, fondata sulla violazione di due obblighi (quello relativo all'informazione della paziente e quello riguardante la prescrizione di un farmaco potenzialmente dannoso), limitandosi ad esporre un convincimento proprio del ricorrente in antitesi a quello della Corte territoriale, con specifico riferimento alla violazione del diritto a nascere sano.

    Non meritevole di accoglimento è anche il ricorso incidentale in relazione a tutti i motivi.

    Quanto al primo motivo si osserva innanzitutto che la responsabilità del C. è stata affermata dalla Corte di Napoli in virtù di un compiuto esame delle risultanze processuali e con ampia e logica motivazione; ha dedotto, infatti, detta Corte che: “egli seguì la donna nell'ambito della struttura dell'A. per tutto il periodo della gravidanza e quello precedente, le prescrisse i fermaci e gli esami necessari e la operò al momento del parto, avvenuto con taglio cesareo... egli non ha dimostrato la assunta imposizione del protocollo da seguire e dei formaci da prescrivere da parte dell'A.; ...dagli atti di causa è emerso che egli collaborava con il Centro omissis da alcuni anni come assistente del titolare, era inserito nella struttura e veniva retribuito regolarmente per l'opera professionale prestata in favore delle pazienti del Centro (cfr. deposizioni dei testi di parte attrice e dei convenuti C. e R., nonché ricevute di pagamento degli emolumenti prodotti dal C.). Ma l'inserimento di un medico in una struttura pubblica o privata non lo esime certamente da responsabilità personale per l'opera professionale prestata ai pazienti, in considerazione del fatto che è proprio il medico che valuta il caso del paziente, decide il programma terapeutico da attuare e ne controllo l'evolversi nel tempo”.

    Quanto poi alla dedotta mancanza di una domanda di accertamento di responsabilità (e di conseguente pronuncia risarcitoria) nei confronti del C., si rileva: i coniugi P. -V. hanno convenuto sia l'A., nella qualità, che i dottori C. e R. per sentirli condannare al risarcimento di tutti danni subiti in relazione alla loro condotta complessiva nell'ambito del rapporto sanitario-paziente, che non può non comprendere, per quanto già esposto, sia ti dovere generale di una corretta informazione, sia l'obbligo di non prescrivere farmaci potenzialmente lesivi del bene salute (come poi “in concreto” accertato in sede di consulenza di ufficio); inoltre, mentre l'A., in sede di gravame, non proponeva alcuna domanda di condanna del C., solo prospettando una differente tesi rispetto a quanto ritenuto in primo grado, la condanna, a titolo solidale, nei confronti dello stesso C. fu introdotta innanzi al Tribunale da detti coniugi e dagli stessi riproposta, in via d'appello incidentale, secondo grado.

    Né, infine, l'appello principale dell'A. introduceva questioni “nuove” (rispetto all'originaria causa petendi), tali da comportare l'inammissibilità del gravame, con riflessi sull'impugnazione incidentale.

    Privo di pregio è anche il secondo motivo, in ordine al presunto giudicato formatosi sull'inserimento nella struttura e sull'esistenza di un rapporto contrattuale tra la V. e l'A., con ritenuta conseguente esclusione della responsabilità “diretta” del C.: in base degli artt. 1228 e 2232 c.c., va rilevato che la solidarietà tra vari soggetti obbligati verso il danneggiato non è esclusa dal diverso titolo di responsabilità a carico degli “ausiliari” o “sostituti” rispetto ai “padroni” o “committenti”, soprattutto in casi in cui un unico evento dannoso è ascrivibile a più persone, come nella vicenda in esame, in cui, per la Corte territoriale, il rapporto tra la V. ed i sanitari in questione, pur nella diversità dei compiti di ciascuno, era da considerarsi unico (come testualmente si afferma alle pagine 9 e 10 nella sentenza impugnata, in relazione alla “responsabilità concorrente dei dottori A. e C. per in danni causati agli attori”).

