Avvocatura § I Temi Generali

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  1. SALATIELE
     
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    §§§



    (da Altalex.com del 4 dicembre 2013. Articolo del Prof. Avv. Guido Alpa, composto sulla base della relazione sull’attività svolta nell’anno 2011 e nel primo semestre del 2012)

    La situazione dell’avvocatura italiana nella fase di crisi economica globale

    Articolo di Guido Alpa, 04.12.2013


    Incipit

    "La giustizia esige (…)che l’àdito a qualsivoglia arte o professione sia aperto, senza privilegi e senza eccezioni, a tutti coloro che si dimostrino capaci di esercitarla; e che appunto in ragione della capacità tecnica dimostrata, ognuno possa concorrere a determinare le norme che disciplinano la rispettiva arte o professione partecipando così alla tutela degli interessi comuni di coloro che dedicano ad essa la loro opera, subordinatamente alle leggi che tutelano gli interessi generali (giustizia professionale)"

    Giorgio Del Vecchio, Discorso letto il 19 novembre 1922
    per l’inaugurazione dell’anno accademico dell’ Università di Roma (Annuario 1922-1923)


    Abstract

    Questa analisi risente del fatto che oggi le professioni intellettuali e l’avvocatura in primis versano in una situazione di emergenza. Il mondo nel quale vivevamo già in difficoltà è completamente mutato, aggiungendo rischi e fattori negativi alla situazione pregressa, e per l’altra parte è in attesa di registrare ulteriori cambiamenti, dovuti all’approvazione del progetto di riforma forense in discussione alla Camera (AC 1390) e alla applicazione del regolamento sulle professioni predisposto dal Ministero della Giustizia, attualmente in forma di schema sottoposto al parere del Consiglio di Stato (schema di decreto ministeriale sulle professioni ex legge…).

    Le due riforme, sono tra loro strettamente connesse: e d’altra parte, essendo l’Avvocatura (Advocacy) uno dei pilastri dello Stato di diritto (Rule of Law), e una professione alla quale compete il diritto e il dovere di assistere i cittadini nell’accesso alla giustizia, sarebbe illogico, prima ancora che politicamente errato, apportare modificazioni alla macchina della giustizia, senza la cooperazione dell’Avvocatura, e apportare modificazioni allo statuto dell’avvocato senza apprezzarne il ruolo all’interno di quella macchina. Ma, a dispetto delle teorie hegeliane, non viviamo in un mondo razionale e stiano attraversando una stagione nella quale si tende ad ignorare i problemi che travagliano l’Avvocatura e le misure che potrebbero sostenerla nella preziosa diuturna fatica che essa si sobbarca per svolgere la sua missione e anche per supplire la Magistratura nel suo ufficio.

    Purtroppo, nelle analisi che si sono susseguite negli ultimi tempi, in occasione di cerimonie ufficiali, di seminari e conferenze, ma anche nella presentazione di libri che provvedono utili suggerimenti per migliorare la situazione in atto, per non parlare poi delle ricerche e dei documenti confezionati da parte delle Istituzioni competenti, alla supplenza della Avvocatura non si dà né spazio né voce, come se le migliaia di giudici di pace, le migliaia di giudici onorari, le migliaia di avvocati che fanno parte dei consigli giudiziari fossero un elemento decorativo dell’apparato piuttosto che non un mezzo necessario per farlo funzionare.

    Allo stesso modo, nel valutare le scelte migliori per disciplinare l’attività forense, raramente si notano da parte delle Istituzioni, osservazioni ,o, meno ancora, riconoscimenti, rivolti a chi svolge una professione sui generis, che non può essere assimilata alla mera erogazione di un servizio, che non può essere affidata agli schemi usuali dell’attività d’impresa, che – nell’interesse dei cittadini e dei portatori di interessi deboli – abbisogna di forza, indipendenza e autonomia per poter compiere la sua missione: perdendo questi valori, soffocando le sue peculiarità stemperate in regole uniformi per tutte le categorie professionali e perciò non rispettose della specificità e della indefettibilità di questa professione , si finisce per incidere gravemente su di essa e quindi sul “sistema giustizia”.

    La particolare congiuntura economica ha finito per imporre nuove categorie interpretative, nuove prospettive alla luce delle quali analizzare il fenomeno della giustizia , e queste categorie, queste prospettive, considerate a sé stanti, come se fosse inevitabile la reductio ad unum di un fenomeno che contiene al contrario secolari valori morali e sociali che non possono essere pretermessi senza snaturarlo e fiaccarlo fino alle fondamenta, ora costituiscono la stella polare di ogni intervento in materia, una sorta di valutazione primaria ed esclusiva che si vuole imporre al legislatore, all’ esecutivo, a tutti coloro che operano all’interno della macchina giudiziaria e a coloro che ne vorrebbero fruire.

    Sommario

    La dimensione economica
    Le professioni e le società tra professionisti
    La difesa in giudizio e i “rimedi” per rendere efficiente l’amministrazione della giustizia
    La conciliazione extraprocessuale
    Le Audizioni parlamentari; la geografia giudiziaria
    L’attività del CNF svolta in collaborazione con il CCBE
    Il ministero del difensore
    L’avvocato nella Risoluzione del Parlamento Europeo (2006)
    L’Avvocato nei modelli nazionali: una prospettiva di diritto comparato
    La giurisdizione multilivello e il dialogo tra le Corti
    Prospettive: un nuovo modello di avvocato per un nuovo modello di società



    La dimensione economica



    In più occasioni il Consiglio Nazionale Forense (Italian Bar Council) ha promosso la discussione su questa prospettiva unidirezionale: in particolare se ne è discusso in occasione del convegno organizzato alla Camera dei Deputati il 15 luglio 2011.

    Se ne è discusso ancora nel corso del congresso di aggiornamento forense del marzo scorso. In particolare hanno trattato l’argomento il Prof. Francesco Capriglione che ha esaminato cause ed effetti della crisi economica e il Prof. Vincenzo Cerulli Irelli, che ha esaminato i limiti dell’autonomia privata introdotti dallo Stato per rimediare alla crisi.

    Se ne è discusso specificamente nella presentazione di due importanti analisi, l’una, elaborata dal Vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura, on. avv. Michele Vietti, con il titolo La fatica dei giusti (Milano, 2011), che non riguarda solo i magistrati, o tutti i magistrati, ma descrive l’attività svolta da coloro che cooperano al funzionamento della macchina della giustizia; e l’altra, elaborata dal Presidente della Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche e Vice Presidente dell'Accademia Nazionale dei Lincei, il prof. Alberto Quadrio Curzio, che ha scritto un libro intitolato a l’ Economia oltre la crisi (Brescia, 2011), in cui si riconosce ai professionisti, e all’Avvocatura, il merito di contribuire non solo alla creazione del PIL ma anche alla soluzione dei problemi dei cittadini, delle imprese, della pubblica Amministrazione, delle istituzioni.

    Per sottolineare con forza che l’analisi unidimensionale incentrata sulle categorie economiche non può essere accettata, qualunque sia la situazione in cui si è costretti a vivere , il Consiglio e le altre componenti dell’ Avvocatura che lo organizzano hanno dato un titolo enfatico ma significativo alla trentesima edizione del Congresso nazionale forense : “I diritti non sono merce” (Milano, 23-24 marzo 2012).

    Si è riaffermato così la primazia del diritto sulle altre scienze sociali, e della organizzazione giuridica sulle altre forme di espressione della società.

    Neppure i liberisti più oltranzisti – non parlo ovviamente dei liberali, né dei fautori dell’economia sociale di mercato – si erano spinti fino a tanto, a predicare cioè l’onnipervasività delle regole economiche e la loro autosufficienza. Le ricerche storiche condotte in occasione delle celebrazioni del Centocinquatenario dell’ Unità d’ Italia confermano questo assunto (e significativo al riguardo è il carteggio tra Benedetto Croce e Luigi Einaudi sul quale si è soffermato Natalino Irti nel Dialogo sul liberalismo, Bologna, 2012).

