§ Natura giuridica dell'accettazione d'eredità §

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  1. ILVEROMULOPARLANTE
     
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    In realtà la questione posta nel titolo della discussione è scaturita nella mia mente successivamente allo studio della questione inserita nella descrizione. In pratica dopo aver studiato la parte generale su atto giuridico in senso stretto/atto negoziale, ho provato ad applicare le coordinate generali apprese agli atti giuridici, i più disparati, per individuarne la natura giuridica e verificare la mia comprensione dell'argomento. e QUI CADDE L'ASINO O MEGLIO IL MULO PARLANTE.
    Perché l'accettazione d'eredità è definita come atto di natura negoziale? Badate bene che il ripetere semplicemente la definizione di atto negoziale ( consapevolezza volontarietà del comportamento/effetti) non mi aiuta e non ci aiuta!!! Dobbiamo calare la regola generale nel caso di specie (accettazione d'eredità) solo così potremo giungere ad una reale comprensione. Io sono partito dalle coordinate generali del Gazzoni per individuare gli atti giuridici negoziali ma sono giunto alla conclusione opposta a quella che sembra essere l'opinione corretta. Non vi nascondo un certo sconforto. Io sono partito dal concetto atto negoziale come atto di autonomia ovvero come atto dispositivo diinteressi ovvero come autoregolamentazione di interessi ovvero potere autonomo di disciplinare i propri interessi (creare la regoal dispositiva. Grazie in anticipio
     
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    CITAZIONE (ILVEROMULOPARLANTE @ 7/1/2017, 18:25) 
    In realtà la questione posta nel titolo della discussione è scaturita nella mia mente successivamente allo studio della questione inserita nella descrizione. In pratica dopo aver studiato la parte generale su atto giuridico in senso stretto/atto negoziale, ho provato ad applicare le coordinate generali apprese agli atti giuridici, i più disparati, per individuarne la natura giuridica e verificare la mia comprensione dell'argomento. e QUI CADDE L'ASINO O MEGLIO IL MULO PARLANTE.

    Perché l'accettazione d'eredità è definita come atto di natura negoziale? Badate bene che il ripetere semplicemente la definizione di atto negoziale ( consapevolezza volontarietà del comportamento/effetti) non mi aiuta e non ci aiuta!!! Dobbiamo calare la regola generale nel caso di specie (accettazione d'eredità) solo così potremo giungere ad una reale comprensione. Io sono partito dalle coordinate generali del Gazzoni per individuare gli atti giuridici negoziali ma sono giunto alla conclusione opposta a quella che sembra essere l'opinione corretta. Non vi nascondo un certo sconforto. Io sono partito dal concetto atto negoziale come atto di autonomia ovvero come atto dispositivo diinteressi ovvero come autoregolamentazione di interessi ovvero potere autonomo di disciplinare i propri interessi (creare la regoal dispositiva. Grazie in anticipio

    Buonasera.

    Ho potuto leggere solo adesso.

    Proverò ad offrire un mio breve contributo.

    Quaestio:

    “Perché l'accettazione d'eredità è definita come atto di natura negoziale?”

    Il nostro gentile amico mostra di porsi con estrema serietà il problema del perché la dottrina inquadri, il tal o talaltro istituto giuridico, all'interno di una categoria giuridica generale piuttosto che in un'altra; e se, le suddette ricostruzioni, siano il frutto di meditate riflessioni sui punti specifici oppure se si tratti di portati di una tradizione tralatizia.

    Ebbene, è pur vero che le tralatizie ricostruzioni possono lasciare il tempo che trovano qualora siano distanti dalla corretta interpretazione del dettato normativo; maggior cautela andrebbe adottata, al contrario, nel proporre critiche severe a quelle ricostruzioni che trovino nella lettera della legge fondamento e legittimazione scientifica. Questo in via generale.

    Proverò adesso ad offrire, come già detto, un breve e sommesso contributo ricostruttivo (che risente, necessariamente, della mia formazione civilistica sui testi della “solida” dottrina classica).

    Si parla della natura giuridica dell'accettazione dell'eredità (per il momento limitiamoci a trattare dell'accettazione espressa).

    Prendiamo in esame la fondamentale disposizione di cui all'art. 475 c.c., che recita:

    “L'accettazione è espressa quando, in un atto pubblico o in una scrittura privata, il chiamato all'eredità ha dichiarato di accettarla oppure ha assunto il titolo di erede.

    È nulla la dichiarazione di accettare sotto condizione o a termine.

    Parimenti è nulla la dichiarazione di accettazione parziale di eredità”.


    Pertanto, dalla lettera della legge cosa ricaviamo?

    Siamo, a mio modesto parere, di fronte ad una dichiarazione di volontà diretta a produrre degli effetti giuridici ricadenti sul dichiarante-chiamato all'eredità. Tali effetti giuridici sono ritenuti meritevoli di tutela dall'ordinamento giuridico. La dichiarazione di volontà diretta ad accettare l'eredità costituisce un atto rivolto all'ottenimento di un risultato pratico: attirare al proprio patrimonio l'intero compendio ereditario o la quota ad esso chiamato destinata dal de cuius o dalla legge. Si tratta di negozio giuridico unilaterale, rientrante nella categoria dei “negozi per adesione”. Perché si preferisce utilizzare tale ultima categoria? La si preferisce poiché la dichiarazione di accettazione trova motivo di ispirazione in una “offerta” (genericamente intesa). Tale “offerta”, perché possa avere nella realtà giuridica concreta ed attuale attuazione, abbisogna di un atto di accettazione. Nel particolare universo giuridico delle successioni mortis causa, l'offerta in parola prende il nome di delazione.

