Giurisprudenza tributaria

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  1. seppietta
     
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    Dichiarazione congiunta: anche la moglie risponde al fisco dei redditi in nero del marito

    Le responsabilità comuni dei coniugi valgono più che mai di fronte al fisco. Infatti, in caso di dichiarazione congiunta è legittimo l’avviso di mora con il quale l’amministrazione chiede alla moglie i redditi percepiti in nero dal marito. Lei risponde sia di quanto i due hanno dichiarato sia dei proventi non dichiarati, che ne fosse a conoscenza o meno.

    La linea dura arriva dalla Cassazione che, con la sentenza n. 7260 del 26 marzo, ha respinto il ricorso di una signora di Bergamo al quale era stato notificato un avviso di mora, non motivato, per la riscossione dei redditi non dichiarati del marito
     
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  2. alex.falco
     
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    Effetti processuali della trasparenza fiscale: la questione all’attenzione delle sezioni unite della Corte di Cassazione

    La recente sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite del 4 giugno 2008, n. 14815 in tema di litisconsorzio necessario offre l’occasione per svolgere alcune riflessioni in ordine al più generale problema del rapporto tra “trasparenze” fiscali e litisconsorzio necessario. Il ricorso allo schema impositivo dell’automatica imputazione dei redditi prodotti da una società al socio che vi fa parte comporta, dal punto di vista procedimentale, che il medesimo componente reddituale (ovvero il reddito societario) risulti elemento comune ad una pluralità di soggetti. All’amministrazione finanziaria, ai sensi dell’art. 40, comma 2, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, è consentito utilizzare l’accertamento di tale elemento sia ai fini dell’Irap (o in passato dell’Ilor) dovuta dalla società, sia ai fini dell’Irpef dovuta dai singoli soci. Essa, tuttavia, per pretendere le maggiori imposte dai soci, deve notificare a ciascuno di loro un ulteriore avviso di accertamento individuale. Il medesimo componente reddituale (il reddito societario determinato in capo alla società) diventa, così, l’elemento fondante una pluralità di avvisi di accertamento. Tale meccanismo opera sia per le società di persone, cui la trasparenza si applica per legge, sia per le società di capitali che, ricorrendone i presupposti, hanno esercitato l’opzione per l’applicazione di tale metodo.
     
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  3. seppietta
     
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    Precluse al giudice tributario le valutazioni equitative
    GIOVEDI' 03 SETTEMBRE 2009
    Nel processo tributario poteri limitati al giudice sull’accertamento. Infatti, l’ammontare delle imposte chieste dal fisco non può essere cambiato dal magistrato con una valutazione equitativa e secondo parametri di esperienza. La ctp deve attenersi alla dichiarazione del contribuente e agli accertamenti dell’amministrazione.
    Lo ha stabilito la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 19079 del 1 settembre 2009, ha accolto il ricorso di una contribuente che si era vista ridurre dal giudice i corrispettivi accertati con una valutazione equitativa (e non secondo la dichiarazione e i calcoli fatti dall’amministrazione finanziaria), mutuata dal processo civile.
     
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  4. alex.falco
     
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    http://www.uilpadirigentiministeriali.com/...nza%20ammi_.pdf

    segnalo argomenti trattati gia' nella relazione ufficio studi del consiglio di stato relativa al 2007

    Edited by alex.falco - 22/11/2009, 11:19
     
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  5. seppietta
     
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    Illegittimita’ della legge 27 dicembre 2002 n. 289 alla luce della sentenza della corte di giustizia europea del 17 luglio 2008 e dell’orientamento assunto dalla cassazione a sezioni unite con le sentenze del febbraio 2010

    Pubblicato in: diritto tributario
    In data: 25/03/2010
    Autore: Lucifora Francesco





    Lo Stato italiano con legge 27 dicembre 2002, n. 289 (legge finanziaria per il 2003) concedeva ai contribuenti la possibilità di integrare le dichiarazioni –relativamente ai periodi d’imposta per i quali i termini per la loro presentazione erano scaduti- ai fini delle II.DD., Iva, ecc., con il pagamento dei maggiori importi dovuti e a condizione che gli stessi si avvalessero della definizione di cui all’art. 9-bis. (art. 8) e quella di definire automaticamente tutte le imposte, per tutti i periodi d’imposta per i quali i termini per la presentazione delle relative dichiarazioni erano scaduti al 31.12.2002, con il versamento per ciascun periodo d’imposta di un importo compreso tra il 4 e l’8% delle imposte lorde, per Irpef, addizionali, Irap, ed ai fini Iva dall’1 al 2% dell’imposta relativa alla cessione dei beni e alla prestazione dei servizi effettuate dal contribuente (art. 9).

    Altre agevolazioni (inapplicabilità delle sanzioni) erano anche concesse dall’art. 9-bis, per la definizione dei ritardati od omessi versamenti, dall’art. 12, per la definizione dei carichi di ruoli pregressi, e dall’art. 16, per la chiusura delle liti fiscali pendenti.

    La Commissione delle Comunità europee, in data 7.3.2006, presentò un ricorso contro la Repubblica italiana per avere, con la L. 289/02, artt. 8 e 9, rinunciato all’accertamento delle operazioni imponibili effettuate nel corso di una serie di periodi d’imposta, violando gli obblighi ad essa imposti dagli artt. 2 e 22 della Sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17.5.1977 (abrogata e sostituita, il 1° gennaio 2007, dalla Direttiva del Consiglio 28.11.2006, 2006/112/CE, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto), in combinato disposto con l’art. 10 del Trattato CE.