    In definitiva, si evince dalla motivazione dei giudici di secondo grado la configurazione dell'attività svolta dal C., nell'ambito del Centro omissis, da “contatto sociale” con la V., con conseguente assunzione di obblighi personali e diretti da parte del C..

    Inammissibili sono le doglianze di cui al terzo e il quarto motivo: a parte la considerazione, come già detto, che la Corte di Napoli ha dato ampiamente conto delle ragioni del decidere, anche con riferimento dei danni liquidati a P.F. ed ai suoi genitori (sia non patrimoniali che patrimoniali), le censure, in particolare, di cui a detti motivi in parte sono generiche (non è infatti dato comprendere “l'arbitrarietà” e la mancanza di motivazione in proposito dedotte dal ricorrente incidentale nel terzo motivo) e in parte riguardano circostanze di fatto (l'entità delle lesioni e dei danni patrimoniali in sede di terzo motivo nonché il comportamento del C. in ordine all'obbligo di informazione, la prova in proposito offèrta dalla V., la dannosità del Clomid in relazione alla terapia praticata nell'ambito del quarto motivo) non ulteriormente valutabili in questa sede.

    Per quanto già esposto, assorbito è il quinto motivo.

    In conclusione, deve affermarsi, stante la soggettività giuridica di P.F. sul piano personale (nei limiti indicati), quale concepito, il suo diritto a nascere sano ed il corrispondente obbligo di detti sanitari di risarcirlo (diritto al risarcimento che per il nascituro, avente carattere patrimoniale, è condizionato, quanto alla titolarità, all'evento nascita ex art. 1, 2° comma, c.c., ed azionabile dagli esercenti la potestà) per mancata osservanza sia del dovere di una corretta informazione (ai fini del consenso informato) in ordine alla terapia prescritta alla madre (e ciò in quanto il rapporto instaurato dalla madre con i sanitari produce effetti protettivi nei confronti del nascituro), sia del dovere di somministrare fermaci non dannosi per il nascituro stesso. Non avrebbe invece quest'ultimo avuto diritto al risarcimento qualora il consenso informato necessitasse ai fini dell'interruzione di gravidanza (e non della mera prescrizione di formaci), stante la non configurabilità del diritto a non nascere (se non sano). Ancora, e sempre sulla base del nesso di causalità quale prospettabile nella vicenda in esame ai sensi dell'art. 1218 e dell'art. 1176, 2 comma, c.c., risulta dovuto, come stabilito nella sentenza impugnata, il risarcimento in questione nei confronti dei coniugi P..

    In relazione alla natura della controversia sussistono giusti motivi per dichiarare interamente compensate tra tutte le parti le spese del presente giudizio.

    Infine, ricorrono i presupposti ex art. 52, secondo comma, d.lgs. n. 196/03, in materia di protezione di dati personali, per disporre, in caso di diffusione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, che sia omessa l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati nella presente controversia.


    P.Q.M.


    La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta sia il ricorso principale che il ricorso incidentale.

     
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  6. max112
     
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    Questi passaggi della sentenza mi erano sfuggiti. Penso che siano di importanza devastante:
    La valutazione del nesso di causalità (materiale), in sede civile, pur ispirandosi ai criteri di cui agli artt. 40 e 41 c.p. (per cui un evento è da considerarsi causato da un altro se il primo non può verificarsi in assenza del secondo), fatte salve alcune peculiarità, presenta una rilevante differenza in relazione ai parametri probatori. Infatti, stante la diversità dei valori in gioco tra la responsabilità penale (in cui principale punto di riferimento per il legislatore è l'autore del reato, in relazione a fattispecie tipiche) e quella civile (in cui il legislatore è di regola equidistante dalle parti contendenti, con particolari situazioni di tutela del danneggiato, e vige, per l'illecito aquiliano, la regola generale del neminem laedere), nel primo caso occorre che sia fornita la prova “oltre ogni ragionevole dubbio” (in tal senso l'ormai consolidato indirizzo della giurisprudenza penale di questa Corte) mentre in materia civile vige il diverso principio del “più probabile che non”, ovvero della prevalenza probabilistica, rispetto alla (quasi) certezza. Diversi sono i criteri di indagine in ordine alla responsabilità penale ed alla responsabilità civile, perché, con riferimento a quest'ultima, l’illecito extracontrattuale è “sanzionato” con il risarcimento del danno ove il fatto sia oggettivamente probabile e soggettivamente prevedibile, mentre la responsabilità contrattuale, anch'essa fonte in primis dell'obbligo risarcitorio, sussiste se la prestazione eseguita non corrisponde a quanto pattuito (per qualità, quantità, vizi, ritardo ed altro) in stretta connessione con il grado di diligenza richiesto nel caso di specie.