    Ora, l'atto negoziale di accettazione dell'eredità si inserisce all'interno di una fattispecie a formazione progressiva di cui l'accettazione costituisce il momento conclusivo, mentre la delazione rappresenta il punto di partenza.

    L'accettazione espressa è atto unilaterale tra vivi in quanto destinato a produrre i suoi effetti durante la vita dell'erede. Si tratta infine di atto non recettizio in quanto la relativa dichiarazione non è diretta ad un destinatario dal quale debba essere conosciuta o conoscibile per essere produttiva di effetti: si pone come atto a sé stante rispetto alla delazione. Dunque, è atto negoziale unilaterale.

    Da tale breve tentativo di inquadramento, credo possa discendere che la dichiarazione di volontà diretta ad esprimere l'intento di far entrare il patrimonio del de cuius in quello dell'erede sia senz'altro da considerarsi atto di autonomia volto a regolamentare i propri interessi.

    Dovremmo così esser riusciti a far salva almeno una delle tradizionali definizioni di atto negoziale di autonomia.

    Buon proseguimento.

    S.

     
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  3. ILVEROMULOPARLANTE
     
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    CITAZIONE (§ Salatiele § @ 7/1/2017, 23:37) 
    Siamo, a mio modesto parere, di fronte ad una dichiarazione di volontà diretta a produrre degli effetti giuridici ricadenti sul dichiarante-chiamato all'eredità. Tali effetti giuridici sono ritenuti meritevoli di tutela dall'ordinamento giuridico. La dichiarazione di volontà diretta ad accettare l'eredità costituisce un atto rivolto all'ottenimento di un risultato pratico: attirare al proprio patrimonio l'intero compendio ereditario o la quota ad esso chiamato destinata dal de cuius o dalla legge. Si tratta di negozio giuridico unilaterale, rientrante nella categoria dei “negozi per adesione”. Perché si preferisce utilizzare tale ultima categoria? La si preferisce poiché la dichiarazione di accettazione trova motivo di ispirazione in una “offerta” (genericamente intesa). Tale “offerta”, perché possa avere nella realtà giuridica concreta ed attuale attuazione, abbisogna di un atto di accettazione. Nel particolare universo giuridico delle successioni mortis causa, l'offerta in parola prende il nome di delazione.

    Ringrazio per il prezioso contributo. Non nascondo che ricostruire l'accettazione nei termini di negozio unilaterale di adesione ha suscitato in me ulteriori riflessioni. Sono una barchetta in mezzo al mare nell'intento di approdare ad un'isola sicura. Devo riordinare le idee.
    P.S.Non sarebbe più facile discriminare sulla base della necessità o meno (come previsto dalla legge)della capacità di agire al fine di porre in essere l'atto giuridico? Perché mai il legislatore dovrebbe prevedere un atto giuridico in senso stretto e al contempo richiedere la capacità d'agire per compierlo?
     
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    §§§



    Citazione:

    << Perché mai il legislatore dovrebbe prevedere un atto giuridico in senso stretto e al contempo richiedere la capacità d'agire per compierlo? >>

    Buonasera.

    Rispondendo alla domanda: perché per comprendere tale passaggio è necessario passare prima per la categoria del “fatto giuridico”.

    Ai fini di gettare una preclara luce sul punto, mi sia consentito di invocare l'autorevolezza dell'insegnamento di Francesco Santoro Passarelli (il cui pensiero in materia costituisce una delle pagine più nitide della nostra dottrina giuridica; proverò a riassumerne i tratti salienti):

    l'atto giuridico, consistente sempre in un comportamento umano, si distingue per la rilevanza che l'ordinamento attribuisce, nel dettarne la disciplina, alla volontarietà e alla consapevolezza del comportamento. Gli altri fatti giuridici, che vengono chiamati fatti giuridici in senso stretto, possono anche consistere in un comportamento umano, e questo può, in concreto, essere volontario e consapevole, ma l'ordinamento, nel farne dipendere conseguenze giuridiche, prescinde dalla circostanza che il fatto provenga o non dall'uomo, o provenendo dall'uomo, che sia o non accompagnato dalla volontarietà e dalla consapevolezza.

    Si giunge pertanto a chiarire che la categoria dell'atto giuridico, intesa con questa ampiezza, si distingue nelle due figure dell'atto che ha carattere negoziale, o negozio giuridico, e dell'atto che non ha tale carattere, comunemente denominato atto giuridico in senso stretto.

    Su un punto non può esservi incertezza: atto in senso stretto e negozio sono figure essenzialmente diverse. In particolare, con riguardo agli atti in senso stretto si parla anche di atti che non sono negozi, o atti non negoziali.

    Si è acutamente osservato che la difficoltà di segnare nettamente la differenza tra atto e negozio deriva soprattutto dal fatto che non esiste un vero accordo in dottrina sull'essenza stessa del negozio: data la complementarità delle due figure, le diverse concezioni del negozio si riflettono nella determinazione del criterio discretivo.

