impresa familiare

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. seppietta
     
    .

    User deleted


    Impresa familiare, diritti patrimoniali e utili dei partecipanti, rapporto di coniugio
    Articolo di Danila D'Alessandro 28.01.2010
    Commenta | Stampa | Segnala | Condividi
    | impresa familiare | diritto patrimoniale | utili dei partecipanti | rapporto di coniugio | Danila D'Alessandro |

    MEDIAZIONE E CONCILIAZIONE
    Roma 17/09 - Padova 01/10 - Napoli 02/12 - Verona 04/12
    D.Lgs n. 28/2010 sulla conciliazione obbligatoria
    Impresa familiare, diritti patrimoniali e utili dei partecipanti, rapporto di coniugio

    di Danila D'Alessandro



    Prima della riforma del diritto di famiglia (Legge n. 151/1975) la prestazione lavorativa resa da soggetti legati da vincoli di coniugio, parentela o affinità in un’impresa non configurava un rilevante rapporto giuridico. In effetti, le attività lavorative rese dai familiari erano caratterizzate dalla presunzione di gratuità per il sostegno economico della comunità familiare. Con la Legge n. 151/1975, il legislatore ha evidenziato la necessità di prestare una tutela minima ed inderogabile ai rapporti di lavoro che si instaurano all’interno della famiglia. Perciò la riforma del diritto di famiglia ha introdotto una disciplina che tutela il lavoro del familiare, tenendo conto del valore produttivo del lavoro e le ragioni patrimoniali di chi presta la propria opera in maniera continuativa.

    In precedenza con la comunione tacita familiare, prevista dall’art. 2140 c.c., si presupponeva una struttura associativa di tipo familiare già formato e distinto rispetto al nucleo familiare con diritto agli incrementi per i partecipanti in proporzione al lavoro prestato (Cass. n. 61298/1982, Cass. n. 9198/1999).

    Con l’art. 230 bis del c.c., si definisce l’impresa familiare quel rapporto in cui collaborano in modo continuativo il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo grado con la propria attività lavorativa nella famiglia o nell’impresa. Perciò, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento e a partecipare agli utili dell’impresa, salvo sia configurabile un diverso rapporto.

    L’istituto dell’impresa familiare è caratterizzato dall’assenza di un vincolo societario e dall’insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra i familiari e la persona del capo - imprenditore, riconosciuto come tale dai partecipanti in forza della sua anzianità e del suo maggiore apporto all’impresa stessa, vanno differenziati un aspetto esterno, costituito dal rapporto associativo del gruppo familiare quanto alla regolamentazione dei vantaggi economici di ciascun componente, ed un aspetto esterno nel quale ha rilevanza la figura familiare – imprenditore, effettivo gestore dell’impresa, che assume in proprio i diritti e le obbligazioni derivanti dai rapporti con terzi e risponde illimitatamente e solidamente con i suoi beni personali diversi da quelli comuni ed indivisi dell’intero gruppo, anch’essi oggetto della garanzia patrimoniale di cui all’art. 2740 del c.c.. Pertanto l’impresa familiare ha natura individuale e non collettiva per cui l’attribuzione della qualità di imprenditore non spetta a tutti i partecipanti qualificati da rapporto di coniugio, parentela o affinità, bensì a quello soltanto al quale siffatti rapporti si identificano.

    Il carattere residuale o suppletivo dell’impresa familiare di cui all’art. 230 bis del c.c., può essere interpretato come una volontà del legislatore di garantire una tutela minima ed inderogabile al lavoro svolto nella famiglia economicamente organizzata, che viene applicato quando non sia per facta concludentia o per atto espresso un’altra forma di disciplina. L’istituto dell’impresa familiare è applicabile, quindi, solo quando non si possa individuare nella collaborazione dei familiari un diverso rapporto analogo ad un rapporto di lavoro subordinato, ad una partecipazione societaria, ad una collaborazione, ad un’associazione in partecipazione.

    Pertanto la regolamentazione dell’impresa familiare, con il suo carattere residuale e al contempo con le differenze rispetto ad istituti diretti, rivela una natura del tutto peculiare. La disciplina dell’impresa familiare prevista dal legislatore è costituita sull’attività lavorativa svolta dai suoi componenti, vista nel suo svolgersi, nonché sulle dinamiche dei rapporti che si creano nel tempo. Il presupposto necessario per l’applicazione è la sussistenza di un’impresa di cui all’art. 2082 del c.c. . La continuità dell’apporto richiesto per la partecipazione all’impresa comporta una regolarità, una costanza nel tempo delle prestazioni lavorative ma non esige la continuità della presenza del familiare in azienda. Inoltre è necessario sia fornita anche la prova dal lavoro del partecipante-familiare sia derivato un accrescimento della produttività dell’impresa.