    La Commissione, premettendo che gli Stati membri hanno l’obbligo di dare attuazione alla Sesta direttiva Iva -che impone ai contribuenti di pagare l’imposta a seguito dell’effettuazione di operazioni imponibili e agli Stati di porre in essere una efficace azione di accertamento e di controllo finalizzata ad assicurare una riscossione equivalente dell’imposta in tutti gli Stati membri- riteneva che le norme introdotte dagli artt. 8 e 9 fossero andate al di là del margine discrezionale concesso agli stessi dal legislatore comunitario, in quanto lo Stato italiano aveva effettuato una vera e propria rinuncia generale, indiscriminata e preventiva ad ogni attività di accertamento e verifica in materia di Iva, contravvenendo in tal modo alle prescrizioni degli artt. 2 e 22 della Sesta direttiva Iva.

    Lo Stato italiano, secondo la Commissione, avrebbe offerto ad ogni soggetto passivo Iva la possibilità di escludere l’eventualità di ogni controllo fiscale, attraverso il pagamento di una somma forfetaria che nulla aveva più a che vedere con l’Iva che sarebbe stata dovuta sul prezzo delle cessioni di beni o prestazioni di servizi effettuate dal soggetto passivo nel periodo considerato.

    Secondo la Commissione, la rinuncia ad ogni attività di verifica creava gravi distorsioni nel funzionamento del sistema comune dell’Iva, alterando il principio di neutralità fiscale, il quale si oppone a che operatori economici che effettuano le stesse operazioni siano trattati diversamente sotto il profilo della percezione dell’Iva, risolvendosi sia in un grave pregiudizio per le imprese tanto italiane che di altri Paesi membri sia in una grave lesione del principio di una sana concorrenza all’interno del mercato comune, enunciato nel quarto <<considerando>> della Sesta direttiva.

    La Repubblica Italiana, nella causa C-132, a propria difesa, sostenne che l’effetto del “Condono” non si risolveva in una rinuncia generale ed indiscriminata ad ogni attività di verifica, che solo una parte limitata dei contribuenti Iva si era avvalsa del condono e che lo stesso condono era stato produttivo in termini di tributi recuperati, con uno sfruttamento razionale di risorse limitate; in definitiva, sostenendo di essersi mossa entro i limiti di quella discrezionalità concessa agli Stati membri.

    L’Avvocato generale della CE, nelle sue conclusioni nella Causa C-132, condivise, facendole proprie, le argomentazioni della Commissione, in quanto rilevava dai “considerando” della Sesta direttiva che “emerge (va) tra gli altri, che le risorse proprie della Comunità comprendono anche quelle provenienti dall’Iva e che gli obblighi dei contribuenti debbono essere armonizzati, per assicurare le garanzie necessarie a una riscossione equivalente dell’imposta in tutti gli Stati membri”. Lo stesso Avvocato, ha anche ricordato che la Corte aveva già dichiarato che la Sesta direttiva deve essere interpretata in conformità al principio di neutralità fiscale, che è inerente al sistema comune della Iva, il quale si oppone a che operatori economici che effettuano le stesse operazioni siano trattati diversamente in materia di riscossione della Iva; che gli obblighi imposti agli Stati membri (art. 22 Sesta direttiva) per la riscossione della Iva costituiscono il corollario del principio di cui all’art. 2 (stessa direttiva), secondo il quale, in mancanza di una specifica esenzione, tutte le operazioni rientranti nel suo ambito di applicazione devono essere soggette ad imposta, e nessuno Stato può drogarne unilateralmente; cosicché, l’Iva sia interamente percepita nel suo territorio esattamente come si verifica in altri Stati membri.

    L’Avvocato generale concordava, anche, con la Commissione sul fatto che una legge ai sensi della quale operatori economici onesti e diligenti versano l’Iva integralmente mentre operatori disonesti o negligenti possano eludere ogni ulteriore controllo in cambio di un pagamento, al massimo, della metà, e se possibile molto meno, dell’Iva effettivamente dovuta non è conforme agli obblighi di cui agli artt. 2 e 22 della Sesta direttiva, in quanto la procedura dell’art. 9, L. 289/02, non comporta che si dichiarino operazioni effettivamente poste in essere e gli importi dovuti sono del tutto slegati dall’imposta che avrebbe dovuto essere versata a fronte di tali operazioni.

    L’Avvocato generale sosteneva che il condono della L. 289/02 non contiene nessuna di quelle caratteristiche che connotano una legge di condono (e cioè l’unicità; il pagamento del dovuto, con interessi; l’incremento dei controlli) essendo stato oggetto di proroghe per alcuni anni successivi e concludeva suggerendo alla Corte di –“dichiarare che la Repubblica italiana, prevedendo in maniera espressa e generale, agli artt. 8 e 9 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (legge finanziaria 2003), la rinuncia all’accertamento delle operazioni imponibili effettuate nel corso di una serie di periodi d’imposta, ha violato gli obblighi ad essa imposti dagli artt. 2 e 22 della Sesta direttiva Iva e dall’art. 10 CE; - condannare alle spese la Repubblica italiana”.

    La Corte (Grande sezione), nella Causa C-132/06, il 17.7.2008, ritenendo fondato il ricorso proposto dalla Corte e condividendone le motivazioni, dichiarava e statuiva che “1) La Repubblica italiana, avendo previsto agli artt. 8 e 9 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, le disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2003), una rinuncia generale e indiscriminata all’accertamento delle operazioni imponibili effettuate nel corso di una serie di periodi d’imposta, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi degli artt. 2 e 22 della Sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra d’affari –Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, nonché dell’art. 10 CE; 2) La repubblica italiana è condannata alle spese”.

    La Corte suprema di Cassazione, nel corso del 2009, ha più volte (sent. Nn. 20068 e 20069 del 18.9.09, n. 25701 del 9.12.09) riconosciuto efficacia immediata, nell’ambito del diritto interno, alla sentenza della Corte di giustizia.