    Secondo la dottrina tradizionale, che individua nella volontà il tratto caratteristico del negozio, la differenza tra atto in senso stretto e negozio risiede nella diversa rilevanza del volere: posta la volontà dell'atto, comune a ogni tipo di atto, la differenza si pone secondo che rilevi una distinta volontà diretta proprio alla produzione degli effetti: atti giuridici in senso stretto i primi, atti di volontà o negozi giuridici i secondi. In tal modo la dottrina scorge nel negozio due distinte volontà, o come anche si dice, due diverse direzioni del volere: la volontà dell'atto o volontarietà, e la volontà rivolta alla produzione degli effetti, che, in quanto caratterizza solo il negozio, si chiama anche volontà negoziale.

    Si è variamente discusso se la volontà degli effetti, o intento, che assume rilevanza nel negozio, debba essere rivolta agli effetti giuridici o solo allo scopo pratico (cosiddetto intento empirico); visto che le parti potrebbero anche non essere esattamente consapevoli della configurazione giuridica o non conoscere certi effetti legali del negozio, nella moderna dottrina è prevalsa la seconda opinione.

    Il criterio, tuttavia, non è parso soddisfacente a quella parte della dottrina che non individua nella volontà l'essenza e il tratto indefettibile del negozio (cosiddetta dottrina oggettiva), anche perché, si è osservato, pur restando nell'àmbito della dottrina tradizionale, per la validità di tale criterio, occorrerebbe dimostrare che la direzione della volontà allo scopo pratico sia esclusiva del negozio; ciò che, invece, non pare possibile, poiché tale direzione si ritroverebbe anche negli atti giuridici in senso stretto, che il diritto tutela in vista degli scopi che hanno di mira.

    La dottrina più recente si è poi affidata al metodo induttivo, confrontando a volta a volta i vari atti con le regole principali della disciplina dei negozi, assunte quali indici del carattere negoziale: capacità di agire, rilevanza della volontà, causa, oggetto, forma, interpretazione, efficacia, rappresentanza, simulazione, apponibilità di elementi accidentali, invalidità. Proprio in seguito alla valutazione complessiva, viene risolto caso per caso il problema della rilevanza negoziale o non dell'atto.

    Ma, alla resa dei conti, la dottrina più avveduta ed attenta alla corretta applicazione dei concetti ha ritenuto impossibile fare a meno di una definizione concettuale del criterio distintivo, la quale deve partire da una certa raffigurazione del negozio giuridico.

    La dottrina moderna, avendo così individuato il corretto metodo d'indagine nello scrutinio sempre più approfondito del concetto di negozio giuridico, all'esito di tale ricerca ha rinvenuto quello di autonomia privata: su questo punto, che ha la sua base testuale in una disposizione fondamentale di tutto il sistema (art. 1322), sembrano convergere le più disparate opinioni. Il negozio è, appunto, l'atto di autonomia privata, col quale, cioè, il privato regola da sè i propri interessi. Su questa nozione che caratterizza il negozio nel complesso e nell'essenza, sembra possibile raggiungere un accordo per trovare un criterio idoneo a differenziare l'atto in senso stretto dal negozio.

    Ora, col negozio, il privato, in forza del suo potere di autonomia, può costruire la fattispecie (negoziale), in relazione all'interesse che esso stesso si propone di realizzare; rispetto all'atto in senso stretto, il privato ha, invece, solo una mera possibilità di scelta non di un certo effetto, ma dei vari mezzi offerti dall'ordinamento. L'intenzione, qui, precede l'atto e si realizza nella scelta del mezzo, senza entrare, come accade per il negozio, nella struttura dell'atto medesimo; perciò l'elemento di volontà, che pure rileva nell'atto, è appunto solo volontà dell'atto.

    Il potere di configurare la fattispecie sulla base dell'assetto di interessi cui è rivolto l'intento dell'autore è ciò che caratterizza il negozio rispetto all'atto. Si ha così un'adattabilità dello strumento all'effetto che il privato si propone di realizzare, nel senso che l'intento, in quanto meritevole di tutela, entra, diversamente da quanto avviene per l'atto, all'interno della figura, dominandone il profilo funzionale.

    Pertanto, la differenza tra atto e negozio deve cogliersi secondo che un atto venga assunto e disciplinato dall'ordinamento come autoregolamento impegnativo, o invece come mero presupposto di effetti giuridici preordinati dalla legge, senza funzione e natura di autoregolamento. Ancora meglio, la differenza tra atto e negozio si coglie in una considerazione complessiva della struttura e della funzione: il negozio funzionalmente serve a disporre e strutturalmente consiste in una volontà precettiva; a sua volta l'atto conta non per ciò che eventualmente dispone ma per ciò che è: comportamento umano in cui volontarietà e consapevolezza rilevano solo come requisito del comportamento medesimo, in quanto gli effetti preordinati dalla legge prescindono dal contenuto volitivo dell'atto.

    In conclusione, il criterio indicato, che si fonda essenzialmente da una parte sul concetto di negozio come autoregolamento impegnativo, dall'altra su quello di atto come comportamento umano, volontario e consapevole, che rileva quale mero presupposto di effetti preordinati rigidamente dalla legge, sembra permetta di individuare abbastanza esattamente, superando certe visioni parziali, la differenza tra le due figure.