    L’attività di collaborazione del coniuge, secondo un concorde orientamento giurisprudenziale (Cass. Sez. Un. del 04.01.1995, n. 89, Cass. n. 1525/1997) ove coincida con l’attività oggetto di uno degli obblighi o doveri di cui agli artt. 143 e 147 del c.c. non è di per sé sufficiente a far maturare in capo a chi lo presta i diritti patrimoniali e amministrativi previsti dall’art. 230 bis del c. c .. Infatti per il riconoscimento dei diritti derivanti dalle prestazioni lavorative del coniuge nell’impresa familiare è necessario che ricorrano due condizioni, cioè che sia fornita la prova sia dello svolgimento di un’attività di lavoro regolare e costante da parte del coniuge, sia l’accrescimento della produttività dell’impresa determinata dal lavoro di quest’ultimo, in favore del quale potrà essere individuata la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi dell’azienda.

    Da ciò si può evincere un’ulteriore problematica relativa alla classificazione dell’attività imprenditoriale tra coniugi, come impresa ai sensi dell’art. 230 bis del c.c. e dell’azienda coniugale a norma dell’art. 177, comma 1, lett. d) del c .c.. La distinzione tra le due tipologie non è di facile attuazione, ma il criterio determinante individuato dagli interventi della giurisprudenza è il ruolo rispettivamente svolto dai coniugi nella gestione comune dell’impresa. La caratteristica evidente della fattispecie regolamentata dall’art. 177, comma 1, lett. d) del c.c., sta nel fatto che quando la costituzione dell’impresa avviene dopo la celebrazione del matrimonio e non si tratti , in forza del titolo, di un bene personale, l’attribuzione della titolarità ad uno solo dei coniugi o alla comunione legale dipende non dalle modalità con cui si costituisce o viene acquistata l’azienda medesima, bensì dal dato rappresentato dalla gestione. Pertanto, l’azienda se è gestita da entrambi coniugi è definita coniugale. Nell’impresa familiare, invece, l’apporto del coniuge assume un ruolo diverso e viene svolto in regime di sottoposizione al potere direttivo del titolare dell’impresa, mentre nella cogestione l’apporto del coniuge comporta una partecipazione alle funzioni direttive. La separazione personale tra i coniugi non determina lo scioglimento dell’impresa familiare, poiché non termina il rapporto di coniugio, che viene meno solo con il divorzio, in secondo luogo non si mette fine al rapporto di impresa.

    Invece, i diritti patrimoniali derivanti dall’impresa di cui all’art. 230 bis del c.c. sono quello al mantenimento e quello relativo alla partecipazione agli utili dell’impresa. Il diritto al mantenimento è riconosciuto ai lavoratori ed ha contenuto identico per tutti i familiari. Tale diritto deve essere soddisfatto anche se l’impresa è in perdita o non si sono profitti. Il mantenimento consiste nella somministrazione di quanto necessario a far fronte a tutte le esigenze di vita di chi non ha redditi propri o adeguati.

    Il diritto alla partecipazione degli utili dell’impresa, ai beni acquistati con essi e agli incrementi sono determinati in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. La maturazione del diritto agli utili dell’impresa formale, secondo concorde giurisprudenza , dalla quale decorrono anche rivalutazione e interessi ai sensi dell’art. 429 del c. p. c., coincide con la cessazione dell’azienda medesima o della collaborazione del singolo partecipante, salvo l’ipotesi di accordo tra partecipanti per la distribuzione periodica degli utili (Cass. 23.06.2008, n. 17057; Cass. 22.10.1999, n. 1192; Cass. 02.041992, n. 4057).

    Con riferimento alla quantificazione degli utili, il criterio di ripartizione è dato dalla qualità e quantità del lavoro prestato, mentre non può essere valutato come parametro l’importo della retribuzione erogato per il lavoro subordinato (Cass. 29.07.2008, n. 20574; Cass. 09.10.1999, n. 11332; Cass. 02.04.1992, n. 4057).