    I Collegi delle singole sezioni, chiamati a pronunciarsi su ricorsi promossi avverso atti impositivi in materia di Iva, a seguito delle statuizioni della Corte di giustizia, rilevando l’esistenza di questioni di particolare importanza sull’esatta applicazione delle disposizioni riguardanti gli artt. 8, 9, 12 e 16 della L. 289/02, hanno ritenuto di dovere rimettere i ricorsi al Primo Presidente affinché valutasse l’opportunità che gli stessi fossero decisi dalle Sezioni Unite della Corte.

    La Suprema Corte a Sezioni Unite (sentenze nn. 3674 e 3676 del 17.2.2010), investita delle questioni, ha deciso che il Giudice italiano deve applicare i principi contenuti nella sentenza della Corte di giustizia, con la conseguenza che dovrà decidere sulle controversie come se la “definizione” dell’imposta, ai sensi dei disposti degli artt. 8, 9 e 12, non ci fosse mai stata.

    E’ bene precisare che l’illegittimità statuita dalla Corte di giustizia non incide gli aspetti procedurali della norma nazionale ma solo quelli sostanziali e riguarda l’art. 8 (integrazione degli imponibili per gli anni pregressi), l’art. 9 (condono tombale), l’art. 12 (rottamazione dei ruoli), ma non riguarda l’art. 16, in quanto quest’ultima non concerne la definizione dell’imposta –come avviene con le prime tre norme- bensì quella della lite in corso tra il contribuente ed il Fisco.

    La disapplicazione delle norme sul condono alle infrazioni fiscali in materia di Iva, -considerato che la Corte di giustizia si era occupata solo degli artt. 8 e 9-poneva il quesito se la sospensione dei termini di impugnazione prevista dall’art. 16, co. 6, della stessa legge, doveva o meno applicarsi anche ai giudizi promossi avverso gli avvisi di accertamento e di rettifica per il recupero dell’iva.

    Le SS.UU. della Suprema Corte di Cassazione (sentenza n. 3676 del 2.2.2010, depositata il successivo 17) ha statuito che le statuizioni della Corte di Giustizia non si estendono alla definizione delle liti fiscali pendenti di cui all’art. 16 della legge di condono, in quanto non incidono sulla determinazione dell’imposta dovuta, costituendo invece uno strumento deflativo del contenzioso volto a garantire il recupero a tassazione di un credito tributario, la cui certezza deve essere vagliata in sede giurisdizionale.

    Le SS.UU. giungono a tale soluzione partendo dalla considerazione che gli artt. 8 e 9, da un lato, e l’art. 16, dall’altro, hanno tra esse, oggetti, scopi e rationes legis assolutamente diversi, in quanto i primi due hanno riguardo alla definizione dell’imposta, mentre il terzo ha riguardo alla definizione delle liti, in funzione di una riduzione del contenzioso in atto.

    Per le SS.UU., l’art. 16, per le disposizioni in esso contenute (pendenza della lite al 29.9.02; valore della lite; pagamento del 10% del valore della lite in caso di soccombenza dell’Ufficio e del 50% in caso di soccombenza del contribuente; 30% nel caso in cui non sia stata emessa ancora una sentenza) non prevede alcuna rinuncia all’accertamento dell’imposta, il cui potere è stato già esercitato, ma autorizza l’A.F. a transigere l’esito della lite a determinate condizioni, comunque positivi, e con effetti deflativi del contenzioso, con la conseguenza che non sussistono motivi per la sua disapplicazione da parte del giudice italiano.

    Sulla legittimità delle disposizioni di cui al predetto art. 16, oltre alle argomentazioni sopra illustrate, non possono sorgere dubbi anche in considerazione di altre “due argomentazioni che assumono carattere decisivo: a) da un lato il principio dell’affidamento, che costituisce un valore guida dell’intero ordinamento ed è in materia tributaria specificamente affermato e garantito dall’art. 10 dello Statuto del contribuente, …; b) dall’altro, ammettere l’inapplicabilità della sospensione dei termini …, significherebbe paradossalmente paralizzare proprio l’azione dell’amministrazione in ordine al recupero dell’imposta, in evidente contraddizione con le ragioni ultime della sentenza della Corte di giustizia alla quale vorrebbe farsi ossequio”.

    La sentenza della Corte di giustizia ha prodotto conseguenze anche sull’art. 12 della L. 289/02 (rottamazione dei ruoli), in base al quale i debitori possono estinguere il debito senza corrispondere gli interessi di mora e con il pagamento di una somma pari al 25% dell’importo iscritto a ruolo e delle somme dovute al concessionario a titolo di rimborso, per le spese sostenute per le procedure esecutive eventualmente effettuate dallo stesso.

    Le SS.UU. (sentenza n. 3674 del 17.2.2010) sostengono che tale articolo non è “una norma che prevede la definizione agevolata dell’imposta (come le disposizioni di cui agli artt. 8 e 9, direttamente investite dalla sentenza della Corte di giustizia), né una norma che regola la definizione delle liti pendenti (come la disposizione di cui all’art. 16), ma una norma che interviene nella fase della riscossione, riducendo l’importo che il contribuente deve pagare ad una percentuale del dovuto”.

    A parere delle SS.UU., la rottamazione delle cartelle, inerenti la riscossione dell’Iva, integrando i presupposti di una rinuncia definitiva dello Stato alla riscossione (cosi come la Corte di giustizia aveva ritenuto per gli artt. 8 e 9) degli importi dovuti, è incompatibile con il sistema Comune dell’Iva, perché “non risponde al principio di effettività, in quanto non garantisce la riscossione di quanto dovuto dal contribuente in esito ad un accertamento definitivo di un debito tributario per il quale è stata emessa la cartella di pagamento”.

    Da tale principio discende che l’art. 12 deve essere disapplicato dal Giudice italiano, con la conseguenza che il pagamento della cartella è inefficace ad estinguere il debito tributario.