    Appare ancora una volta chiara sotto questo profilo la differenza tra atto e negozio. Quest'ultimo conta appunto in vista dello scopo perseguito dall'autore o dagli autori, scopo al quale l'ordine giuridico adegua gli effetti; nell'atto in senso stretto conta unicamente la funzione che l'ordinamento assegna all'atto stesso, e lo scopo avuto di mira dall'agente nel compierlo si realizza solo in quanto coincida con tale funzione e, se divergente, non rileva.

    Bene, questo era il pensiero del Santoro Passarelli.

    L'invito per tutti, a questo punto, è quello di tornare a scoprire (o riscoprire) i classici del diritto civile.

    Sui temi generali del diritto civile, mutatis mutandis, sembrano ancora oggi imprescindibili:

    a) F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Jovene editore, ultima edizione;

    b) L. Bigliazzi Geri, U. Breccia, F.D. Busnelli, U. Natoli, Diritto Civile, Volume Primo, Tomi 1 e 2, UTET giuridica, ultima edizione.

    Si tratta delle basi, delle solide fondamenta sulle quali costruire degli altrettanto solidi percorsi logico-giuridici.

    Buon lavoro a tutti.

    Sal



    §§§

     
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    Al di là della questione specifica, concordo pienamente sul Santoro-Passarelli.

    Per quanto io abbia apprezzato tantissimo Gazzoni, molto Roppo e Bianca, a tratti si e a tratti no Caringella-Buffoni, la trattazione di alcuni argomenti sul citato libro rimane insuperata. Non so se sia un mio feticismo per il linguaggio della ormai datata dottrina, ma è così.

    Ad esempio, le pagine sulla rappresentanza.

    Edited by sergente_garcia - 10/1/2017, 18:55
     
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  6. ILVEROMULOPARLANTE
     
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    CITAZIONE (§ Salatiele § @ 10/1/2017, 16:30) 
    Il negozio è, appunto, l'atto di autonomia privata, col quale, cioè, il privato regola da sè i propri interessi.

    il privato, in forza del suo potere di autonomia, può costruire la fattispecie (negoziale), in relazione all'interesse che esso stesso si propone di realizzare

    adattabilità dello strumento all'effetto che il privato si propone di realizzare,

    autoregolamento impegnativo

    Ho citato i passi che ho ritenuto più significativi sulla natura dell'atto negoziale che dal punto di vista teorico ora mi appare ancor più chiara.
    Calando il tutto nell'atto di accettazione dell'eredità io però non vedo questa autoregolamentazione d'interessi. Gli effetti dell'accettazione non sono prestabiliti dall'ordinamento? Il chiamato all'eredità a ma pare essere posto difronte all'alternativa secca:accettare/ non accettare. Egli non può in alcun modo incidere, con la propria volontà, sugli effetti dell'atto plasmandoli.
    Non mancherò di consultare i sacri tomi, troppo forte la curiosità. Grazie
     
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    Mi permetto di intervenire sulla questione specifica.

    "Calando il tutto nell'atto di accettazione dell'eredità io però non vedo questa autoregolamentazione d'interessi. Gli effetti dell'accettazione non sono prestabiliti dall'ordinamento? Il chiamato all'eredità a ma pare essere posto difronte all'alternativa secca:accettare/ non accettare. Egli non può in alcun modo incidere, con la propria volontà, sugli effetti dell'atto plasmandoli."

    Il problema è che l'essenza della distinzione tra negozio ed atto giuridico in senso stretto non sta tanto (e solo) nella possibilità che chi pone in essere l'atto possa determinare quali effetti si producano.
    Egli può anche non avere margine di scelta su quali effetti produrre.
    Infatti, gli effetti (come l'acquisto della qualità di erede) possono anche essere determinati in via esclusiva da parte della legge, ma ciò che rileva è se essi sono prodotti in quanto sono voluti dal soggetto.
    La protagonista della scena, diciamo, è la volontà degli effetti; la legge determina la produzione degli effetti perché il soggetto li vuole.
    Diversamente negli atti giuridici in senso stretto gli effetti non si producono perché la parte li vuole (o meglio: indipendentemente dalla sua volontà), ma perché così vuole la legge.
    In questo caso, la legge richiede solo che il soggetto voglia l'atto; se vuole l'atto, non importa se vuole o meno gli effetti, perché questi dipendono appunto dalla volontà della legge.
    In ultima analisi, occorre domandarsi se la legge dia rilevanza o meno alla volontà degli effetti: in caso positivo, c'è negozio, in caso negativo c'è atto giuridico.

    Un esempio che secondo me è molto chiaro.
    Il matrimonio.
    Incontestabile che sia un negozio giuridico.
    Al netto degli aspetti patrimoniali, sull'altare hai solo una secca alternativa: lo voglio o non lo voglio.
    E tutti gli effetti sono prestabiliti dall'ordinamento.
    Eppure si producono proprio perché e solo perché i coniugi li hanno voluti.

    Edited by sergente_garcia - 10/1/2017, 21:06
     
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  8. ILVEROMULOPARLANTE
     
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    CITAZIONE (sergente_garcia @ 10/1/2017, 19:36) 
    Mi permetto di intervenire sulla questione specifica.