    Sono gli avvocati, difensori dei diritti nello Stato democratico, a ricordare che la globalizzazione economica non può travolgere i diritti delle persone, specie là dove essi vantano una risalente tradizione, tanto da costituire la cifra più significativa del modello storico politico dell’ Occidente. Neppure la grave crisi che ha colpito l’intero globo e il nostro Paese può giustificare l’ abbandono di quel modello. Anzi. Proprio quando si è voluto discostarsi da quel modello dando la prevalenza ai valori e alle categorie dell’economia si è verificato il disastro: le lacune del diritto consentite da una concezione liberista del mercato del tutto indifferente ai diritti umani e patrimoniali degli individui hanno condotto alla drammatica situazione in cui siamo costretti a vivere, una sorta di rivoluzione non dettata dalla politica, non dettata dalle rivendicazioni sociali ma voluta da chi tiene i fili del mercato finanziario. Questa matrice economico-finanziaria, dovuta agli errori degli economisti e dei poteri forti decisi a non prevenire il credit crunch ed ora indecisi sui rimedi da introdurre, ha avuto precedenti nella storia umana da cui si è saputo uscire con il recupero dei valori di una democrazia condivisa, partecipata, verificata, fondata sul diritto e sui diritti.

    E dunque i diritti non sono merce perché non possono essere parificati alle merci, ai servizi, ai capitali. Le persone sono i valori primi che uno Stato moderno deve considerare, e la riduzione drastica e irreversibile dello Stato sociale non può essere operata senza una corale discussione e un largo consenso.

    L’Europa dei diritti non impone liberalizzazioni selvagge, e chi sostiene che le misure diverse da quelle necessarie a ridurre il debito pubblico e a rilanciare l’economia sono dettate dall’Europa fa un uso ideologico del diritto comunitario. I diritti non sono merce perché non sono oggetto di scambio, non possono essere inscatolati in formule processuali compresse come se fossero rinchiusi dentro una bottiglia . I diritti non sono merce perché non possono essere sviliti od ostacolati da alti costi di accesso alla giustizia o affidati a procedimenti coattivi di conciliazione per di più amministrati da persone non competenti. I diritti non sono merce perché non possono essere difesi da avvocati asserviti a soci di capitale. I diritti non sono merce perché non possono essere trasportati da presidi giudiziari territoriali a centri di smistamento regionali o provinciali senza adeguate garanzie.


    Ecco perché l’Avvocatura unita ha lanciato un grido d’allarme alle istituzioni, ai rappresentanti del Parlamento e a tutti i cittadini: non si possono fare riforme della giustizia e riforme dell’ avvocatura senza la partecipazione degli avvocati.

    La giustizia è una funzione insopprimibile dello Stato e il suo sistema di amministrazione non si può smembrare o svuotare come se fosse un magazzino di merce avariata.

    Le auguste parole di Giorgio Del Vecchio,che ho posto in epigrafe, pronunciate proprio qualche giorno prima della marcia su Roma, suonano come un ammonimento che tutti dovrebbero meditare.

    L’Avvocatura deve rimanere indipendente e autonoma per poter assolvere il suo compito costituzionale. Chi colpisce i difensori dei diritti colpisce i diritti. E quindi riduce il tasso di democrazia.

    E poi è agevole constatare che la concorrenza nel settore forense è già realtà, e da lungo tempo.

    Andare oltre significa adottare misure contrarie al principio di proporzionalità e di sussidiarietà.

    Andare oltre significa colpire le comunità intermedie, gli ordini forensi con cui l’avvocatura si autogoverna in virtù della sua autonomia.

    Andare oltre significa mercificare ogni rapporto, privilegiare il più forte contro il più debole, il più ricco contro il più povero, significa in altri termini mettere a repentaglio i valori della Costituzione, della Carta di Nizza, delle società libere.

    Per contro, il nostro compito è di “globalizzare i diritti”, come auspicano Noam Chomsky, Vandana Shiva, Joseph E. Stiglitz (La debolezza del più forte.Globalizzazione e diritti umani, Milano, 2004).

    Le professioni e le società tra professionisti

    La crisi economica non è stata la causa primaria di questo svilimento dell’ Avvocatura: questo processo di deterioramento del ruolo svolto dagli avvocati nella società civile è iniziato nel momento, in cui si è cominciato ad applicare in modo del tutto anodino i principi della libera concorrenza , si è voluto assimilare l’attività professionale a quella d’impresa, si è voluto intaccare il sistema ordinistico e abolire i criteri di determinazione del compenso professionale parametrati sulla base delle esigenze sociali. Tutto ciò nonostante la funzione vitale che le professioni svolgono a vantaggio della collettività. Le professioni non a caso figurano nella Costituzione italiana e nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Essendo vitali per la società - lo rilevava proprio un anno fa Francesco Galgano in un suo bel saggio pubblicato in Contratto e impresa (2011, p. 287 ss.) - esse dovrebbero ricevere una maggior tutela da parte dei Parlamenti e dei Governi.

    Le regole che oggi si discutono sulle manovre economiche, che coinvolgono anche le professioni, sono condizionate da una logica imprenditoriale e industriale. E' evidente che la dimensione economica - oggi favorita dalla grande crisi - assume un ruolo centrale in ogni decisione, anziché essere uno dei criteri di valutazione da esaminare insieme ad altri, non meno rilevanti, come il parametro politico e il parametro giuridico.

    L’argomento che si sente spendere più frequentemente muove da un dato che si assume come incontestabile, cioè che la disciplina delle professioni deve essere “liberalizzata” perché l’attuale sistema abbasserebbe il PIL di un punto o di un punto e mezzo. Questo assunto, estrapolato da una Relazione del Governatore della Banca d’Italia, risale al 2008. Non si è mai saputo con quali calcoli fosse stato determinato né in base a quali criteri venisse fuori questa cifra . Se per avventura essa dovesse dipendere dai costi delle spese legali delle imprese ( e cioè fosse tratta dalle statistiche del CEPEJ) risalirebbe al 2006, quindi ad una data anteriore al decreto che ha abolito l’ obbligatorietà delle tariffe minime. Se fosse vero che dalla soppressione della obbligatorietà sono conseguiti enormi benefici economici per le imprese, quel dato sarebbe del tutto inattendibile, perché temporalmente superato e tecnicamente incompleto. Se al contrario si trattasse di un dato recente, completo e attendibile, esso dimostrerebbe che la soppressione delle tariffe minime non ha prodotto - in sei anni - alcun risultato utile.

    Per parte loro, le professioni producevano undici punti di PIL: non è dato sapere - in quanto i dati economici disponibili non ne trattano - se questo effetto positivo per l’economia italiana sia confermato, oppure se la crisi (come si potrebbe sospettare) abbia prodotto contrazioni nei benefici che le professioni apportano all’economia. Parlo di benefici, perché in questa demonizzazione delle professioni che è riflessa coralmente dai media, si tende a parlare solo di costi, di caste, di privilegi, di incrostazioni, come se le professioni fossero utili solo a se stesse e fossero un inutile fardello, una pesante catena di cui ci si deve liberare in ogni modo.

    Se si guarda ai benefici assicurati dalle manovre introdotte a cominciare dall’ agosto scorso del 2011, nel campo delle professioni non si è registrato alcun miglioramento. Tutte le agevolazioni e i sostegni si sono concentrati sulle imprese. Come interpretare questo indirizzo economico? è un invito ad abbandonare la distinzione dei due settori? è il segno della trasformazione strisciante che passa attraverso il mercato dei servizi professionali per arrivare al mercato tout court? Se fosse così avrebbero ragione gli studiosi che mettono in guardia istituzioni e cittadini dalla inaugurazione di una nuova “costituzione materiale” realizzata mediante le tecniche della decretazione d’urgenza (Rodotà, Diritti e libertà nella storia d’Italia. Conquista e conflitti 1861-2011, Roma, 2011).

    Se “liberalizzare” significa rispettare le autonomie, non si comprende perché le manovre, a cominciare dalla prima, abbiano infierito sulle professioni con la imposizione di limiti di ogni tipo, inaugurando una stagione dirigistica che sembra esprimere una linea del tutto opposta a quella pubblicizzata. Si sono colpite le tariffe,e per di più di tariffe massime, senza capire che con la loro abolizione abolendo si è finito per contraddire lo scopo enunciato e cioè un risparmio per le imprese e un vantaggio esteso a tutti i cittadini; addirittura le manovre per rimediare alla crisi economica e finanziaria si sono occupate dei procedimenti disciplinari. Se i valori hanno un peso nella configurazione dei programmi di governo, come si sono distribuiti i pesi e come si sono contemperati gli interessi? E’ difficile rispondere a questa domanda, perché gli interventi si sono succeduti a raffica, senza un programma coerente, sistematico, senza obiettivi mirati e calibrati.

    Ecco , questo è un argomento che oggi si spende con eccessiva parsimonia.