    Le decisioni riguardanti l’impiego di utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indennizzi produttivi sono adottate a maggioranza dei familiari che partecipano all’impresa stessa, disponendo ciascuno di un voto indipendentemente dal ruolo prestato. Inoltre i poteri di amministrazione in possesso dei familiari sono limitati nell’ambito dell’impresa familiare e non hanno rilevanza nei confronti di terzi. Infatti l’imprenditore gode della libertà di gestione della propria azienda né i familiari possono imporre le proprie decisioni sull’attività imprenditoriale, tutto al più gli atti posti in essere in violazione delle determinazioni familiari sono illeciti nei rapporti tra imprenditore e familiari collaboratori, che possono agire per il risarcimento degli eventuali danni.

    La problematica relativa al momento di maturazione del diritto degli utili secondo giurisprudenza consolidata coincide con la cessazione dell’impresa familiare o della collaborazione del partecipante, ma la dottrina mette in discussione tale soluzione. Analizzando l’art. 230 bis del c.c. non emerge alcuna indicazione del momento in cui gli utili devono essere distribuiti anche se con l’istituto dell’impresa familiare sono stati attribuiti ai soggetti che partecipano all’impresa familiare una serie di diritti collegati all’andamento dell’azienda in antecedenza non riconosciuti dal legislatore. Infatti, tali diritti richiamano lo schema societario e consentono al familiare collaboratore di esercitare dei poteri gestori. Inoltre, il soggetto partecipante all’impresa familiare, come un socio, ha diritto ad adottare decisioni sull’impiego degli utili e degli incrementi, nonché decisioni riguardanti la straordinaria amministrazione. Perciò si potrebbe assimilare la figura del familiare nell’impresa a quella del socio soprattutto per il momento della distribuzione degli utili. In effetti, l’art. 2262 del c.c., in materia di società di persone, dispone la distribuzione annuale degli utili. Perciò equiparando il ruolo del socio di una società di persone a quello del familiare partecipante nell’impresa familiare si potrebbe addivenire ad una soluzione della problematica proposta con applicazione del principio di distribuzione annuale degli utili anche nell’impresa familiare. Inoltre, sia la giurisprudenza che la dottrina sostengono che limitare la maturazione degli utili solo al momento della cessazione dell’impresa familiare o alla cessazione della prestazione lavorativa denota una svalutazione dell’apporto lavorativo del soggetto partecipe e attribuisce al titolare dell’impresa un ingiustificato arricchimento. Oltre a ciò, i familiari partecipanti restano pur sempre dei lavoratori che hanno diritto ad ottenere un corrispettivo per l’opera prestata. La distribuzione degli utili viene così attribuita una funzione anche remunerativa. Ma necessita comunque misurarsi con le pronunce della Corte di Cassazione che sostiene la maturazione del diritto agli utili nell’impresa familiare, dalla quale decorrono altresì rivalutazione e interessi ai sensi dell’art. 429 c. p. c., coincide con la cessazione dell’impresa medesima o della collaborazione del singolo partecipante, salva l’ipotesi di accordo tra partecipante per la distribuzione periodica degli utili stessi. Poi bisogna rammentare che nei casi in cui il partecipante all’impresa familiare è il coniuge, solitamente la domanda di liquidazione degli utili e degli incrementi viene presentata alla cessazione della collaborazione conseguente, nei fatti, alla separazione personale o successivamente al divorzio.

    Bibliografia

    Ghidini, L’impresa familiare, Cedam, 1977;
    Colussi, voce impresa familiare, in Digesto, IV, Sez. commentato, Utet 1992;
    Dogliotti-Figone, L’impresa familiare, in Tratta di diritto privato, diretto da Bessone, Giappicchelli, 1999;
    Balestra, L’impresa familiare, Giuffrè, 1996;
    Cassazione civ., Sez. Lav., 18 ottobre 2005, n. 20157;
    Cassazione civ., sez. lav., 6 agosto 2003, n. 11881;
    Cassazione civ., sez. lav., 19 febbraio 1997, n. 1525;
    Cassazione civ., sez. lav., 23 giugno 2008 n. 17057;
    Cassazione civ., sez. Lav., 29 luglio 2008, n. 20574;
    Cassazione civ., sez. lav. 9 ottobre 1999, n. 11332;
    Cassazione civ., sez. lav, 2 aprile 1992, n. 4057.
     
    .
0 replies since 16/8/2010, 10:18   728 views
  Share  
.
Top