    La limitazione stabilita dall'art. 2236 c.c., della responsabilità del prestatore d'opera intellettuale alla colpa grave, configurabile nel caso di mancata applicazione della cognizioni fondamentali attinenti alla professione, è applicabile soltanto per la colpa da imperizia nei casi di prestazioni particolarmente difficili; non possono invece mai difettare, neppure nei casi di particolare difficoltà, nel medico gli obblighi di diligenza del professionista che è un debitore qualificato, ai sensi dell'art. 1176, 2 comma c.c., e di prudenza, che pertanto, pur in casi di particolare difficoltà, risponde per colpa lieve.
     
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  7. seppietta
     
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    Per memorizzare: Massima sulla sentenza sopradettagliata:

    Soggettività giuridica del nascituro e diritto al risarcimento del danno

    Limitatamente alla titolarità di alcuni interessi personali protetti, deve essere affermata la soggettività giuridica del nascituro, e il nesso di causalità tra il comportamento dei medici e le malformazioni dello stesso nascituro che, con la nascita, acquista l'ulteriore diritto patrimoniale al risarcimento.

    Cassazione civile Sentenza 11/05/2009, n. 10741
     
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  8. mammavvocato
     
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    Grazie per il contributo, stavo proprio predisponendo una conclusionale per conto di un'ospedale in un caso del genere (feto con gravi malformazioni congenite, il medico nelle ecografie non se ne accorge e la madre chiede risarcimento del danno per non aver potuto abortire). ;)
     
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  9. seppietta
     
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    Dipende da chi devi difendere: a lungo il diritto di nascere e di nascere sano non è stato riconosciuto, si aprono ora i primi spiragli, quindi c'è una giurisprudenza consolidata e maggioritaria che potrebbe deporre a favore dle medico e della struttura ospedaliera e qualche sentenza recente che apre la breccia alla rivendica di questa mamma, altrimenti va spostato il problema sul danno non patrimoniale della madre che ha subìto uno choc. In mancanza di un preciso ancoraggio normativo puoi muoverti lungo tutto l'asse - a mio modesto avviso, ovvio.
     
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  10. mammavvocato
     
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    Difendo l'ospedale. Nel mio caso le malformazioni sono congenite, il processo penale ha già accertato che non dipendono dalla condotta del medico. La madre lamenta di non essere stata informata circa le malformazioni e, quindi, non aver potuto abortire. La sentenza mi è utile perchè conferma una sent. del 2006 secondo cui nel nostro ordinamento non esiste l'aborto eugenetico e non esiste un diritto a non nascere se non sano. La CTU ha valutato un bassissimo danno biologico alla madre, con la conseguenza che, in mancanza del grave danno psichico, comunque non avrebbe potuto abortire.
    Mi sembra, ma vorrei conoscere la vostra opinione, che il diritto a nascere sano e il diritto a non nascere se non sano sono due cose differenti, nel senso che è responsabile chi non fa nascere sano, ma non ogni ipotesi di bambino nato "non sano" sia suscettibile di risarcimento.
    Vorrei precisare che ho letto la sentenza abbastanza in fretta e se ci sono passaggi che mi sfuggono vi prego di indicarmeli.
     