    Ragionevolezza e proporzionalità. Sono principi-cardine del diritto comunitario. Il quadro giuridico che si sta delineando nel nostro Paese in materia di professioni è singolare, perché unico in Europa, in contrasto con le direttive e con la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea. Lo ha rilevato il CCBE, la rappresentanza europea degli avvocati, che esprime la voce di tutti i Paesi europei, compresi quelli di common law e quelli dell’ Europa settentrionale,in una lettera inviata alle istituzioni , e passata sotto silenzio dai media. Deprimere le professioni, con regole che unificano , anziché distinguere, le singole specificità grazie alle ripartizioni del sapere e della esperienza pratica, relegarle ad oggetto di semplificazione normativa, piegarle all’uso di tipologie societarie proprie dell’attività d’impresa, delegittimare gli organi rappresentativi che assicurano l’osservanza delle regole deontologiche e quindi sono un presidio per la tutela dei diritti e degli interessi fondamentali dei cittadini, significa mettere in atto un sistema di regole che non solo non è “richiesto dall’ Europa”, ma addirittura è in contrasto con i principi del diritto comunitario.

    Ma vi è un altro argomento che vorrei portare a giustificazione delle critiche svolte ai legislatori e ai governi che si sono occupati di professione e in particolare della nostra professione: l’argomento incentrato sul rapporto tra autorità e libertà che si evince dall’intensità dell’intervento normativo (legislativo o regolamentare che sia) in questo settore.

    A dispetto degli invocati valori di libertà, il legislatore ha trasferito competenze del Consiglio nazionale forense (espressione massima dei principi di autonomia e autodichia) al potere esecutivo; ha rimodellato il rapporto avvocato-cliente; ha inciso i codici deontologici stabilendone i confini per materia e per modalità operative; ha modificato le regole sull’accesso sottraendone il controllo agli Ordini; ha abolito alcune competenze degli Ordini, in particolare quelle volte a valutare la congruità del compenso.

    Questo eccesso di misure ha ridotto le garanzie dei cittadini. Con i provvedimenti legislativi che hanno limitato la libertà di organizzazione delle professioni si è arrecato un vulnus al sistema ordinistico, il quale oggi è ben diverso da quello concepito in epoca medievale o in epoca fascista con la istituzione delle Corporazioni.

    E’ proprio la storia che - maestra di vita - ci richiama alla mente lo scioglimento degli ordini professionali disposto sotto la dittatura : la loro organizzazione si poneva come un usbergo rispetto al disegno totalitario del Governo e la loro attività un alimento alle libertà che invece si volevano soffocare.

    Proprio in questa prospettiva - ci ha ammonito il prof. Vincenzo Cerulli Irelli nella sua relazione di apertura del VII Congresso di aggiornamento professionale del marzo scorso - occorre valutare l’incidenza delle regole imposte ab externo e in via autoritativa rispetto alla libertà di autodisciplina che dovrebbe essere riconosciuta e garantita alle professioni intellettuali e all’Avvocatura in particolare.

    Libertà che è stata ignorata nella legge di stabilità per il 2012 riguardante le società di capitali nell’organizzazione dell’attività professionale.Nella sua prima versione il testo consentiva l’ingresso di soci di puro capitale nelle società di professionisti senza limite alcuno. Solo grazie all’attenzione del Parlamento è stato poi possibile - qualche mese più tardi - correggere almeno le disposizioni più improprie, in attesa del decreto ministeriale di attuazione che vedrà la luce a breve. Lo schema di regolamento non reca alcun limite ai poteri gestionali di soci non professionisti o terzi, non prevede esplicitamente che la società tra professionisti sia sottratta alle procedure concorsuali né che possa avere accesso alla composizione del sovraindebitamento . Anche gli aspetti fiscali sono carenti: sarebbe stato opportuno, invece, chiarire che i redditi prodotti dalle società tra professionisti costituiscono redditi di lavoro autonomo. Non si chiarisce poi se il socio di capitali debba essere una persona fisica o anche una persona giuridica. Tutti profili di incongruità che il CNF ha segnalato sua sponte alle Istituzioni competenti e che dovranno essere considerati nella redazione definitiva dei testi. Quanto al problema, anche esso segnalato dal CNF, dell’iscrizione all’ordine delle società professionali multidisciplinari, lo schema di regolamento fa riferimento all’<<attività prevalente>>, mentre nessuna disposizione si prevede a proposito della compatibilità tra le diverse attività professionali in concreto svolte dalla società multidisciplinare.

    Per gli aspetti deontologici, la società tra professionisti è tenuta al rispetto delle norme dell’ordine professionale presso cui è iscritta e, inoltre, <<se la violazione deontologica commessa dal singolo socio professionista è ricollegabile a direttive impartite dalla società, la responsabilità disciplinare del socio concorre con quella della società>>. E’ appena il caso di rilevare che sarebbe stato opportuno introdurre altresì una sanzione pecuniaria per la società professionale proporzionale alla gravità dell’illecito disciplinare commesso, come proposto dal CNF.

    La difesa in giudizio e i “rimedi” per rendere efficiente l’amministrazione della giustizia

    Un tempo la volatilità delle disposizioni era propria del diritto tributario, et pour cause. Oggi si è estesa a tutti i settori dell’ordinamento. Fatto ancor più grave quando riguarda il processo, cioè le modalità per far valere dinanzi al giudice un diritto o un interesse. Sono più di trenta le modificazioni al codice di procedura civile succedutesi dal 1940 ad oggi, di cui almeno la metà si è registrata negli ultimi anni. Sono regole introdotte per così dire alla spicciolata, fuori da ogni logica di sistema, con l’assillo di migliorare la situazione, senza soppesarne appieno l’impatto e le conseguenze.

    Come si è sottolineato in apertura del discorso, coloro che a diverso titolo hanno svolto un ruolo determinante nel settore della giustizia e coloro che reggono le sorti della Repubblica non si sono peritati di introdurre - con leggi destinate ad altri scopi , con provvedimenti d’urgenza rivolti ad introdurre rimedi alla crisi economica , con riforme espresse in modo tanto sintetico quanto sibillino – nuove regole sul processo civile, senza ricorrere - come è saggio e come la tradizione avrebbe imposto - alla valutazione complessiva degli interventi, senza ricorrere all’apporto degli scienziati del diritto processuale e dei pratici del processo, senza consultare le istituzioni coinvolte nelle riforme, senza preoccuparsi degli effetti dei cambiamenti repentini e imprevedibili sull’ordinato svolgimento delle cause e sulle aspettative di accesso alla giustizia di ogni cittadino. Uno studioso assai qualificato ha intravisto in questo accidentato percorso iniziato nel 1995, proseguito fino ad oggi, ma non ancora vicino alla meta, i caratteri di un sistema di giustizia incivile (G.Costantino, Riflessioni sulla giustizia (in)civile (1995-2010), Torino, 2011). Il solo elenco dei provvedimenti si estenderebbe per tante pagine che esaurirebbero lo spazio di questa relazione, la quale, non essendo un contributo scientifico ma solo un rapporto sull’attività istituzionale svolta dal Consiglio , si può limitare a considerare gli aspetti recenti più rilevanti e preoccupanti di quel percorso.

    Anche per un avvocato è difficile inseguire gli interventi a raffica diretti a modificare questa o quella norma del codice di procedura civile.

    Interventi che abdicano ad un principio cardine delle regole di diritto, cioè la coerenza.

    Questo modo di procedere mette in gioco un diritto fondamentale come l’accesso alla giustizia: se si cambiano le regole in corso (le norme processuali hanno una vigenza immediata) e le si cambiano ad ogni stagione aumenta la confusione e diminuisce l’affidabilità.

    Ma la situazione è ancora più grave quando al cambiamento delle regole si assomma il cambiamento del sistema di amministrazione: si sopprimono, per esempio, le sedi del giudice di pace, privando così i cittadini della giustizia di prossimità, ma non si sa come e dove saranno collocati i giudici onorari conservati nelle loro funzioni, e prorogati nel loro incarico.

    Ciascuno poi ha la propria ricetta per migliorare la situazione e per risolvere i mali della giustizia. La proposta che costa meno è quella che (apparentemente) presenta il minor costo, cioè modificare testi di legge. Ma è un rimedio peggiore del male: il costo è altissimo, perché la confusione genera errori e inceppa la macchina.

    Un’altra linea direttiva tende a scoraggiare l’accesso alla giustizia: il cittadino deve subire l’ingiustizia, assistere impotente alla violazione dei propri diritti e dei propri interessi, perché il sistema è diventato troppo costoso, e lo Stato non ce la fa. Siccome si deve trovare un capro espiatorio, la categoria che più si presta alla gogna è quella degli avvocati: gli avvocati ormai sono indicati come la causa di ogni male, compreso il ritardo dello sviluppo economico. Nessuno pensa alle colpe del legislatore che, in spregio alle norme costituzionali, aumenta i costi per accedere alla giustizia, sicché, per effetto degli ultimi provvedimenti, solo chi è più ricco oggi può ricorrere al giudice naturale, in violazione del principio di eguaglianza.