    "Calando il tutto nell'atto di accettazione dell'eredità io però non vedo questa autoregolamentazione d'interessi. Gli effetti dell'accettazione non sono prestabiliti dall'ordinamento? Il chiamato all'eredità a ma pare essere posto difronte all'alternativa secca:accettare/ non accettare. Egli non può in alcun modo incidere, con la propria volontà, sugli effetti dell'atto plasmandoli."

    Il problema è che l'essenza della distinzione tra negozio ed atto giuridico in senso stretto non sta tanto (e solo) nella possibilità che chi pone in essere l'atto possa determinare quali effetti si producano.
    Egli può anche non avere margine di scelta su quali effetti produrre.
    Infatti, gli effetti (come l'acquisto della qualità di erede) possono anche essere determinati in via esclusiva da parte della legge, ma ciò che rileva è se essi sono prodotti in quanto sono voluti dal soggetto.
    La protagonista della scena, diciamo, è la volontà degli effetti; la legge determina la produzione degli effetti perché il soggetto li vuole.
    Diversamente negli atti giuridici in senso stretto gli effetti non si producono perché la parte li vuole (o meglio: indipendentemente dalla sua volontà), ma perché così vuole la legge.
    In questo caso, la legge richiede solo che il soggetto voglia l'atto; se vuole l'atto, non importa se vuole o meno gli effetti, perché questi dipendono appunto dalla volontà della legge.
    In ultima analisi, occorre domandarsi se la legge dia rilevanza o meno alla volontà degli effetti: in caso positivo, c'è negozio, in caso negativo c'è atto giuridico.

    Un esempio che secondo me è molto chiaro.
    Il matrimonio.
    Incontestabile che sia un negozio giuridico.
    Al netto degli aspetti patrimoniali, sull'altare hai solo una secca alternativa: lo voglio o non lo voglio.
    E tutti gli effetti sono prestabiliti dall'ordinamento.
    Eppure si producono proprio perché e solo perché i coniugi li hanno voluti.

    Quel che tu dici può anche essere valido ma è insufficiente, parziale. Dovresti allora indicare anche quella norma da cui risulta desumibile che per l'ordinamento rileva non solo la volontà del comportamento ma degli effetti. Se ammettiamo che nell'accettazione d'eredità gli effetti sono prestabiliti dobbiamo fare ricorso ad altro parametro facendo ben attenzione a parametrare con un elemento diverso da quello degli atti giuridici in senso stretto. Per questo in uno dei miei post ho fatto ricorso alla capacità d'agire - capacità di intendere e volere.
     
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    Chiedo venia, ma è proprio quello che hai detto tu, invece, che mi pareva parziale.
    Il tuo sillogismo mi è parso questo:
    P1) il negozio è (necessariamente?) autoregolamentazione di interessi.
    P2) nell'accettazione di eredità il delato: a) ha solo un'alternativa secca tra accettare o meno; b) non può plasmare gli effetti che derivano dall'accettazione.
    C) L'accettazione non è un negozio.
    Voglio dire: il tuo ragionamento nel post che avevo citato mi era parso questo, giusto?
    Il problema, a mio avviso, sta nella premessa maggiore (P1) per come l'hai intesa.
    Io non smetto di autoregolamentare i miei interessi se dal negozio derivano necessariamente solo gli effetti previsti dalla legge.
    Il problema non è se la legge in astratto prevede solo e necessariamente gli effetti X+Y, ma se questi derivano ex se dall'atto in quanto voluto o perché voluti attraverso l'atto. E bisogna capire quale rilevanza la legge conferisce alla volontà degli effetti.
    In altre parole:
    A) il proprium del negozio è l'autoregolamentazione dei propri interessi, nel senso che è il soggetto che attraverso la propria volontà e solo per mezzo di essa regolamenta i propri interessi;
    B) questa regolamentazione può essere tendenzialmente libera (vedi nel contratto, nell'ambito dei rapporti economici) o limitata ai soli effetti previsti dalla legge (vedi nella successione, in cui vi sono esigenze più pregnanti, e così anche nel matrimonio).
    C) in ogni caso, gli effetti l(a regolamentazione) si producono proprio perché sono stati voluti, e se la volontà degli effetti è viziata derivano tutti gli effetti che ben conosciamo.
    Il mio era quindi un discorso valido in generale e per nulla parziale (in generale).

    Sul caso specifico dell'accettazione dell'eredità si pone sempre il solito annoso problema, che, in assenza di una norma risolutiva che tu mi chiedi di indicare, risulta difficile stabilire quale sia la natura dell'atto.
    Ed è per questo che si leggono spesso tesi contrapposte sui vari istituti.
    A tal fine occorre interrogarsi in ultima istanza sulla ratio dell'istituto e sul suo significato.
    Ad ogni modo, considerando che gli artt. 482 e 483 cc consentono l'impugnazione dell'accettazione per violenza, dolo ed errore, credo che sia abbastanza agevole ritenere che l'accettazione (quantomeno quella espressa) sia un negozio giuridico. Altrimenti non avrebbe senso dare rilevanza alla volontà (viziata) degli effetti.