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  11. seppietta
     
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    Nascere sani: un diritto?

    di Emanuela Salaris

    Le riflessioni sull’argomento, trovano da sempre spazio nelle lotte tra dottrina e giurisprudenza, di recente, l’argomento è stato ampiamente ripreso nella sentenza 10741/2009 del Supremo Consesso.

    La richiamata sentenza, sottolinea, come nel nostro ordinamento, non sussista “un diritto a non nascere se non sani”. Di fatto, l’art. 1 c.c., non stabilisce la nozione e i caratteri “giuridici” del fatto naturale della nascita, in quanto la vitalità viene intesa quale autonomia della persona venuta alla vita di continuare la stessa al di fuori dell’alveo materno.

    La Cassazione, con sentenza 3467/1973, sottolineava come l’art 1 c.c. sia di stretta interpretazione, ovvero non possa tradursi estensivamente, con l’inserimento di concetti fuorvianti da ciò che “tassativamente” indica.

    Attualmente, si è posto il problema di un giovane, il quale divenuto maggiorenne, cita il medico che nell’aiutare la genitrice ad avere una gravidanza, somministra un medicinale che è causa determinante delle malformazioni al ragazzo.

    Sussiste, certamente, un mancato consenso informato sull’accettazione delle possibili conseguenze procurate dal farmaco, e pertanto un diritto al risarcimento, per la mancata possibilità della donna di scegliere autonomamente l’accettazione del rischio relativo alla terapia.

    Da ciò discendendone una evidente violazione del suo diritto all’autodeterminazione, dato che è riconosciuto alla donna un vero e proprio diritto soggettivo perfetto all’aborto, ma la recente sentenza, scinde ciò che è di tutta evidenza violazione dei diritti di entrambi ovvero sia della gestante che del figlio, ma sottolinea come al contrario, non possa contestualmente essere risarcito un diritto alla vita sana.

    A riguardo, anche tempo addietro, la giurisprudenza, ha negato la possibilità di configurare una responsabilità risarcitoria ex art. 2043 c.c., del figlio nei confronti del genitore per le malformazioni con cui è nato, allo stesso modo l’attuale giurisprudenza, conferma tale presa di posizione anche nei confronti del medico, posto che l’assoluta integrità fisica e la salute, in senso pieno, non possono considerarsi beni posseduti e pertanto violati o considerarsi beni di sicura acquisizione che siano stati ostacolati.

    Per danno, si intende genericamente nel nostro ordinamento, perdita o mancato acquisto di un bene, nel caso del neonato, tale danno, non trova rilevanza qualora derivi da un fatto lesivo sofferto nella vita endouterina.

    Ma occorre anche fare un passo indietro, infatti, la domanda da porre è se sussista un diritto innanzitutto alla vita, e conseguentemente un diritto alla vita sana.

    A tal riguardo, occorre sottolineare come non trovi affermazione un diritto alla vita del concepito.

    Ciò si evidenzia innanzitutto dalla L. 78/94, il concepito non ha capacità giuridica e prima della sua nascita, manca del tutto un destinatario cui attribuire diritti.

    Per tale ragione, il nato non sano, non può trovare soddisfazione alla sua frustrazione fisica, in quanto il diritto da lui vantato è per il nostro ordinamento un diritto adespota, ovvero senza titolare.

    La nascita, non sostiene il perdurare di quello specifico diritto vantato, in quanto con il suo accadimento viene ad esaurirsi.

    Il concepito, vanta solo di una attribuzione di taluni diritti di carattere esclusivamente patrimoniale, i quali però vengono subordinati all’evento della nascita, in assenza di una legge sull’argomento, la via risarcitoria rimarrà preclusa se non a condizione di riconoscere la piena capacità anche al nascituro.