    Un altro rimedio considera i risparmi della spesa: ma anziché controllare voce per voce, ritiene sia preferibile annullare la stessa fonte della spesa, che individua nelle sezioni distaccate, nei tribunali sub-provinciali, e nei giudici di pace. La giustizia di prossimità cancellata con un rigo di penna fa impressione. Chi la sostituirà? I calcoli presentati per ridurre la spesa non tengono conto dei costi del riaccorpamento degli uffici soppressi agli uffici conservati ed eludono il controllo delle causali delle spese effettuate. L’applicazione di criteri astratti, avulsi dalle situazioni e dalle esigenze locali , non può che portare a soluzioni velleitarie e più costose di quelle che si potevano escogitare con un’ampia partecipazione al programma di risanamento di tutte le componenti della macchina giudiziaria.

    Un’altra risposta è dedicata alla riduzione dei modelli processuali: dai (circa) trenta con i nuovi provvedimenti si dovrebbero ridurre a tre; peccato che quegli stessi provvedimenti li abbiano aumentati a trentacinque.

    Un’altra ancora si studia di ridurre i tempi del processo riducendone i gradi, le fasi, il testo delle sentenze: un coro di critiche ha accolto la riforma dell’appello e la modificazione dei motivi del ricorso per cassazione introdotte con il d.l. 22.6.2012, n. 38, destinato a fornire misure <per la crescita del Paese>.

    Un’altra soluzione intende assolvere un ruolo di deterrente punendo i cittadini per gli errori degli avvocati ed aprendo quindi la stura alle cause per errore professionale: accanto alla condanna per lite temeraria si prevedono sanzioni per il mancato tentativo di conciliazione, sanzioni per l’esito negativo della istanza in appello per la sospensione degli effetti della sentenza impugnata, sanzioni per l’eccessiva durata del processo, sanzioni per la declaratoria di inammissibilità del ricorso e così via. Perché adottare quest’ottica punitiva che soffoca la libertà di difesa? E perché sanzionare il cliente e quindi il suo avvocato se la finalità era quella di eliminare forme di ingiustizia? La professione forense consiste nell’adempimento di prestazioni di mezzo e non di risultato. Il risultato è mediato dal giudice, e l’avvocato si vedrebbe imporre una sanzione conseguente alla decisione del giudice, di cui certo non poteva garantire l’esito al cliente.

    La conciliazione extraprocessuale

    In questo quadro sconfortante si collocano le recenti disposizioni in materia di conciliazione.

    Mi riferisco in primo luogo all’istituto della mediazione finalizzata alla conciliazione delle liti civili e commerciali, introdotta nell’ordinamento con la legge n. 69 del 2009 e con il d.lgs. n. 28 del 2010.

    Il testo contempla un ampio e disomogeneo catalogo di materie per le quali essa è condizione obbligatoria di procedibilità della domanda giudiziale (diritti reali, condominio, danni da circolazione stradale, diffamazione, successioni, contratti bancari e finanziari etc.). In tutte le ipotesi contemplate, dunque, il cittadino è costretto a affrontare le forche caudine di un procedimento mal congegnato, affidato a figure professionali delle quali non è assolutamente garantita la necessaria perizia e competenza, oneroso, nella maggior parte dei casi – come dimostrato dai dati diffusi periodicamente dal Ministero della giustizia – assolutamente inidoneo a sfociare nella risoluzione consensuale della lite. Non a caso molteplici sono state le ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale.

    A ciò si aggiunga la circostanza che anche nelle ipotesi in cui non si verta in materia assoggettata al tentativo obbligatorio si sono introdotti meccanismi compulsivi della volontà delle parti. E’ il caso della pena pecuniaria che sanziona la parte che non abbia inteso aderire al procedimento di mediazione e poi si costituisca in giudizio (indipendentemente dagli esiti finali del medesimo); della condanna alle spese e ad ulteriori somme nel caso di rifiuto della proposta del mediatore per l’ipotesi in cui la soluzione giudiziale della lite vi corrisponda anche solo parzialmente, e così via.

    Nello stesso alveo si è collocato il legislatore con la riforma della conciliazione del lavoro: pur essendo venuto meno quasi totalmente l’obbligo del preventivo esperimento dello stesso, anche a norma del c.d. “collegato lavoro” (l. 183/2010) non mancano i nessi tra fase conciliativa e successiva fase giudiziale. E’ difatti previsto che il contegno della parte che non accetti la proposta di soluzione della lite formulata dalla Direzione provinciale del lavoro venga valutato – come argomento di prova ovvero (più probabilmente e auspicabilmente soltanto) ai fini della ripartizione delle spese di giudizio. Inoltre, ed è questo il vero profilo nevralgico, il complesso sistema previsto (che ricalca scansioni e nomenclatura del processo togato) rimane affidato alla menzionata Direzione provinciale del lavoro: ossia ad un ufficio che ha competenze diverse e complesse e, dunque, come ampiamente dimostrato dalla fallimentare esperienza precedente, pochissima attitudine a gestire un compito delicato come il tentativo di conciliazione tra datore di lavoro e lavoratore.

    Né giudizio più favorevole si può esprimere sulle previsioni che affidano al medesimo organo (il Collegio di conciliazione e di arbitrato previsto dal novellato articolo 412-quater c.p.c.) sia la fase di conciliazione sia quella successiva ed eventuale di arbitrato, senza alcuna considerazione delle differenze di struttura, esigenze e principi che sorreggono i due rimedi ADR, né tantomeno della delicatezza dei profili di equidistanza ed imparzialità dell’organo (divenuto ex post) giudicante.

    L’Avvocatura crede fermamente nella giustizia alternativa (ADR) ma è con uguale fermezza convinta che il successo della medesima passi attraverso la libera e consapevole scelta dei litiganti e che presupponga un sistema di giustizia togata affidabile ed efficiente.

    Le Audizioni parlamentari; la geografia giudiziaria

    Il Consiglio Nazionale Forense cura con particolare attenzione le relazioni con le istituzioni: in particolare, nell’esercizio della funzione consultiva sui provvedimenti in materia di professione e giustizia che istituzionalmente gli compete (art. 14, d. lgsl. lgt. n. 382/1944), il Consiglio nazionale forense partecipa regolarmente – su invito delle istituzioni competenti e talora espressamente richiedendo di essere ascoltato – ad audizioni presso le Commissioni parlamentari, in relazione ai provvedimenti di maggiore interesse.

    Nel corso del periodo considerato (gennaio 2011/luglio 2012) il Consiglio Nazionale Forense ha preso parte ad 11 audizioni dinanzi alle Commissioni Affari costituzionali, Giustizia, Istruzione e Attività produttive della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica, attraverso il Presidente, il Consigliere segretario o altro Consigliere appositamente delegato. Nella maggior parte dei casi, oltre alla relazione del rappresentante del CNF, sono stati depositati documenti di analisi ed approfondimento (anche critico, se del caso) dei singoli progetti di legge, predisposti dall’Ufficio studi.

    Tra le questioni sulle quali il Consiglio è stato audito, si segnalano come particolarmente rilevanti, oltre, come ovvio, al ddl AC 3900 in tema di riforma della professione forense:

    la responsabilità civile dei magistrati, nell’ambito dell’indagine conoscitiva deliberata dalla Commissione Giustizia del Senato in vista dell’approvazione dell’art. 25 della legge comunitaria per il 2011;
    la riforma della disciplina della riparazione del danno da eccessiva durata dei processi;
    la liberalizzazione degli ordinamenti professionali e le ulteriori misure per la crescita riguardanti l’amministrazione della giustizia (su tutte, l’istituzione del Tribunale delle imprese) contenute nel DL n. 1/12 (cd. Decreto “Cresci Italia”).
    Ma potrebbero ricordarsi, egualmente, le consultazioni in materia di riforma della magistratura onoraria, di affido condiviso, di semplificazione dei riti del processo civile.

    Le prossime audizioni, lo speriamo, dovrebbero riguardare il tema spinoso della revisione della geografia giudiziaria. Anche su questo terreno, purtroppo, si sta procedendo senza la opportuna interlocuzione con gli avvocati. In data 10 Maggio 2012 è stato firmato il Protocollo d’Intesa CNF– ANCI (Associazione Nazionale Comuni d’Italia) con cui si esprime forte preoccupazione in ordine all’ipotesi di riduzione delle circoscrizioni giudiziarie realizzata in assenza di un’indagine dettagliata sui costi complessivi effettivamente sostenuti per il servizio giustizia e in assenza di criteri programmatici con i quali le spese vengono determinate.