    Il Giudice italiano, chiamato a dirimere controversie inerenti l’imposta sul valore aggiunto, non dovrà tenere conto della rottamazione dei ruoli, del condono tombale e dell’integrativa semplice (definizione dell’imposta), mentre dovrà dare attuazione alle altre norme che non riguardano la definizione dell’imposta, come ad esempio che riguardano la proroga dei termini (definizione delle liti pendenti).

    Francesco Lucifora

    Giudice presso la Commissione tributaria provinciale di Ragusa.
     
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    Vizio non sanabile per raggiungimento dello scopo
    La cartella non notificata e' giuridicamente inesistentedi Maurizio Villani e Stefania Attolini Lo scopo proprio della notifica della cartella di pagamento, non preceduta dalla notifica dell'avviso di accertamento, e' quello di portare a conoscenza del contribuente che l'Ufficio finanziario ha accertato nei suoi confronti un maggior credito d'imposta di cui chiede il pagamento, e non quello di porre il contribuente nelle condizioni di ricorrere avverso tale accertamento, anche se ne costituisca un antecedente.Con la sentenza n. 3/10/10 dell'8 gennaio 2010, la Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo ha rigettato l’appello dell’Agenzia delle Entrate di Pescara, che chiedeva la riforma della sentenza di primo grado in quanto affetta da vizi in violazione degli articoli 19, D.Lgs. n. 546/1992, degli articoli 2 e 8, D.P.R. n. 322/1998, degli articoli 1 e 3, D.Lgs. 446/1997 e dell'art. 36-bis, D.P.R. n. 600/1973, carente e omessa motivazione in violazione dell’art. 112 c.p.c.

    Ha, invece, accolto le controdeduzioni e l’appello incidentale del contribuente, il quale eccepiva l’illegittimità della cartella di pagamento IRAP, in quanto priva della relata di notifica e del nominativo del responsabile del procedimento.

    La Commissione Tributaria Regionale ha motivato il rigetto dell’appello, affrontando la problematica del vizio della cartella di pagamento derivante da un illegittimo procedimento notificatorio della cartella stessa e, nel merito, ha ribadito l’orientamento giurisprudenziale riguardante i presupposti per l’assoggettamento all’IRAP e, quindi, ha approfondito i limiti del requisito della “autonoma organizzazione”.

    Per quanto riguarda il vizio della notifica, la Corte pone alla base della propria decisione, la natura sostanziale della notifica della cartella di pagamento: in quanto atto recettizio, per essere efficace deve essere portato a conoscenza del destinatario.

    In tal caso, quindi, la notifica, rituale in quanto effettuata ai sensi degli articoli 26, D.P.R. n. 602/1973 e 60, D.P.R. n. 600/1973, è una fase essenziale del perfezionamento dell’atto.

    Quindi, afferma la Commissione abruzzese, “l’atto amministrativo non notificato al domicilio risultante dalla dichiarazione annuale relativa all’anno d’imposta di pertinenza va ritenuto giuridicamente inesistente con conseguente prescrizione del credito d’imposta e decadenza dal diritto a richiederne il pagamento al contribuente da parte dell’amministrazione finanziaria, in caso di scadenza dei termini di legge”.

    Ed inoltre, stabilisce che “la proposizione del ricorso avverso tale atto non sana il vizio per raggiungimento dello scopo, in quanto la sanatoria prevista dall'art. 156 e seguenti c.p.c. vale solo per gli atti processuali e non per quelli sostanziali come gli atti impugnabili nel processo tributario, tra i quali rientra la cartella di pagamento”.

    La Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo ha affrontato, altresì, la problematica, già oggetto di numerose pronunce, riguardante il giusto inquadramento del requisito, ai fini della tassabilità dell’IRAP, della “autonoma organizzazione”.

    Fondamentale chiarimento, a questo proposito, è stato fornito dalla Corte Costituzionale, nel 2001 con la sentenza n. 156, nella quale il giudice delle leggi ha stabilito che l’attività di lavoro autonomo diversa dall’impresa commerciale, integra il presupposto dell’IRAP quando il contribuente sia responsabile dell’organizzazione ed eserciti l’attività con impiego di beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività auto-organizzata oppure si avvalga, in modo non occasionale, del lavoro altrui.

    La sussistenza del requisito dell’autonoma organizzazione è oggetto di valutazione, caso per caso, da parte del giudice di merito.

    Ribadisce, infine, la Commissione abruzzese, le regole in tema di onere della prova: costituisce onere del contribuente, infatti, in sede di istanza di rimborso dell’imposta non dovuta, fornire la prova dell’assenza dei presupposti impositivi dell’IRAP.

    Conclude quindi la Commissione rigettando l’appello e condannando l’Amministrazione Finanziaria al rimborso integrale d
     
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    Notifica della sentenza? Nel processo tributario non costituisce la messa in mora
    Cassazione civile , sezione tributaria, sentenza 23.06.2010 n° 15176 (Manuela Rinaldi)

    Ai fini del giudizio di ottemperanza è necessaria l’intimazione ad adempiere a mezzo di ufficiale giudiziario, in quanto la semplice notifica non mette in mora il fisco.

    Nel processo tributario, infatti, la notifica di una sentenza, eseguita ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 285 del codice di procedura civile, è un atto diverso dalla costituzione in mora e non rileva ai fini della decorrenza del termine dilatorio per la richiesta di ottemperanza della sentenza passata in giudicato.

    Così si sono espressi i giudici della Suprema Corte nella sentenza 15176/2010, i quali hanno respinto il ricorso di un contribuente, rivolto ad ottenere la liquidazione degli interessi dovuti dall’amministrazione di un comune, a seguito del ritardo con il quale aveva provveduto al rimborso delle maggiori somme percepite a titolo di ICI.

    Il ricorrente (ottenuto un giudicato favorevole relativo ad una lite di rimborso) sosteneva che la costituzione in mora era avvenuta tramite notifica della sentenza, e che l’amministrazione (avendo provveduto al rimborso oltre i termini) avrebbe dovuto provvedere anche al pagamento degli interessi.