     
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  12. seppietta
     
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    La Legge 194/1978 e il problema della soggettività del feto
    Articolo di Caterina Passalacqua 21.01.2010
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    | soggettività del feto | aborto | Caterina Passalacqua |

    La Legge 194/1978 e il problema della soggettività del feto

    di Caterina Passalacqua


    Sommario: 1. Introduzione - 1.1. Aborto: Ratio e origini storiche - 2. L’aborto nell’ordinamento italiano - 3. La legge 194 del 1978: Una riforma necessaria o superflua? - 4. Conclusioni.



    1. Introduzione


    L’articolo 1 del codice civile recita: La capacità giuridica si acquista al momento della nascita.

    Da ciò consegue che l’acquisto dell’attitudine ad essere titolari di diritti e di doveri è successivo al venire alla luce.

    Si dovrebbe quindi sostenere che il feto, anteriormente al parto, non ha diritti?

    O piuttosto riconoscere il diritto inviolabile per eccellenza quale il diritto alla vita?

    1.1. Aborto: Ratio e origini storiche


    Per la scienza medica l’aborto è “l’interruzione spontanea o indotta della gravidanza in un periodo in cui il feto manca ancora di vitalità” e cioè l'interruzione della gravidanza entro il centoottantesimo giorno dal concepimento, periodo in cui il prodotto del concepimento è incapace di vita extrauterina.

    Per il diritto penale, invece, è l'interruzione intenzionale e violenta del processo fisiologico della gravidanza, con la conseguente morte e distruzione del prodotto del concepimento avvenuta in un qualsiasi momento del periodo che va dall'insorgere della gravidanza all'inizio del parto.[1]

    Riguardo alla punibilità dell’aborto nel tempo, è necessario compiere un breve excursus storico.

    In epoca romana classica l’abòrtus non è un atto penalmente rilevante, bensì immorale, che può autorizzare l’esercizio, nei confronti del pater familias che abbia autorizzato la donna ad abortire, della nota censoria. Il disvalore riguarda il solo piano morale e non quello prettamente giuridico in quanto il feto è portio mulieris vel viscerum, non è cioè un soggetto autonomo.

    In età imperiale Antonino Pio e Settimio Severo rendono reato l’aborto fondando l’illiceità della condotta sulla offesa subita dal pater familias che è privato così della possibilità di avere un erede.

    Infine in epoca giustinianea si configura come delitto contro il nascituro, con probabile influenza cristiana.[2]

    Nella Grecia antica il dibattito morale sull’aborto si arricchisce di spunti più “secolari”:

    Licurgo impone un peculiare genus di aborto, quello eugenetico: Tutti gli infanti nati deformi e minorati devono essere gettati dal monte Taigeto, per mantenere la razza spartana καλὸς καὶ ἀγαθός[3]; Aristotele nella sua opera “Politica” lo propone come mezzo di controllo della questione demografica[4].

    Contro l’aborto si schiera invece Ippocrate nel celebre giuramento:

    “Οὐ δώσω δὲ οὐδὲ φάρμακον οὐδενὶ αἰτηθεὶς θανάσιμον, οὐδὲ ὑφηγήσομαι ξυμβουλίην τοιήνδε. Ὁμοίως δὲ οὐδὲ γυναικὶ πεσσὸν φθόριον δώσω”[5] afferma il noto medico nativo di Cos.

    E’ evidente come l’uomo di ogni tempo si ponga questo quesito dall’arduo responso.

    Come distinguere l’uomo dalla res? Come definire il discrimen tra l’uomo in quanto vita formata e l’essere “vita in fieri”?

    Dalla risposta a queste domande deriva un diverso orientamento dell’ordinamento giuridico.

    Nel Nuovo Continente si è affermata la cd. “bioetica americana”, secondo la quale prima della nascita non si può parlare di soggettività ma di entità assimilabile a res, quindi di un bene suscettibile di soddisfare gli interessi dell’uomo, uno “strumento” dell’uomo. A tale concezione corrisponde un principio di autodeterminazione della donna esponenziale, in quanto l’aborto viene concepito come espressione della libertà della gestante di disporre liberamente del proprio corpo, e quindi anche del feto, che essendo res, “soccombe” rispetto al bene superiore della autodeterminazione della donna.