    Il CNF e ANCI criticano il metodo seguito dal governo nella revisione della geografia giudiziaria; CNF e ANCI sostengono che anche per il settore della giustizia è necessario attenersi al modello indicato dall’art. 9 del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98 e cioè al criterio del superamento della spesa storica e al criterio della razionalizzazione della spesa pubblica attraverso l’individuazione di costi e di fabbisogni standard.

    L’indagine fatta dal CNF sulla reale situazione della geografia giudiziaria in Italia è stata inviata al Governo, al Ministro della Giustizia e alle Commissioni Parlamentari competenti.

    Inoltre CNF e ANCI hanno presentato una richiesta di audizione congiunta alle Commissioni Giustizia di Camera e Senato.

    L’attività del CNF svolta in collaborazione con il CCBE

    Il periodo compreso tra il 2011 e il primo semestre del 2012 è stato cruciale per il CNF e per l’attività condotta della Delegazione italiana presso l’organizzazione europea dell’avvocatura (CCBE).

    Il CNF ha condiviso le preoccupazioni espresse dall’avvocatura europea, e non solo, relativamente alle misure introdotte e/o annunciate in materia economica e finanziaria , che minacciano gravemente l’accesso alla giustizia, l’indipendenza della professione legale e il diritto alla difesa.

    Il riferimento è al menzionato intervento del CCBE presso il Governo italiano sulle iniziative di delegificazione che hanno interessato le professioni liberali e sulle nuove norme introdotte in materia di società tra professionisti, nonché all’iniziativa congiunta del CCBE e dell’American Bar Association che hanno segnalato al Fondo Monetario Internazionale le preoccupazioni circa l’indebolimento dell’indipendenza degli avvocati in numerosi Stati membri.

    Coadiuvato dall’Ufficio Studi e dell’Ufficio di Bruxelles, il CNF ha inoltre deliberato di affiancare il CCBE, intervenendo come amicus curiae innanzi alla CEDU in un caso emblematico della compressione del diritto al segreto professionale. Il CNF ha avuto l’opportunità di esprimere il proprio punto di vista, a sostegno del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Monaco, in uno dei primi casi che vertono sulla questione della compatibilità degli obblighi di segnalazione che discendono dalla normativa sull’antiriciclaggio con la Convezione europea dei diritti umani.

    Parallelamente alle riforme strutturali intraprese da alcuni Stati membri, sono in corso in ambito comunitario le riforme delle più importanti direttive europee che interessano la professione, nella specie la direttiva stabilimento la direttiva sulla libera prestazione dei sevizi e la direttiva sulle qualifiche professionali. Tra aspetti che saranno oggetto di interventi legislativi e sui cui l’avvocatura europea ha già avviato la riflessione, rilevano quelli relativi alla disciplina applicabile agli studi legali, il trattamento degli avvocati che esercitano in regime di impiego, la c.d. “doppia deontologia” e all’esercizio in comune della professione.

    In questo contesto generale di riforme, è stato necessario intensificare gli impegni, l’elaborazione di posizioni e risoluzioni comuni e gli sforzi di sensibilizzazione promossi, a livello UE e nazionale, tramite l’apporto delle delegazioni nazionali e la collaborazione tra i diversi organismi rappresentativi delle avvocature nazionali. Le attività svolte nell’ultimo anno, in particolare, hanno consentito di affermare il ruolo della Delegazione italiana in seno al CCBE e di consolidare le sinergie esistenti tra CCBE e CNF, anche grazie all’apporto dato dalla Delegazione, con costanza e spirito costruttivo, ai lavori del CCBE e all’intermediazione dell’Ufficio Studi e dell’Ufficio di Bruxelles.

    Il ministero del difensore

    A parte i casi di autodifesa, fino a qualche tempo fa considerati eccezionali, l'avvocato che svolge la sua professione secondo i canoni tradizionali è considerato il difensore tecnico del suo assistito, al tempo stesso garante dei diritti dell'imputato nel processo penale e dei diritti di natura patrimoniale e morale dell'attore nel processo civile.

    Ma il difensore non si può dipingere come un semplice sostegno del soggetto che attraverso il processo vuol ottenere giustizia : egli innanzitutto svolge una funzione preparatoria alla difesa dei diritti perché studia la situazione giuridica in cui versa il suo assistito, funzione essenziale che si considera inclusa nell'area del riserbo, cioè coperta dal segreto professionale (il c.d. legal privilege) che si accompagna al rapporto tra avvocato e cliente per tutta la durata del rapporto e si sottrae a qualsiasi controllo esterno, compreso quello relativo alla disciplina antiriciclaggio. Il rapporto infatti è connotato - almeno in tutti i Paesi democratici dell' Occidente, da un valore di natura sostanziale e processuale, la fiducia, che viene a mancare soltanto se il cliente revoca il mandato al suo difensore o quest' ultimo lo dismetta.

    Il difensore, poi, studia la strategia della difesa, ed è uno degli attori del processo, parte essenziale anche là dove l'assistito non intenda nominarne uno di fiducia e non sia abilitato a difendersi da sé. Egli svolge il suo compito in modo dialettico con il difensore di controparte e nel dialogo con il giudice: nel processo civile e nel processo penale si dice che si tratti di un compito persuasivo perché diretto a convincere il giudice delle buone ragioni del suo assistito: insomma svolge un ruolo così essenziale , nel processo e fuori dal processo, che nella concezione pubblicistica del processo penale e del processo civile accreditatesi nel nostro Paese, la sua viene definita una funzione di rilevanza pubblica.

    Con toni che potrebbero apparire enfatici - ed invece sono esattamente corrispondenti ancor oggi alla funzione svolta da questa figura nella nostra esperienza -, la Relazione del Guardasigilli al Re sul Codice di procedura civile del 1940 parla dell'avvocato come di un soggetto che svolge un ministero, che svolge quindi un munus, e sottolinea che gli avvocati devono avere «piena coscienza dell'altezza morale e dell'importanza pubblica del loro ministero, che li chiama ad essere i più preziosi collaboratori del giudice» (sub art. 82 c.p.c.).

    Più ci si avvicina ai nostri giorni più una letteratura immensa ne costruisce ruolo e funzioni: dai manuali istituzionali fino agli studi che si occupano della difesa dal punto di vista del diritto costituzionale, ruolo e funzioni dell'avvocato sono dispiegati in modo esemplare. Mi riferisco, sopratutto, ai contributi sulla difesa tecnica (sub art. 24 Cost.) in ogni stato e grado del procedimento, oggi intesa come diritto individuale della persona riconducibile all'art. 2 Cost., inclusiva anche della garanzia costituzionale del diritto di autodifesa, che consente all'imputato di essere presente nel processo in modo che venga assicurato il contraddittorio e che il processo a cui egli è assoggettato sia giusto (anche ai sensi dell'art. 111 Cost. di recente rinnovato), in modo che il processo assicuri non solo celerità nelle sue fasi ma anche parità di posizioni tra l'accusa e la difesa.

    In questo senso possiamo dire che il diritto di difesa e, quindi, il ruolo del difensore non è tracciato una volta per sempre nella storia processuale di un Paese, perché esso evolve secondo la mentalità, i valori, le ideologie ma anche le conquiste della scienza giuridica: proprio la nostra esperienza dimostra come esso si sia sempre riproposto in discussione, al fine di raggiungere le migliori garanzie che si debbono assicurare alla persona.

    Il difensore è dunque sì il garante dell'autonomia e dell'indipendenza del' imputato nella condotta della causa, un necessario intermediario dell'assistito nel processo, ma è anche un soggetto il cui ruolo e le cui funzioni possono variare nel tempo e nello spazio. Tali funzioni dunque non sono dunque immutabili.

    Per la verità, non sono neppure definitive le conclusioni a cui la dottrina è giunta anche con riguardo a rapporti elementari inerenti il rapporto tra l'avvocato e il suo assistito.