    "Se ammettiamo che nell'accettazione d'eredità gli effetti sono prestabiliti dobbiamo fare ricorso ad altro parametro facendo ben attenzione a parametrare con un elemento diverso da quello degli atti giuridici in senso stretto"
    Non ho capito questa frase :)
     
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  10. ILVEROMULOPARLANTE
     
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    “Il tuo sillogismo mi è parso questo:”
    P1) il negozio è (necessariamente?) autoregolamentazione di interessi.
    P2) nell'accettazione di eredità il delato: a) ha solo un'alternativa secca tra accettare o meno; b) non può plasmare gli effetti che derivano dall'accettazione.
    C) L'accettazione non è un negozio.
    Voglio dire: il tuo ragionamento nel post che avevo citato mi era parso questo, giusto?”

    Corretto nel senso che utilizzando il parametro dell’autoregolamentazione degli interessi, così come io l’ho inteso, sono giunto alla conclusione di cui al punto C) che appare anche a me insoddisfacente.

    “Il problema, a mio avviso, sta nella premessa maggiore (P1) per come l'hai intesa.
    Io non smetto di autoregolamentare i miei interessi se dal negozio derivano necessariamente solo gli effetti previsti dalla legge.
    Il problema non è se la legge in astratto prevede solo e necessariamente gli effetti X+Y, ma se questi derivano ex se dall'atto in quanto voluto o perché voluti attraverso l'atto. E bisogna capire quale rilevanza la legge conferisce alla volontà degli effetti.
    In altre parole:
    A) il proprium del negozio è l'autoregolamentazione dei propri interessi, nel senso che è il soggetto che attraverso la propria volontà e solo per mezzo di essa regolamenta i propri interessi;
    B) questa regolamentazione può essere tendenzialmente libera (vedi nel contratto, nell'ambito dei rapporti economici) o limitata ai soli effetti previsti dalla legge (vedi nella successione, in cui vi sono esigenze più pregnanti, e così anche nel matrimonio).
    C) in ogni caso, gli effetti l(a regolamentazione) si producono proprio perché sono stati voluti, e se la volontà degli effetti è viziata derivano tutti gli effetti che ben conosciamo.
    Il mio era quindi un discorso valido in generale e per nulla parziale (in generale).”

    No, non sono d’accordo. Autoregolamentazione dei propri interessi significa che il privato è in grado di produrre egli stesso la regola che disciplina i propri interessi. Vi si contrappone la regola eteronoma, ovvero regola prodotta direttamente dalla legge. Quel che dici confonde i due piani. Mi sembra a questo punto che più significativo è il fatto che nell’atto negoziale il privato DISPONE DEL PROPRIO INTERESSE. Ne dispone certamente quando autoregolamenta nel senso da me esposto ma ne dispone anche quando pur non autoregolamentando usa una fattispecie interamente regolamentata nei suoi effetti dalla legge ma in cui la stessa legge ritiene rilevante la volontà del soggetto nel senso che questi vuole proprio quegli effetti previsti dalla norma (da qui differenziandosi dall’atto giuridico in senso stretto in cui che vi sia o non vi sia volontà degli effetti è del tutto irrilevante)

    Ed in questo ultimo caso “si pone sempre il solito annoso problema, che, in assenza di una norma risolutiva che tu mi chiedi di indicare, risulta difficile stabilire quale sia la natura dell'atto.”

    “A tal fine occorre interrogarsi in ultima istanza sulla ratio dell'istituto e sul suo significato.
    Ad ogni modo, considerando che gli artt. 482 e 483 cc consentono l'impugnazione dell'accettazione per violenza, dolo ed errore, credo che sia abbastanza agevole ritenere che l'accettazione (quantomeno quella espressa) sia un negozio giuridico. Altrimenti non avrebbe senso dare rilevanza alla volontà (viziata) degli effetti.”

    Perplimo, ben potrebbe l’impugnazione per violenza dolo ed errore essere preordinata a tutela della sola volontà del comportamento (a nulla rilevando la volontà degli effetti).

    Forse la capacità disitinguere tra atti giuridici in senso stretto atti negoziali è rimessa non all’applicazione di un unico parametro ma a molteplici, a ttiolo esemplificativo.
    1) autoregolamentazione nel senso sopra esplicitato
    2) atto giuridico nella forma della dichiarazione di scienza (che esclude la negozialità)
    3) necessità della capacità di agire (rectius negoziale) per porre in essere l’atto