    La Costituzione Federale Americana non enuncia infatti un diritto alla vita del feto, e d’altra parte non vieta l’aborto se non quando compiuto nell’ultimo trimestre (fatto sempre salvo il caso di pericolo di vita della donna)[6].

    La posizione del “salotto” europeo è antitetica: Il feto è considerato una spes vitae, ed è un’entità vitale, un minus e non un aliud rispetto alla vita già formata.

    Di tale orientamento è esplicazione la Convenzione di Oviedo del 1997 sulla biomedicina, che riconosce infatti soggettività al feto, sebbene riconducibile a pochi ma essenziali diritti, tra i quali il rispetto della dignità umana dell’embrione, il diritto alla identità personale (il divieto di replicare la componente genetica di un soggetto), il diritto alla vita e il divieto di costituzione di embrioni a fini di ricerca[7].

    Acceso è tuttavia il dibattito in Europa in merito alla definizione del bilanciamento tra il bene vita del nascituro e i beni vita e autodeterminazione della donna, e non univoca è la posizione degli ordinamenti in merito alla risoluzione di questa antinomia.

    2. L’aborto nell’ordinamento italiano


    Il delitto di aborto nella previgente formulazione era collocato nel titolo X del codice penale tra le ipotesi criminose lesive della integrità e della sanità della stirpe negli articoli 545- 551 c.p., ora abrogati.

    Negli articoli 545, 547, 549 c.p. si evidenziava un climax decrescente di rigore del trattamento sanzionatorio, fondato sull’atteggiamento più o meno partecipe della gestante.

    Questa disciplina risultava dal connubio di due correnti:

    Quella individualistica, volta ad attribuire alla donna la libertà di disporre del proprio corpo e con esso della vita del nascituro, e quella collettivistica, che accusa l’aborto di determinare un pericolo per l’accrescimento della popolazione.[8]

    In base alla Legge 194/1998 all’incriminazione della condotta si affianca la previsione di casi particolari in cui l’interruzione volontaria della gravidanza è consentita.

    A differenza del primo orientamento del legislatore, aderente alla visione collettivistica, nel successivo intervento ritorna sui suoi passi seguendo quella individualistica.

    La Legge 194 si fonda sul bilanciamento tra l’interesse alla vita del nascituro e l’interesse della donna a liberamente disporre del proprio corpo (fermi restando i limiti stabiliti dall’articolo 5 c.c.).

    Lasciati nel dimenticatoio l’onore e le altre eccezionali ipotesi in cui si escludeva o si attenuava la rilevanza penale della condotta, la disposizione dell’articolo 4 consente l’interruzione volontaria della gravidanza entro i primi 90 giorni, in presenza di “circostanze per le quali la prosecuzione della gestazione, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute o alle sue condizioni economiche o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”.

    Con la fissazione del primo trimestre si è inteso stabilire un limite temporale, fondato sulla necessità di definire un momento orientativo in cui il feto è ancora un organismo in stato di formazione e non una vita a tutti gli effetti.

    Conseguentemente, decorsi i novanta giorni, la donna può compiere l’aborto solo se il feto è in condizioni così fatalmente alterate da costituire un prodotto patologico, non un organismo umano in sviluppo.

    Si tratta di aborto terapeutico che sussiste, in forza dell’articolo 6, quando siano accertati processi patologici del nascituro che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna o quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della stessa.

    In queste ipotesi si appalesa il conflitto di cui è intrisa la materia: Si interagisce con una vita in formazione che ha lo stesso diritto della gestante di esistere e realizzarsi.

    Si è oggi aperto un acceso dibattito in dottrina in merito al confine tra la libertà di autodeterminazione della donna e il diritto alla salute del nascituro con riferimento ad una serie di attività “quotidiane”, abitualmente poste in essere dalla donna prima dello stato interessante, e che però sono potenzialmente lesive del benessere del feto, quali fumo e sport.