    Ciò significa che la scienza giuridica non rinuncia a rimettere in gioco le conclusioni cui perviene, non considerandole mai acquisite per sempre. Esemplare, in questo senso, la qualificazione del rapporto tra l'avvocato e il suo assistito, il cliente. Secondo il codice civile il rapporto è classificabile nell'ambito del contratto d'opera intellettuale, tale essendo l'oggetto della prestazione: quindi un contratto di lavoro indipendente, che dà diritto ad una retribuzione, che implica una responsabilità per inadempimento con conseguente risarcimento del danno nel caso in cui la prestazione non sia eseguita secondo il metro della diligenza professionale. Si tratta di una attività intellettuale, che si può svolgere solo se si è conseguito il titolo abilitativo, come prevede l'art. 33 Cost. E tuttavia, nell'imperare delle categorie economiche oggi dominanti, i principi cui si ispira questa disciplina di codice civile (artt. 2222 ss.) sono stati modificati: intanto, il tipo di lavoro è assimilato ad un servizio, ampliandosi ( a mio modo di vedere inesattamente) la disciplina comunitaria che unifica l'attività intellettuale con quella d'impresa dal punto di vista della concorrenza, in ciò ignorando la stessa Carta europea dei diritti fondamentali che distingue invece la libertà di esercizio del lavoro dalla libertà di esercizio dell'impresa. Quanto alla retribuzione, non si fa più riferimento a tariffe predisposte dal Consiglio nazionale forense e determinate in piena autonomia dal Ministero della Giustizia, ma piuttosto a parametri che saranno fissati con regolamento ministeriale, senza obbligo di parere del Consiglio nazionale forense, secondo i provvedimenti assunti dai Governi che si sono succeduti negli ultimi mesi. Si è quindi verificato un vulnus a carico della categoria professionale degli avvocati, i quali, nell'ambito della loro esperienza, maglio di qualsiasi altro valutatore avrebbero potuto suggerire le regole del compenso del prestazione intellettuale, salva sempre restando la libertà delle parti di determinarlo secondo propri accordi, e sempre che il compenso fosse rispondente a criteri di dignità e di decoro.

    Sono state abolite da tempo le tariffe minime (con il decreto-legge convertito in legge 248 del 2006) - pur legittimate dalla Corte di Giustizia dell'Unione europea - perché le si sono ritenute un ostacolo alla circolazione dei servizi e quindi al libero gioco della concorrenza. In più, si è legittimato il patto di quota lite - ab immemorabili vietato in quanto patto illecito perché consente all'avvocato di spartire con il cliente il risultato della causa, trasformando così il rapporto da contratto di scambio della prestazione con una giusta retribuzione in rapporto associativo in cui le parti corrono entrambe lo stesso il rischio della vittoria o della sconfitta e ne dividono gli effetti.

    E' evidente che queste modificazioni hanno finito per trasformare la stessa natura del rapporto tra difensore e assistito accentuandone gli aspetti privatistici anziché quelli pubblicistici. Al ministero si sostituisce un semplice servizio, non dissimile dalla fornitura di beni propria di un mercato qualsiasi, questa volta il mercato professionale.

    Proprio al mercato professionale, ai costi della difesa, e quindi ai costi che i privati si debbono accollare per accedere alla giustizia, ci si appella, da parte di istituzioni sovranazionali come l'OCDE, la Banca Mondiale degli Investimenti, o istituzioni nazionali con la Banca d'Italia e l'Autorità per la Concorrenza e il mercato, e anche da parte dei Ministeri della Giustizia e dello Sviluppo economico, per escogitare tutti possibili espedienti volti a ridurre i costi dei processi, ridurre i costi della gestione dei tribunali, ridurre il peso che nell'economia complessiva ha la funzione di amministrazione del giustizia, che è tipica di ogni potere, del mondo occidentale od orientale, come espressione delle funzioni dello Stato, da noi codificate, per così dire, da Montesquieu in poi.

    Questa quasi parossistica idea di riduzione dei costi ha finito perfino per ridurre il ruolo dell'avvocato nel processo, oltre che l'incidenza delle sue spese.

    Si sono così introdotti espedienti, ricorrendo a molteplici modificazioni del codice di procedura civile, non sistematici ma "erratici" che dovrebbero assolvere a questo scopo: nel processo, la diminuzione dei termini per ridurne la durata, la introduzione di sanzioni a carico dell'avvocato in caso di inesatta applicazione delle regole, termini di prescrizione e di decadenza, che hanno reso molto più complesso il ruolo del difensore.

    Per certe materie, al fine di ridurre il contenzioso, si è ritenuto necessario far precedere il processo da una fase conciliativa obbligatoria, dinanzi a conciliatori o mediatori, senza necessità di avvalersi di un avvocato; si sta riformulando la c.d. geografia giudiziaria, con la soppressione dei tribunali minori, che pure assicurano la c.d. giustizia di prossimità, perché costituiscono una eccessiva spesa pubblica; si sono ridotti i riti processuali (ma in modo così contorto che nella sostanza i riti si sono moltiplicati), si è proposto di ridurre i gradi del processo, e persino le ragioni di accesso alla Corte di Cassazione, tutto ciò al fine di ridurre il numero dei processi, smaltire l'arretrato, scoraggiare l'accesso alla giustizia; si sono ancora quadruplicati i costi per l'instaurazione delle cause, ma sopratutto si cerca di contenere il ruolo dell'avvocato, quasi che non si trattasse più di un necessario intermediario e del più valido collaboratore del giudice, ma di un personaggio eventuale, se non secondario in un processo che è dominato dal giudice.

    Questa linea economicistica, che ritengo in contrasto con i principi costituzionali, appare anche in contrasto con i principi espressi della Carte europea dei diritti fondamentali, che proprio alla giustizia, e quindi all'avvocato, dedica importanti disposizioni.

    Questa nuova prospettiva finisce anche per incidere sulla qualificazione giuridica del rapporto con l'avvocato, certamente non semplice nuncius del suo assistito come riteneva Francesco Carnelutti in uno scritto del 1940, ma garante dei diritti costituzionali in piena autonomia rispetto al cliente.

    L’avvocato nella Risoluzione del Parlamento Europeo (2006)

    I confini dei diritti e dei doveri del difensore, tracciati dalle fonti primarie e dai codici di deontologia, si fondano comunque su principi imprescindibili di autonomia e indipendenza non solo del singolo avvocato ma anche degli organi rappresentativi che ne difendono le prerogative e ne controllano il comportamento, irrogando le sanzioni necessarie perché il suo ministero sia svolto in modo corretto. Questi principi si sono via via stratificati nel tempo, e sono stati trasformati in norme giuridiche corroborate da norme etiche.

    Si tratta di principi così diffusi e condivisi da essere stati oggetto di diverse Risoluzioni del Parlamento europeo di qualche anno fa, motivate dal timore che la Commissione europea - infervorata nell'applicazione del principio di concorrenza per accelerare la creazione del mercato unico - finisse per confondere il ruolo del difensore, e quindi delle prestazioni svolte dall'avvocato in semplici erogazioni di servizio assimilabili all’esercizio d'impresa.

    Tra questi atti è da menzionare con particolare vigore la Risoluzione del Parlamento europeo del 23 maggio 2006 in cui si esalta proprio il ruolo del difensore. Val la pena di riprenderne alcuni passi per esplicitare il modello comunitario di giustizia e del ruolo dell'avvocato, che in Italia sembra oggi obliato, per effetto sia dei provvedimenti assunti a seguito della crisi economica sia per effetto della prevalente mentalità economicista, che finisce per affievolire i diritti costituzionalmente garantiti.

    Innanzitutto il Parlamento europeo ha fatto propri i principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia che stanno anche alla base del codice deontologico oggi vigente nel nostro ordinamento, e cioè, testualmente:

    (da qui vedi la traduzione in inglese sul sito dell’Unione Europea)

    «l'indipendenza, l'assenza di conflitti di interesse e il segreto/confidenzialità professionale quali valori fondamentali nella professione legale che rappresentano considerazioni di pubblico interesse;
    la necessità di regolamenti a protezione di questi valori fondamentali per l'esercizio corretto della professione legale, nonostante gli inerenti effetti restrittivi sulla concorrenza che ne potrebbero risultare,
    che lo scopo del principio della libera prestazione di servizi applicato alle professioni giuridiche è quello di promuovere l'apertura dei mercati nazionali mediante la possibilità offerta ai prestatori di servizi e ai loro clienti di beneficiare pienamente del mercato interno della Comunità».
    La Risoluzione ha ribadito che «qualsiasi riforma delle professioni legali ha conseguenze importanti che vanno al di là delle norme della concorrenza incidendo nel campo della libertà, della sicurezza e della giustizia e in modo più ampio, sulla protezione dello stato di diritto nell'Unione europea, ed inoltre che la protezione adeguata dei diritti umani e delle libertà fondamentali cui ha diritto ogni persona, nel campo economico, sociale, culturale, civile e politico, richiede che ogni persona abbia effettivo accesso ai servizi legali forniti da una professione legale indipendente»
    Questa permessa è in linea con il nostro sistema costituzionale, ma è messa in pericolo dal' odierna disciplina introdotta con le diverse manovre di stabilità rivolte a contenere gli effetti della crisi economica quasi che i diritti potessero essere equiparati alle merci sul "mercato della giustizia".