    Nella sentenza de qua si legge testualmente che “nel sistema delineato dal D.P.R. n. 546 del 1992, art. 70, il ricorso per l'ottemperanza agli obblighi derivanti da una sentenza emessa dalla commissione tributaria passata in giudicato è proponibile "solo dopo la scadenza del termine" fissato dalla legge per l'adempimento all'Ufficio finanziario o all'ente locale, "o, in mancanza di tale termine, dopo trenta giorni dalla loro messa in mora a mezzo di ufficiale giudiziario" (comma 2); con il ricorso in ottemperanza, a norma del comma 3, deve essere prodotta in copia la sentenza passata in giudicato di cui si chiede l'ottemperanza "unitamente all'originale o copia autentica dell'atto di messa in mora notificato a norma del comma precedente, se necessario”.

    La Corte nelle proprie motivazioni ha affermato, come evidenziato in apertura di commento, che (in materia di contenzioso tributario) la notifica di una sentenza, eseguita secondo la norma dell’art. 285 c.p.c., non può essere equiparata alla messa in mora di cui parla l’art. 70 del 546/92.

    (Altalex, 29 luglio 2010. Nota di Manuela Rinaldi)
     
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    Cass. civ., Sez. V, 31 gennaio 2011, n. 2221

    IMPOSTE E TASSE IN GENERE

    Le norme della L. n. 212 del 2000 emanate in attuazione degli articoli della Costituzione e qualificate espressamente come principi generali dell’ordinamento tributario sono, in alcuni, casi, idonee a prescrivere specifici obblighi a carico dell’Amministrazione finanziaria. Una norma contenuta in una legge ordinaria successiva all’entrata in vigore dello Statuto del contribuente non può essere disapplicata solo perché ritenuta difforme da un principio in esso sancito.
    Cass. civ., Sez. V, 31 gennaio 2011, n. 2213

    IMPOSTA REDDITO PERSONE FISICHE E GIURIDICHE

    Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio giusta il quale le regole sull’imputazione temporale dei componenti negativi sono inderogabili, non essendo consentito al contribuente scegliere di effettuare la detrazione di un costo in un esercizio diverso da quello individuato dalla legge come esercizio di competenza, così da alterare il risultato della dichiarazione.
     
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    Nota a sentenza 01.04.11
    Sul divieto di ius novorum in appello nel processo tributario
    Nota a Corte di Cassazione - Sezione Tributaria, Sentenza 19 gennaio 2011, n. 6921
    Dott.ssa Licia Gulotta


    La Corte di Cassazione con la sentenza n. 6921 del 19.01.2011 ha stabilito che l’Amministrazione Finanziaria può provare per la prima volta l’avvenuta notifica dell’accertamento anche in appello, in quanto tali allegazioni si limitano alla mera indicazione di un fatto già acquisito al giudizio, non introducendo alcun elemento nuovo rispetto a quelli già presentati con il ricorso introduttivo.

    IL FATTO

    Il contribuente proponeva ricorso davanti alla Commissione Tributaria Provinciale avverso l’ingiunzione di pagamento per il recupero della maggiore imposta di registro, più accessori ed interessi, derivante da un accertamento di maggior valore su un atto di transazione stipulato dalla parte.

    L’adito Giudice di prime cure accoglieva il ricorso, statuendo nel merito, nonostante, tuttavia, gli atti impositivi presupposti fossero già divenuti definitivi per mancata impugnazione da parte del contribuente. In tale occasione, infatti, l’Ufficio, nel depositare tardivamente le proprie controdeduzioni, non aveva potuto fornire prova dell’avvenuta notifica dell’avviso di accertamento e di liquidazione che avevano preceduto l’impugnata ingiunzione.

    A seguito dell’appello dell’Amministrazione, la Commissione Tributaria Regionale, sulla scorta dei documenti depositati dall’Ufficio attestanti la rituale notifica dell’avviso di accertamento e dell’avviso di liquidazione divenuti definitivi per mancata impugnazione da parte del contribuente, riformava la sentenza di primo grado, ritenendo che l’ingiunzione, poiché preceduta dalla regolare notifica di altro atto autonomamente impugnabile, avrebbe dovuto essere a sua volta contestata solo per vizi propri, come previsto dall’art.19, comma 3, del D.Lgs n. 546/1992.

    Il contribuente impugnava, dunque, per cassazione la predetta sentenza davanti al Giudice di legittimità per violazione e falsa applicazione dell’art. 57 del D.Lgs n. 546/l992, ciò in quanto, a parere della parte, la C.T.R. avrebbe ammesso nel grado di appello la proposizione da parte dell’Ufficio di “domande ed eccezioni non proposte in primo grado”, riesaminando la questione e decidendo, in violazione del richiamato art. 57, sulla base delle eccezioni formulate per la prima volta in detto grado di giudizio.

    Ritualmente costituitasi in giudizio, l’Amministrazione contestava come, invece, l’allegazione nel giudizio di appello della rituale notifica degli atti impositivi e della loro definitività a seguito di mancata impugnazione da parte del contribuente, non avesse rappresentato un’eccezione in senso stretto, bensì una mera difesa, come tale sottratta al divieto dei nova sancito dall’art. 57, comma 2 del D.Lgs n. 546/1992.


    LA SENTENZA DELLA CASSAZIONE

    Con la sentenza in commento, la Suprema Corte ha preliminarmente ribadito la natura impugnatoria del giudizio tributario, in quanto circoscritto alla verifica della legittimità della pretesa effettivamente avanzata con l’atto impugnato, sulla base dei presupposti di fatto e di diritto in esso atto indicati, ed avente “un oggetto rigidamente delimitato dalle contestazioni mosse dal contribuente con i motivi specificamente dedotti nel ricorso introduttivo in primo grado, onde delimitare sin dalla nascita del rapporto processuale tributario le domande e le eccezioni proposte dalle parti” (cfr. ex multis Cass. V sez. 18.6.2003 n. 9754; 2.4.2007 n. 8182 e 3.8.2003 n. 17119, Cass. SU 23.12.2009 n. 27209).