    L’orientamento prevalente, anche avallato dalla giurisprudenza [9], sostiene che “l’interesse costituzionalmente protetto relativo al concepito può venire in collisione con altri beni che godano pur essi di tutela costituzionale e, di conseguenza, la legge non può dare al primo una prevalenza totale ed assoluta, negando ai secondi adeguata protezione”: a ciò consegue che alla madre non può essere impedito di realizzarsi come persona, anche nel corso della gestazione, nei limiti del non abuso.

    3. La legge 194 del 1978: Una riforma necessaria o superflua?


    Recentemente, nel dicembre 2007, si è assistito ad un crescente interesse dell’opinione pubblica e della politica per una riforma della legge 194, destato dall’ iniziativa di Giuliano Ferrara, giornalista e personaggio televisivo, di una moratoria “per la vita”.

    In essa l’aborto viene definito una pena di morte legale di “tutti quegli essere umani concepiti nell'amore o nel piacere e poi destinati alla mannaia dell’asportazione chirurgica o a quella del veleno farmacologico via pillola Ru486".

    Agli antipodi si pongono coloro che propendono invece per una normativa meno rigorosa e più aderente alle necessità della donna moderna: Si tratta di un orientamento certamente influenzato dalla bioetica americana, cui si è accennato sopra. D’altra parte va ammesso che se rigorosa è l’applicazione della legge nelle ipotesi eccezionali in cui si ammette la liceità della condotta abortiva, non altrettanto autentica è l’attuazione di quella disposizione[10], forse meno appetibile al dibattito, in cui si afferma che la donna deve essere posta nella condizione di poter scegliere se continuare la gravidanza, consapevole di non essere abbandonata a se stessa e di poter usufruire del prezioso aiuto dell’assistenza sociale e degli operatori sanitari.

    Si potrebbe quindi azzardare che la legge 194 non richiede tanto uno sforzo legislativo, bensì politico e sociale, e di natura altresì propulsiva e non demolitoria.

    4. Conclusioni



    Tenuto conto delle riflessioni sopra espresse, alla domanda iniziale se possa essere riconosciuto l’embrione come soggetto di diritto si potrebbe rispondere che si tratta di una soggettività diversa,e sebbene sia un aliud e minus rispetto a quella successiva alla nascita, non per questo essa deve essere omessa.

    Bibliografia


    Voce Aborto, Dizionario Giuridico online Edizioni Giuridiche Simone;
    Voce Abòrtus, Dizionario Storico-Giuridico Romano online Edizioni Giuridiche Simone;
    G. Zuccalà, v. Aborto, in Enc. dir., I, p.128 e ss., Giuffrè Editore, Varese, 1967.
    _____________

    [1] Voce Aborto, Dizionario Giuridico online Edizioni Giuridiche Simone.

    [2] Voce Abòrtus, Dizionario Storico-Giuridico Romano online Edizioni Giuridiche Simone.

    [3] La Kalogakathìa nella cultura greca indica l’ideale di perfezione umana, συ̃νκραςις di καλός καί αγαθός, bellezza e altezza morale.

    [4] “Quanto alla esposizione, e allo allevamento dei figliuoli, facciasi una legge, che è non si possa allevare nessun parto che manchi dei membri suoi; e per riparare al troppo numero d’essi, se l’ordine della città proibisse, cioè che e’ non si potessino esporre, e’ bisogna in qualche modo determinare questo numero. E se fuori di tale determinazione alcuni pure avessino più multiplicato in figliuoli, debbesi fare sconciare le donne innanzi che li feti abbino senso, o vita; imperocchè, il pio e il perfetto è quando il feto ha senso, e vita” in Trattato dei Governi di Aristotele, traduzione di Bernando Segni, Editori Sonzogno, Milano, 1905.

    [5] Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; Similmente a nessuna donna darò un medicinale abortivo.