    La Risoluzione ha poi insistito:

    «sugli obblighi dei professionisti legali di mantenere l'indipendenza, evitare conflitti di interesse e rispettare la riservatezza del cliente [che] sono messi particolarmente in pericolo qualora siano autorizzati ad esercitare la professione in organizzazioni che consentono a persone che non sono professionisti legali di esercitare o condividere il controllo dell'andamento dell'organizzazione mediante investimenti di capitale o altro, oppure nel caso di partenariati multidisciplinari con professionisti che non sono vincolati da obblighi professionali equivalenti».

    Anche questo principio è stato tradito dalla recente disciplina che autorizza l'ingresso di soci di puro capitale nelle società di professionisti e, addirittura, ha consentito ai soci di puro capitale di fare parte di più società di professionisti.

    La Risoluzione si è preoccupata poi della remunerazione appropriata del difensore, «considerando che la concorrenza dei prezzi non regolamentata tra i professionisti legali, che conduce a una riduzione della qualità del servizio prestato, va a detrimento dei consumatori». Anche questo principio è stato violato dalla disciplina interna dapprima con la soppressione delle tariffe minime e di poi con la soppressione delle tariffe massime, infine con la soppressione di ogni parametro tariffario, e ciò in spregio dei principi dettati dalla Corte di Giustizia dell'Unione europea, la quale, con molte sentenze, aveva legittimato il sistema italiano di determinazione del compenso del difensore.

    Attesa poi la rilevanza sociale e la funzione pubblica esercitata dagli avvocati, la Risoluzione si è preoccupata della approvazione e applicazione di codici di condotta, di regole deontologiche a cui siano astretti tutti gli avvocati che esercitano la professione forense. Il codice italiano vigente è molto rigoroso sotto due aspetti, perché obbliga l'avvocato a difendere (e mai tradire) l'interesse dell'assistito, a non assumere il mandato o a dismetterlo quando riscontri di essere in conflitto d'interesse con il cliente, a non assumere mndti che non sarebbe in grado di eseguire diligentemente, a non moltiplicare i processi, a dissuadere il cliente dall'intraprendere un'iniziativa giudiziaria futile o del tutto infondata, a spiegare e richiamare l'attenzione dell'assistito sui profili di legalità e correttezza, oltre che di opportunità, nella strategia difensiva, nella assunzione delle prove e così via, sì da mantenere il rapporto con il cliente entro i binari della correttezza, ma rivendicando anche nei fronti del cliente un rapporto di indipendenza - tesi che nega dunque in radice la singolare concezione di Francesco Carnelutti che , come si è detto, voleva equiparare il difensore al nuncius del cliente.

    Soprattutto la Risoluzione:

    «riconosce pienamente la funzione cruciale esercitata dalle professioni legali in una società democratica, al fine di garantire il rispetto dei diritti fondamentali, lo stato di diritto e la sicurezza nell'applicazione della legge, sia quando gli avvocati rappresentano e difendono i clienti in tribunale che quando danno parere legale ai loro clienti;
    ribadisce l'importanza delle norme necessarie ad assicurare l'indipendenza, la competenza, l'integrità e la responsabilità dei membri delle professioni legali, con lo scopo di garantire la qualità dei loro servizi, a beneficio dei loro clienti e della società in generale, e per salvaguardare l'interesse pubblico;
    ricorda alla Commissione che le finalità della regolamentazione dei servizi legali sono la protezione dell'interesse pubblico, la garanzia del diritto di difesa e l'accesso alla giustizia, e la sicurezza nell'applicazione della legge e che per queste ragioni non può essere conforme ai desideri del cliente».
    Il codice deontologico forense dedica un intero titolo, il terzo, ai rapporti tra avvocato e cliente. Ma prima ancora di pervenire alla disciplina specifica del rapporto, val la pena di ricordare la codificazione del dover di fedeltà (art.7), di diligenza (professionale: art. 8), il dovere di segretezza e riservatezza (art. 9), l'indipendenza (art.10), l'obbligo della difesa quando richiesto dalla legge (art.11), il divieto del conflitto di interessi (art.12) l'obbligo di verità che impedisce all'avvocato di dire cose false in giudizio o di costruire prove false (art.14); vi sono, altresì, obblighi di minor importanza (di informazione, etc.,) ma specificamente si contempla il rapporto di fiducia, il divieto di conflitto d'interessi e l'inadempimento, di cui si è detto.

    Questi principi, predisposti nel 1997 dal Consiglio nazionale forense, sono stati via via adeguati secondo le esigenze emerse dalla prassi applicativa, nell'ambito cioè dell'attività giurisdizionale svolta dal Consiglio, e anche in considerazione delle imposizioni del legislatore nazionale, specie in ottemperanza al d.l. n. 223/2006, ispirato dalla disciplina anticoncorrenziale. Le limitazioni imposte agli avvocati a favore della concorrenza non appaiono sempre in linea con la Risoluzione ora riportata e con la giurisprudenza della Corte di Giustizia.

    L'insistenza del richiamo a questa Risoluzione è dovuta al fatto che i principi in essa espressi sono condivisi da tutta l'Avvocatura europea, e sono una garanzia di tutela del cittadino.

    Ma qui non si tratta soltanto dei diritti del cittadino, si tratta anche di verificare in che modo essi si possano concretamente tutelare, cioè trasformare da enunciazioni solenni contenute nei testi costituzionali o comunitari nella pratica quotidiana che si vive nei tribunali. I diritti dei cittadini sono tutelati se sono tutelati i diritti degli avvocati, i quali debbono avere il potere di difendere i cittadini dinanzi a qualsiasi giudice. E' appunto il Protocollo d'intesa di tutte le Avvocature d'Europa che - siglato a Parigi alcuni anni fa e intitolato "Avocats dans le monde" vorrebbe sostenere le cause dei diritti fondamentali dinanzi a tutti i giudici del mondo proprio in virtù del privilegio collegato con l'esercizio della professione forense.

    E' un fatto importante coniugare dunque i principi che garantiscono l'accesso alla giustizia e ad un processo "giusto" con i principi che garantiscono l'indipendenza e l'autonomia dei magistrati e con l'indipendenza e l'autonomia della professione forense. Questi principi sono limitati da ogni intervento legislativo o regolamentare che affidano ad organi esterni (come ad es. il Ministero della Giustizia) la predisposizione di regole di organizzazione della professione (che essendo una “comunità intermedia” ha diritto di organizzassi liberamente, al di fuori dell'intervento legislativo), o addirittura si ingeriscono dei principi di deontologia o delle regole processuali affidate agli Ordini territoriali e al Consiglio nazionale forense per la loro applicazione. Attualmente i progetti ministeriali di riforma della professione forense tendono a ignorare che i principi deontologici fissati dal CNF che sono riconosciuti come norme primarie dalla Corte di Cassazione e ignorano che il CNF è qualificato dalle pronunce della Corte costituzionale come giudice speciale al pari degli altri giudici delle giurisdizioni superiori.

    L’Avvocato nei modelli nazionali: una prospettiva di diritto comparato

    Ma i problemi della difesa non finiscono qui. Come sottolineavo, nonostante vi siano chiari confini costituzionali e di diritto comunitario che ne definiscono il ruolo e la rilevanza, giorno per giorno occorre vigilare sulla loro osservanza e sui tentativi della loro violazione. Tra i tanti esempi che potrei addurre a riprova di questo assunto che potrebbe apparire addirittura inverosimile in una esperienza come la nostra informata a saldi principi di democrazia vorrei indicarne tre.