    In tale contesto, la Cassazione ha, dunque, puntualizzato come nel contenzioso tributario l’eccezione in senso stretto rappresenti lo strumento processuale attraverso il quale si possa far valere un fatto giuridico avente efficacia modificativa od estintiva della pretesa fiscale (cfr. Cass. V sez 11.7.2002 n. 10112), non potendo essere considerata tale - e non comportando, pertanto, il divieto di sollevare eccezioni nuove in appello, posto dall’art 57 del D.Lgs n.546/92 - la nuova deduzione, in grado di appello, di cosiddette “eccezioni improprie”, o “mere difese”, dirette esclusivamente a sollecitare il rilievo d’ufficio, da parte del giudice, dell’inesistenza dei fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio (cfr. Cass. V sez. 12.8.2004 n. 15546), ovvero, specularmente, in quanto volta alla mera contestazione da parte dell’Amministrazione finanziaria delle censure mosse dal contribuente all’atto impugnato con il ricorso ed alle quali rimane, comunque, circoscritta la indagine rimessa al giudice.

    A parere della Suprema Corte, dunque, la norma dell’art. 57 comma 2 D.Lgs n. 546/1992, invocata dal ricorrente, comporta esclusivamente la preclusione delle eccezioni “nuove” e cioè di quelle eccezioni che si risolvono in un “mutamento, in secondo grado, degli elementi materiali del fatto costitutivo della pretesa” con conseguente ampliamento del “thema decidendum” (cfr. Cass. V sez. 3.5.2002 n. 6347).

    La Cassazione ha, pertanto, rigettato il ricorso del contribuente, considerato, appunto, che, avuto riguardo all’oggetto del contendere così come definito dal ricorso in primo grado (nel quale si contestava la mancata notifica degli atti valutativi e di liquidazione presupposti), le contrarie allegazioni svolte dall’Ufficio in appello, volte ad affermare, al contrario, l’avvenuta notificazione di tali atti, si sono limitate alla “mera indicazione di un fatto già acquisito al giudizio, in quanto non introducono alcun elemento nuovo di indagine rispetto a quelli già introdotti nel giudizio con il ricorso introduttivo”.

    Con la predetta pronuncia, la Suprema Corte ha, dunque, confermato il preesistente orientamento, già compiutamente espresso con la sentenza n. 5895 del 23/04/2002, secondo cui le difese, le argomentazioni e le prospettazioni dirette a contestare la fondatezza di un’eccezione non costituiscono a loro volta eccezioni in senso tecnico, rappresentate, invece, da quelle ragioni su cui il giudice non può pronunciarsi se ne manchi l’allegazione ad opera delle parti.

    Di conseguenza, le preclusioni in appello, statuite dal disposto dell’art. 57 della norma sul processo tributario, non si applicano ai fatti e alle argomentazioni, posti a fondamento della domanda, che costituiscono oggetto di accertamento, di esame e di valutazione da parte del giudice di secondo grado, il quale, considerato l’effetto devolutivo tipico dell’appello, deve, infatti, a sua volta riesaminare tutti gli elementi probatori e le argomentazioni giuridiche che siano da questi ritenuti rilevanti ai fini della decisione.

     
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  10. seppietta
     
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    Manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 10-ter d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, aggiunto dall’art. 35, comma 7, del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla l. 4 agosto 2006, n. 248, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione.



    ORDINANZA N. 224

    ANNO 2011


    REPUBBLICA ITALIANA
    IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
    LA CORTE COSTITUZIONALE

    composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

    ha pronunciato la seguente

    ORDINANZA

    nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), aggiunto dall’art. 35, comma 7, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, promosso dal Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di P. A., con ordinanza del 22 settembre 2010, iscritta al n. 16 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell’anno 2011.
    Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
    udito nella camera di consiglio del 6 luglio 2011 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.