    [6] Va tuttavia registrato un recente cambiamento di rotta: Nel 1989 la Corte ha giudicato che una legge che incriminava l’aborto di feti suscettibili di vita autonoma dopo la ventesima settimana di gravidanza, e quindi prima dell’ultimo trimestre, non violava la Costituzione( Webster v. Reproductive Health Service). V., nello stesso senso, G. Bognetti, in Enciclopedia giuridica Treccani, v. Aborto, I, Roma, 1988.

    [7] Gli articoli dedicati alla tutela dell’embrione sono 1, 2, 11, 12, 13, 14 e 18.

    [8] G. Zuccalà, v. Aborto, in Enc. dir., I, p. 128 e ss., Giuffrè Editore, Varese, 1967.

    [9] Corte Costituzionale, sentenza 18 febbraio 1975, n. 27.

    [10] L’articolo 2 della legge recita: "I consultori familiari istituiti dalla legge 29 luglio 1975, n. 405 (2), fermo restando quanto stabilito dalla stessa legge, assistono la donna in stato di gravidanza:
    a) informandola sui diritti a lei spettanti in base alla legislazione statale e regionale, e sui servizi sociali, sanitari e assistenziali concretamente offerti dalle strutture operanti nel territorio;
    b) informandola sulle modalità idonee a ottenere il rispetto delle norme della legislazione sul lavoro a tutela della gestante;
    c) attuando direttamente o proponendo allo ente locale competente o alle strutture sociali operanti nel territorio speciali interventi, quando la gravidanza o la maternità creino problemi per risolvere i quali risultino inadeguati i normali interventi di cui alla lettera a);
    d) contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza. I consultori sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita.
    La somministrazione su prescrizione medica, nelle strutture sanitarie e nei consultori, dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte in ordine alla procreazione responsabile è consentita anche ai minori."
     
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  13. komplicata
     
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    esattamente quello che stavo studiando da gazzoni...ottima integrazione...
    grazie mille a tutti
     
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  14. fede7989
     
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    Avrei una domanda riguardo la mancata informazione dei rischi.

    La corte afferma che il nato può agire chiedendo il risarcimento, non solo per la somministrazione di farmaci potenzialmente dannosi, ma anche per la mancata comunicazione dei rischi alla madre.

    Non riesco a cogliere il nesso cusale tra mancata comunicazione e danno arrecato al nascituro. In primo luogo infatti la madre avrebbe comunque potuto decidere di assumere i farmaci (consapevole del rischio), mentre in secondo luogo non sappiamo se il soggetto sarebbe nato se la madre non avesse assunto il farmaco (negando il consenso) ma ne avesse assunto uno differente.
    Quindi, sotto questo aspetto, i medici non dovrebbero risarcire anche il nato, ma solo la madre.

    Qualcuno riesce a sostenere la tesi opposta?
     
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    Io verso nuove frontiere!!!... Boh mi sà che mi sono persa in qualche stella :P

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    Guarda io partirei dal concetto di nato e di nascituro. :rolleyes:

    Il nato ha dei diritti, il nascituro li avrà se nascerà...
    Il nato diventa soggetto di diritto, e come tale può essere risarcito del danno provocatogli.. ove non fosse nato, non ci sarebbe stato un soggetto da risarcire...

    Ciò premesso il diritto a nascere sano non è sempre stato riconosciuto in giurisprudenza perchè considerato adespota...spostandosi il diritto in un momento precedente al parto...

    Ora che la giurisprudenza apre al risarcimento del danno riconoscendo il diritto a nascere sano, per conseguenza di tale riconoscimento, si pone il problema dell'accertamento del nesso causale fra condotta omissiva del medico e danno.
    Ma l'accertamento causale è in termini di nesso di relazione non di anello valido al 100 per cento senza altra possibilità ...
    La mancata comunicazione come dato che eleva il rischio del danno che si inserisce nella spirale causale come causa almeno concomitante diventa un dato importante..
    Tieni conto che parliamo di causalità in materia civile...
    Che ne pensi?? :unsure:

    Edited by pitt bull - 31/10/2010, 23:44
     
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20 replies since 15/5/2009, 07:29   3693 views
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