    Edited by ILVEROMULOPARLANTE - 11/1/2017, 11:38
     
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  11. Ghingò
     
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    A mio modesto avviso, la questione per essere risolta dev'essere vista dal punto di vista dell'effetto giuridico, segnatamente dalla fonte da cui promana quest'ultimo.
    Una breve premessa si rende necessaria: l'accettazione dell'eredità comporta l'assunzione della qualità di erede da parte del dichiarante.
    E' evidente come l'effetto giuridico, nel caso de quo, sia l'assunzione della qualità di erede.
    Altrettanto evidente è che tale effetto giuridico discende dalla volontà del soggetto che accetta la delazione. In altri termini, l'erede diventa tale perché lo vuole; l'effetto giuridico è figlio della volontà del soggetto.
    Senza volontà del dichiarante, l'effetto giuridico non si potrebbe produrre.
    Da ciò discende la differenza con l'atto giuridico senso stretto ove non è necessario che il soggetto voglia l'effetto giuridico: basta la mera volontà del comportamento.
    Ad esempio, l'adempimento semplice (altro è l'adempimento del terzo e l'adempimento del contratto preliminare) è ritenuto un atto giuridico in senso stretto perché, appunto, per la produzione dell'effetto giuridico - estinzione dell'obbligazione - basta la sola volontà della prestazione; non è necessario che il debitore voglia l'estinzione dell'obbligazione poiché tale effetto si produce ope legis.
    Paradossalmente, è proprio quando l'effetto giuridico dipende dalla scelta secca "voglio / non voglio" sopra richiamata che la differenza tra le due categorie dogmantiche si coglie meglio.
    Inoltre, autoregolamentazione dei propri interessi come esplicazione dell'autonomia privata non significa, a differenza di quanto mi è sembrato di capire da ciò che ho letto negli interventi di sopra, dettare ex novo una regola.
    Se avesse questo significato, allora, sarebbero negozi giuridici solamente i contratti atipici.
    L'autonomia va intesa (in modo da differenziarla dall'eteronomia che contraddistingue gli atti giuridici in senso stretto) come libertà del privato di disporre o meno (poìché il negozio è atto dispositivo) di un interesse ritenuto rilevante dall'ordinamento, ossia di dar vita o meno ad un effetto giuridico volontariamente.
    Grazie per l'attenzione.
     
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  12. ILVEROMULOPARLANTE
     
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    PER GHINGò
    “E' evidente come l'effetto giuridico, nel caso de quo, sia l'assunzione della qualità di erede.
    Altrettanto EVIDENTE è che tale effetto giuridico discende dalla volontà del soggetto che accetta la delazione. In altri termini, l'erede diventa tale perché lo vuole; l'effetto giuridico è figlio della volontà del soggetto.
    Senza volontà del dichiarante, l'effetto giuridico non si potrebbe produrre.”

    Non condivido questa metodologia di operare che nasconde, a mio avviso, un vizio di fondo, vizio che si appalesa nell’uso che fai di un termine: “EVIDENTE”. Parrebbe che la natura negoziale o meno di un atto dipenda da qualità intrinseche dell’atto, come se l’atto (valutato previamente come fatto materiale dotato di determinate caratteristiche) , ontologicamente debba essere qualificato come atto giuridico negoziale o non negoziale. Invece, a mio avviso, il metodo dovrebbe essere opposto. E’ la norma (o le norme) positiva che con le sue statuizioni qualifica nell’un senso o nell’altro, ben potendo essere TUTTI gli atti giuridici caratterizzati dalla negozialità o meno a seconda della concreta disciplina prevista. A mio avviso anche l’effetto prodotto da un fatto giuridico in senso stretto potrebbe invece, con una riformulazione della disciplina, prodursi a seguito di un atto giuridico in senso stretto oppure negoziale. Poniamo il caso di una avulsione con possibilità da parte del proprietario del fondo avvantaggiato di rifiutare o accettare la proprietà della porzione di terra distaccatasi da fondo altrui. Inoltre siamo sicuri che nell’accettazione d’eredità l’effetto voluto dall’accettante sia l’acquisizione della qualità d’erede e non piuttosto semplicemente l’acquisizione dei beni del defunto? C’è un bella differenza .

    “Ad esempio, l'adempimento semplice (altro è l'adempimento del terzo e l'adempimento del contratto preliminare) è ritenuto un atto giuridico in senso stretto perché, appunto, per la produzione dell'effetto giuridico - estinzione dell'obbligazione - basta la sola volontà della prestazione; non è necessario che il debitore voglia l'estinzione dell'obbligazione poiché tale effetto si produce ope legis.”

    E per fare l’avvocato del diavolo, come mai il debitore non può impugnare l’adempimento in caso di incapacità? Questa incapacità di cui parla la norma ben potrebbe essere quella intendere e volere ma se questo fosse corretto se ne andrebbe a farsi friggere la qualificazione dell’adempimento come atto giuridico in senso stretto poiché l’effetto della estinzione dell’obbligazione sarebbe frutto solo del fatto (giuridico in senso stretto) del pagamento essendo irrilevante la capacità di intenderre e volere (rectius volontarietà e consapevolezza del comportamento)

    “Inoltre, autoregolamentazione dei propri interessi come esplicazione dell'autonomia privata non significa, a differenza di quanto mi è sembrato di capire da ciò che ho letto negli interventi di sopra, dettare ex novo una regola.
    Se avesse questo significato, allora, sarebbero negozi giuridici solamente i contratti atipici.”

    Sul punto ti invito a leggere Il Gazzoni che distingue tra gli elementi strutturali dell’atto e gli elementi che le parti possono regolamenatare.
    Grazie per il tuo intervento.
     