    Ritenuto che, con ordinanza del 22 settembre 2010, il Tribunale di Torino, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), aggiunto dall’art. 35, comma 7, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, «limitatamente alle omissioni […] relative all’anno 2005»;
    che il giudice a quo – investito del processo nei confronti di una persona imputata del reato previsto dal citato art. 10-ter – riferisce che il difensore dell’imputato ha eccepito l’illegittimità costituzionale della norma per contrasto con gli artt. 3 e 25, secondo comma, Cost.;
    che il Tribunale torinese ritiene la questione non manifestamente infondata, in riferimento al solo art. 3 Cost.;
    che, al riguardo, il rimettente rileva come la norma denunciata punisca con la pena indicata dall’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000 chiunque non versa, nei limiti ivi previsti, l’imposta sul valore aggiunto (IVA), dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo;
    che, alla luce della disciplina tributaria concernente tale versamento in acconto – e, in particolare, dell’art. 6, comma 2, della legge 29 dicembre 1990, n. 405, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 1991)» – il reato in esame si consuma, quindi, nel mese di dicembre (in particolare, il 27 dicembre) dell’anno successivo a quello cui si riferisce l’imposta dovuta: sicché, in pratica, il soggetto che, in base alla dichiarazione annuale, risulti debitore per IVA in misura superiore a 50.000 euro (costituente la soglia di punibilità prevista dal richiamato art. 10-bis), fruirebbe di un termine di dodici mesi per corrispondere il tributo, al fine di non incorrere in responsabilità penale;
    che, con riferimento all’imposta dovuta per l’anno 2005, detto termine risulterebbe, di contro, assai più breve: essendo stata la norma incriminatrice introdotta dal decreto-legge n. 223 del 2006 – entrato in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione (4 luglio 2006) e non recante alcuna disposizione transitoria relativa alla fattispecie criminosa in questione – il contribuente avrebbe avuto, infatti, a disposizione, per eseguire il versamento, solo il periodo intercorrente tra luglio e dicembre 2006;
    che la norma censurata si porrebbe, di conseguenza, in contrasto con il principio di eguaglianza, in quanto punirebbe allo stesso modo due condotte differenti: vale a dire, tanto quella di chi ometta il versamento dell’IVA per l’anno 2005, avendo a disposizione solo il più ristretto termine dianzi indicato; quanto quella di chi ometta il versamento dell’imposta per gli anni successivi, fruendo dell’ordinario termine annuale;
    che il giudice a quo esclude, per converso, che la previsione sanzionatoria denunciata possa ritenersi lesiva dell’art. 25, secondo comma, Cost., per violazione del principio di irretroattività della norma incriminatrice;
    che se è vero, infatti, che al momento della scadenza del «termine fiscale» per il pagamento dell’IVA relativa all’anno 2005 il reato in discussione non era ancora stato introdotto – essendo il decreto-legge n. 223 del 2006 posteriore a detta scadenza – è altrettanto vero, però, che la condotta penalmente rilevante non è l’omesso versamento dell’IVA nel termine previsto dalla normativa tributaria, ma il mancato versamento nel maggiore termine stabilito per la corresponsione dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo;
    che, pertanto, il soggetto che aveva omesso il pagamento dell’IVA per il 2005 nel termine previsto dalla normativa tributaria avrebbe avuto ancora, fino al dicembre 2006, la possibilità di «assumere le proprie determinazioni in ordine all’effettuazione di tale versamento»: sicché, se non vi ha provveduto, rendendosi così responsabile del reato in esame, la relativa scelta sarebbe comunque maturata in un momento nel quale la fattispecie incriminatrice era già presente nell’ordinamento, donde l’impossibilità di attribuire alla nuova incriminazione un effetto retroattivo;
    che la questione, riferita al solo art. 3 Cost., sarebbe, altresì, rilevante nel giudizio a quo, nel quale l’imputato è chiamato a rispondere del reato previsto dalla norma censurata proprio per avere omesso il pagamento dell’IVA dovuta, in base alla dichiarazione annuale, per l’anno 2005, per un importo di euro 226.329;
    che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile per oscurità del petitum e insufficiente motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza, o, comunque, manifestamente infondata nel merito.
    Considerato che il Tribunale di Torino dubita, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), aggiunto dall’art. 35, comma 7, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, «limitatamente alle omissioni […] relative all’anno 2005»;
    che l’eccezione di inammissibilità della questione per oscurità del petitum, formulata dall’Avvocatura generale dello Stato, non è fondata;
    che dal tenore del dispositivo e della motivazione dell’ordinanza di rimessione emerge, infatti, in modo sufficientemente chiaro che il giudice a quo chiede a questa Corte una pronuncia che escluda l’applicabilità della norma incriminatrice censurata all’omesso versamento dell’IVA relativa all’anno 2005;
    che parimenti infondata è l’ulteriore eccezione della difesa dello Stato, di inammissibilità della questione per difetto di motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza;
    che il rimettente pone, infatti, puntualmente in evidenza come la questione sia rilevante in ragione del fatto che all’imputato nel giudizio principale è stato contestato il reato di omesso versamento dell’IVA, risultante dalla dichiarazione annuale, proprio in relazione all’anno di imposta 2005, per un importo di euro 226.329 (superiore, dunque, alla soglia di punibilità);
    che il Tribunale torinese enuncia, inoltre, in modo altrettanto chiaro l’unica ragione che, a suo avviso, renderebbe la norma censurata contrastante, in parte qua, col parametro costituzionale evocato: vale a dire, il fatto che la stessa sottoponga alla medesima pena soggetti che fruiscono di un termine sensibilmente differenziato per eseguire il versamento di imposta penalmente rilevante;
    che la questione – se pure ammissibile – è, tuttavia, manifestamente infondata nel merito;
    che, per costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, non contrasta, di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alla stessa categoria di soggetti, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo costituisce un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche (ex plurimis, sentenza n. 94 del 2009, ordinanze n. 61 del 2010, n. 170 del 2009 e n. 212 del 2008; nonché, con particolare riguardo alla disciplina dei termini, sentenze n. 342 del 2006, n. 489 del 1989 e n. 367 del 1987);
    che, quindi, la circostanza che – in base alla ricostruzione operata dal giudice a quo – per ragioni collegate alle meccaniche di entrata in vigore della norma incriminatrice, il debitore di IVA per l’anno 2005 venga a disporre, al fine di eseguire il versamento – o, meglio, per decidere se effettuarlo o meno con la consapevolezza che la sua omissione avrà conseguenze penali (essendo il pagamento doveroso, in base alla normativa tributaria, già prima e indipendentemente dall’introduzione della nuova incriminazione) – di un termine minore di quello accordato ai contribuenti per gli anni successivi, non può ritenersi, di per sé, lesiva del parametro costituzionale evocato;
    che, d’altro canto, il termine di oltre cinque mesi e mezzo (dal 4 luglio 2006 al 27 dicembre 2006), riconosciuto al soggetto in questione (in luogo dei quasi dodici mesi “ordinari”), non può ritenersi intrinsecamente incongruo, ossia talmente breve da pregiudicare o da rappresentare, di per sé, un serio ostacolo all’adempimento (per analoga considerazione, con riguardo ad altra fattispecie, sentenza n. 342 del 2006);
    che, correlativamente, neppure può considerarsi lesivo del principio di eguaglianza il fatto che la norma censurata sottoponga allo stesso trattamento sanzionatorio soggetti che fruiscono di termini comunque differenti per il versamento idoneo ad evitare la responsabilità penale;
    che – come reiteratamente affermato da questa Corte – al legislatore è consentito includere in uno stesso paradigma punitivo una pluralità di fattispecie diverse per struttura e disvalore, spettando, in tali casi, al giudice far emergere la differenza tra le varie condotte tramite la graduazione della pena tra il minimo e il massimo edittale (ex plurimis, sentenze n. 250 e n. 47 del 2010; ordinanze n. 213 del 2000 e n. 145 del 1998);
    che, nella specie, la particolare (e, per l’aspetto considerato, meno favorevole) situazione in cui – sempre alla stregua della ricostruzione del rimettente – sono venuti a trovarsi i contribuenti per l’anno 2005 rispetto ai destinatari del precetto per gli anni successivi, potrà essere, dunque, eventualmente apprezzata e valorizzata dal giudice in sede di determinazione della pena nell’ambito della forbice edittale, sufficientemente ampia a tal fine (da sei mesi a due anni di reclusione);
    che la questione va dichiarata, pertanto, manifestamente infondata.
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

    Per Questi Motivi
    LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), aggiunto dall’art. 35, comma 7, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Torino con l’ordinanza indicata in epigrafe.
    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 luglio 2011.

    Alfonso QUARANTA, Presidente
    Giuseppe FRIGO, Redattore
    Gabriella MELATTI, Cancelliere

    Depositata in Cancelleria il 21 luglio 2011.
     
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  11. seppietta
     
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    CASSAZIONE PENALE
    Cass. pen., Sez. III, ud. 16 maggio 2012 - dep. 3 luglio 2012, n. 25677


    IMPOSTE E TASSE IN GENERE
    Al fine di disporre il sequestro per equivalente nei reati tributari non è sufficiente la configurabilità del reato, essendo, altresì, necessario che un profitto od un prezzo siano individuabili. In tal senso per profitto confiscabile deve intendersi non solo un positivo incremento del patrimonio personale ma qualsiasi vantaggio patrimoniale direttamente derivante dal reato anche se consistente in un risparmio di spesa. Avuto particolare riguardo al reato di cui all'art. 11, D.Lgs. n. 74 del 2000 il profitto deve rinvenirsi nella riduzione simulata o fraudolenta del patrimonio su cui il fisco ha diritto di soddisfarsi e, quindi, nella somma di denaro la cui sottrazione all'Erario viene perseguita, non importa se con esito favorevole o meno, attesa la struttura di pericolo della fattispecie, attraverso l'atto di vendita simulata o gli atti fraudolenti posti in essere.

     
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  12. seppietta
     
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    La Cassazione estende l’obbligo contributivo anche alle attività che presentano un nesso con l’attività professionale.

    Tutti i redditi professionali, anche quelli derivanti da attività diverse ma comunque collegate all’attività professionale, sono assoggettabili a contribuzione obbligatoria a favore della Cassa di previdenza di categoria. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 14684 del 29 agosto 2012 che ribalta i recenti indirizzi interpretativi (Cass., sentt. 11154/2004 e 2468/2005) che attribuivano l’obbligo di versamento degli oneri previdenziali alle sole «attività riservate» per legge, ovvero ritenevano che i contributi previdenziali fossero dovuti solo sui redditi derivati dall’attività professionale in senso proprio. La Corte ha infatti rigettato il ricorso di un ingegnere iscritto a Inarcassa (Cassa di previdenza di architetti e ingegneri) che contestava la richiesta di pagamento di contributi su redditi professionali derivanti dalle attività di consulenza per elaborazione dati e programmazione e per l’attività di amministrazione di una società. Riteneva il professionista che detti contributi non fossero dovuti in quanto estranei all’attività di ingegnere libero professionista. Parere contrario alle motivazioni esposte dal ricorrente hanno espresso i giudici della Cassazione, i quali hanno adottato un nuovo indirizzo interpretativo che amplia il concetto di attività professionale all’evoluzione delle competenze tecniche che costituiscono il bagaglio professionale dell’iscritto. Secondo la Corte, infatti, oltre alle attività
    riservate, tra le attività professionali soggette a obbligo contributivo rientrano anche quelle che, pur non «professionalmente tipiche», presentino tuttavia un «nesso» con l’attività professionale strettamente intesa, in quanto richiedano le medesime competenze tecniche di cui il professionista ordinariamente si avvale nell’esercizio dell’attività professionale e nel cui svolgimento, pertanto, mette a frutto anche la specifica cultura che gli deriva dalla formazione tipologicamente propria della sua professione.
    L’interpretazione seguita dagli Ermellini, che a parere di questi ultimi va estesa a tutte le categorie professionali e che si traduce nell’escludere la sussistenza dell’obbligo contributivo solamente nel caso in cui non sia ravvisabile in concreto un intreccio tra tipo di attività e conoscenze tipiche del professionista, era stata in realtà già suggerita dalla Corte costituzionale ed avallata dalla stessa giurisprudenza di legittimità.
    In particolare, la Consulta, nella nota sent. 402/1991, aveva ritenuto che il prelievo contributivo è collegato all’esercizio professionale e che per tale deve intendersi anche la prestazione di attività riconducibili, per loro intrinseca connessione, ai contenuti dell’attività propria della libera professione. Nella stessa direzione i giudici di legittimità (Cass., sent. 20670/2004) già avevano affermato che è la oggettiva riconducibilità alla professione dell’attività in concreto svolta dal professionista a comportare l’inclusione dei relativi compensi tra i corrispettivi che concorrono a formare la base di calcolo del contributo soggettivo obbligatorio e del contributo integrativo dovuti alle Casse di previdenza.
    Fermi i ricordati precedenti, nella sentenza in oggetto si ribadisce, pertanto, come il parametro dell’assoggettamento alla contribuzione sia dato dalla connessione tra l’attività (da cui il reddito deriva) e le conoscenze professionali, ossia la base culturale su cui tale attività si fonda; il limite di detta connessione vale a segnare, di conseguenza, l’estraneità dell’attività stessa alla professione.

     
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