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  13. Ghingò
     
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    In risposta al Mulo.
    Premessa:
    Innanzitutto grazie per aver dato vita a questa interessantissima, almeno dal mio punto di vista, discussione.
    Non vedevo, e dopo il presente intervento non vedrò, l'ora di ricevere risposta!
    Ciò premesso andiamo in medias res.
    L'evidente che ho utilizzato, effettivamente, è fuorviante. Me ne scuso. Quanto al metodo da utilizzare, è fuori discussione che quello da utilizzare è quello da te indicato e, peraltro, da me utilizzato. Tutto deve rendere conto alla norma!
    E' la norma (rectius, l'ordinamento giuridico) che qualifica un determinato accadimento come fatto o atto e nelle relative species.
    E l'elemento dirimente, la chiave di volta, che permette di qualificare l'accettazione di eredità come negozio giuridico e non come atto giuridico si ricava proprio dalla disciplina positiva.
    Per tale atto l'ordinamento, difatti, richiede la capacità di agire e non si accontenta della "sola" capacità naturale; richiede la comprensione, da parte del dichiarante, degli effetti che la sua dichiarazione di volontà produrrà.
    Quanto all'effetto giuridico, a mio modesto avviso, dall'accettazione dell'eredità deriva l'acquisizione della qualità di erede poiché è quello l'effetto principale che l'ordinamento ricollega alla dichiarazione di volontà. Tant'è che se il relictum fosse privo di beni, comunque l'accettante diverrebbe erede (anche senza acquisizione al proprio patrimonio di alcun bene).
    Quanto all'adempimento, gli studi sul Gazzoni portano ad affermare che si tratti di fatto giuridico in senso stretto, mentre la dottrina tradizionale, invece, data la provenienza del comportamento dall'uomo, sostiene che si debba parlare di atto giuridico in senso stretto.
    Quanto all'autonomia e all'eteronomia, conosco la dottrina del Gazzoni e, in detto caso, non la condivido poiché volta a ritagliare alla categoria dogmatica del negozio giuridico un ruolo secondario che mal si concilia, dal mio punto di vista, con una disciplina codicistica che ruota attorno alla libera volontà della produzione dell'effetto giuridico.
    Tuttavia, ti prego (e prego chiunque legga questa discussione) di rispondere a questo mio intervento perché solo confrontandomi con altre persone attente al tema posso (e devo) migliorare.
     
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  14. ILVEROMULOPARLANTE
     
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    CITAZIONE (Ghingò @ 13/1/2017, 11:16) 
    Per tale atto l'ordinamento, difatti, richiede la capacità di agire e non si accontenta della "sola" capacità naturale; richiede la comprensione, da parte del dichiarante, degli effetti che la sua dichiarazione di volontà produrrà.

    Come dicevo la necessità della capacità d'agire per compiere l'atto può essere UNO degli indici cui fare riferimento per individuare la negozialità o meno di un atto ma non può essere utilizzato in via esclusiva. Pensiamo al famoso esempio della promessa di matrimonio: siamo in presenza di un atto giuridico in senso stretto da compiere con la necessaria capacità d'agire. Non mi dilungo sul prechè la promessa sia considerata atto giuridico in senso stretto (anche su internet è facile ritrovare la spiegazione). Piuttosto rilfetterei sulla ragione di questa scelta legislativa. In questo caso, forse, da rinvenirsi nel fatto che la promessa è strumentale all'atto matrimonio, quest'ultimo di sicura natura negoziale.
    CITAZIONE (Ghingò @ 13/1/2017, 11:16) 
    Quanto all'adempimento, gli studi sul Gazzoni portano ad affermare che si tratti di fatto giuridico in senso stretto, mentre la dottrina tradizionale, invece, data la provenienza del comportamento dall'uomo, sostiene che si debba parlare di atto giuridico in senso stretto.

    Il Gazzoni probabilmente afferma ciò sulla base del fatto di cui dicevo,ovvero l'impossibilità di impugnare il pagamenteo per incapacità( ex art.1191 c.c.

    Che la natura giuridica di un atto sia alle volte di non facile individuazione lo si rinviene anche rafforntando l'accettazione d'eredità semplice con l'accettazione per comportamento concludente. Nonostante le ipotesi siano FORME di accettazione, è opinione comune reputare l'accettazione c.d. tacita come atto giuridico in senso stretto. E allora io faccio un esempio per creare un pò di scompiglio:
    Poniamo il caso di un minore che è in quanto tale incapace di accettare perché incapace di agire (serve l'ausilio dei genitori), poniamo che questi attinga dalla massa ereditaria alcuni beni, come una serie di libri di modico valore, e che con questi provveda ad una permuta con altri libri a lui più congeniali . Se leggiamo l'accettazione tacita come atto giuridico in senso stretto dovremmo far discendere l'acquisto della qualità d'erede del minore in virtù di un comportamento concludente (permuta) ,bypassando così le norme sulla responsabilità genitoriale a tutela del minorenne.
     
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  15. Ghingò
     
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    CITAZIONE (ILVEROMULOPARLANTE @ 14/1/2017, 17:56)
    E allora io faccio un esempio per creare un pò di scompiglio:
    Poniamo il caso di un minore che è in quanto tale incapace di accettare perché incapace di agire (serve l'ausilio dei genitori), poniamo che questi attinga dalla massa ereditaria alcuni beni, come una serie di libri di modico valore, e che con questi provveda ad una permuta con altri libri a lui più congeniali . Se leggiamo l'accettazione tacita come atto giuridico in senso stretto dovremmo far discendere l'acquisto della qualità d'erede del minore in virtù di un comportamento concludente (permuta) ,bypassando così le norme sulla responsabilità genitoriale a tutela del minorenne.

    No poiché il minore, al pari dell'interdetto, può accettare l'eredità solo con il beneficio d'inventario ex art. 471 c.c..
     
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17 replies since 7/1/2017, 18:25   1520 views
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