    Il primo emerge da una recente occasione di riflessione in ambito comparatistico. Nel maggio del 2011 il congresso internazionale indetto dalla Association Henri Capitant in Cambogia e Vietnam ha accertato, dalle relazioni presentate dai giuristi provenienti dagli Stati di "giovane democrazia", sopratutto del' Est europeo e dei Paesi del' Estremo Oriente, che le garanzie dell'imputato sono strettamente collegate con la sussistenza di avvocati e di organismi di avvocati indipendenti rispetto all'Autorità costituita; al fatto che gli avvocati non appartengano al personale dipendente dello Stato, non siano funzionari, né abbiano rapporti di dipendenza con altri enti o soggetti collegati con l' apparato dello Stato ma possano agire in piena libertà, come liberi lavoratori indipendenti o, come diciamo noi, come liberi professionisti; inoltre, che i processi siano informati alla parità di condizione tra accusa e difesa, che gli interrogatori e l'assunzione delle prove siano svolti sempre alla presenza del difensore e che i processi si possano svolgere pubblicamente nel rispetto delle garanzie della difesa; ancora, che gli avvocati abbiano una preparazione adeguata, preceduta da un periodo di training e siano sottoposti ad un esame di abilitazione che ne accerti l'effettiva competenza; e che inoltre non svolgano contemporaneamente altre attività che potrebbero comprometterne l'indipendenza. Per molti di essi la nuova realtà rappresenta una rivoluzione copernicana, essendo - come è accaduto ad es. in Cina - assolutamente diversa da quella fin qui descritta: gli avvocati precedentemente erano impiegati dello Stato, difendevano non i diritti dell'imputato o dell'attore bensì i valori e i principi fondanti l'ideologia del Regime, e quindi erano ben poco interessati a difendere gli interessi dei loro assistititi. E' stato perciò consolante apprendere che anche nelle giovani democrazie la presenza di avvocati indipendenti costituisce uno dei pilastri essenziali delle nuove libertà.

    Questa è la ragione per la quale l'art. 6 della Convenzione dei diritti dell'uomo, come applicato dalla Corte di Strasburgo, consente ai ricorrenti di difendersi da soli: ciò per evitare che il ricorrente dovesse affidarsi proprio all'avvocato dipendente dello Stato contro il quale aveva proposto il ricorso, e non potesse quindi fidarsi della sua difesa. Ma ora le cose stanno cambiando. Di fronte all'enorme messe di ricorsi che si sono abbattuti sulla Corte (quasi 80.000 l'anno) il fatto che essi possano essere redatti direttamente dagli interessati costituisce un boomerang per chi chiede giustizia, in quanto non vengono rispettati i canoni formali richiesti per l’instaurazione corretta del procedimento: la mancata assistenza, cioè il mancato ricorso alla difesa tecnica impedisce all'interessato di difendere il proprio diritto. Di qui i progetti della Corte di cambiare le regole.

    E' appena il caso di ricordare che proprio all'art.6 della Convenzione si appellarono le Brigate Rosse quando furono assoggettate al processo celebrato a Torino, in quanto non riconoscevano l'autorità dello Stato nella funzione giudicante che li riguardava. La loro difesa d'ufficio fu assunta dall'allora presidente del' Ordine torinese, l'avv. Fulvio Croce, il quale sorpreso n un agguato fu barbaramente ucciso nello svolgimento di questa funzione essenziale, la difesa dei diritti dell'imputato anche contro la volontà dell'imputato stesso. Ma il processo fu portato a compimento perché tra i principi costituzionali vigenti nel nostro Paese vi è anche quello che garantisce l'individuo da se stesso. Anche gli appartenenti alla organizzazione eversiva avevano dunque diritto ad un giusto processo, e quindi dovevano essere assistititi da un avvocato, da un difensore d'ufficio, perché fossero loro applicate le garanzie assicurate ad ogni cittadino. Credo che questo sia il punto più alto e nobile che contrassegna il nostro modello di difensore.

    Il secondo problema, che si trascina da anni, ed è particolarmente seguito dalla associazione degli avvocati che praticano il diritto penale, l'Unione Camere Penali, riguarda la equiparazione dei ruoli tra accusa e difesa: il codice penale attuale - mi si perdoni se mi esprimo semplicisticamente, non essendo questa la mia materia di studio - non garantisce la assoluta indipendenza dell'accusa dal giudice: la contiguità di pubblico ministero e giudice del processo tende ad agevolare il primo, ponendo la difesa in uno stato di minorità, e quindi di limitatezza delle garanzie dell'imputato. Di qui i diversi progetti per migliorare la situazione, che vede, tra i possibili rimedi, anche la separazione delle carriere ( e non solo delle funzioni) tra magistratura inquirente e magistratura giudicante.

    Il terzo problema, che è collegato proprio con le esigenze - o supposte tali - di risparmi economici, riduzione degli sprechi, migliore impiego delle risorse, promozione di best practices e di oculata amministrazione dei servizi giudiziari, di cui si è parlato poco fa con riguardo alla concezione economicista della giustizia, riguarda la riduzione della presenza dell'avvocato in taluni processi o in talune fase dei processi, particolarmente nel settore civile, nella convinzione che la sua presenza costituisca un costo di cui si potrebbe fare a meno, riducendo quindi un aggravio per i cittadini, in particolare per le imprese, considerate le uniche risorse per la promozione della crescita economica. L'avvocato, pur essendo un essenziale difensore dei diritti, verrebbe messo da parte o perché per l'esiguità della causa, costituirebbe un inutile aggravio, o perché potendosi conciliare la causa, egli potrebbe invece ostacolare l'accordo per instaurare il procedimento e quindi lucrare maggiormente sulla vicenda, o perché con i suoi "cavilli" finirebbe per ostacolare comunque il corso della giustizia. Sono tutti luoghi comuni, pregiudizi veri e propri, che non trovano albergo nei libri di procedura ma nel comune sentire di molti cittadini, mal orientati dall'opinione pubblica che si forma su giornali poco informati o poco corretti nel diffondere le informazioni.

    Eppure, in successivi interventi, tra loro non sistematicamente collegati, si sono apportate numerose modifiche di carattere procedurale proprio per realizzare questo fine.

    Tra le più rilevanti segnalo le seguenti:

    la previsione di un procedimento obbligatorio di mediazione finalizzata alla conciliazione della lite (d.lgs. n. 28/2010) che si svolge senza il necessario patrocinio del difensore né consente, a chi intenda comunque avvalersene, di giovarsi dell’istituto, malgrado tale possibilità sia espressamente garantita dalla Direttiva 2003/8/Ce, c.d. Legal aid (art. 7);
    l’ampliamento delle ipotesi di difesa personale di fronte al giudice di pace ammissibile oggi – in forza della modifica apportata all’art. 82 del c.p.c. dal d.l. 22 dicembre 2011, n. 212, convertito in legge 17 febbraio 2012, n. 10 – fino a € 1100 (in vece dei precedenti € 516,00).
    In conclusione, il ruolo e le funzioni del difensore sono in costante evoluzione, e non è detto che questo percorso evolutivo sia sempre diretto ad una migliora applicazione dei principi fondamentali riconosciuti e garantiti dalla Costituzione e dalla Carta europea dei diritti fondamentali. Spetta proprio agli avvocati in primis, alla dottrina e ai giudici far sì che l'avvocato, il più autorevole e utile collaboratore del giudice nell'esercizio della funzione giurisdizionale, possa continuare ad esercitare il suo ministero con quella competenza correttezza autonomia e indipendenza che sono essenziali perché siano garantiti i diritti della difesa, perché l'avvocato possa obbedire alla legge e alla propria coscienza, come diceva Pietro Calamandrei, e senza curarsi d'altro. Cioè con il coraggio che la professione richiede e al tempo stesso la toga gli fornisce, e con la protezione anche delle istituzioni rappresentative dell'Avvocatura come il Consiglio nazionale forense.

    La giurisdizione multilivello e il dialogo tra le Corti

    E’ fenomeno proprio del secolo XX la dissociazione tra sovranità , territorio e giurisdizione. Ad un potere diffuso corrisponde la compresenza sul medesimo territorio di una pluralità di ordinamenti giuridici e una pluralità di forme di amministrazione della giustizia collegate con una nuova concezione della giurisdizione articolata sulla competenza di più Corti. Al “tramonto della sovranità” statuale descritto da Natalino Irti (in Tramonto della sovranità e diffusione del potere, in Diritto e società, 2009, p. 465 ss.) si accompagna la crisi del monopolio statuale della giurisdizione e la proliferazione delle Corti (Picardi, in Riv.it.sc.giur., 2011, p.43 ss.); all’impossibilità di istituire un rapporto di gerarchia tra le Corti (la Corte di Lussemburgo, la Corte di Strasburgo, la Corte dell’ Aja, le Corti costituzionali, le Corti Supreme di legittimità ) si fa fronte attraverso il” dialogo “ tra le Corti (come teorizzato da Sabino Cassese, nel suo libro I tribunali di Babele. I giudici alla ricerca di un nuovo ordine globale, Roma2009; ma v. i rilievi critici di de’ Vergottini, Oltre il dialogo tra le Corti. Giudici, diritto straniero, comparazione, Bologna, 2010)

    La complessità delle fonti, cui si aggiunge la complessità delle giurisdizioni richiede una particolare competenza e abilità degli avvocati che intendano soddisfare la domanda di giustizia dei loro assistiti. Ed è pertanto necessario per il funzionamento di questi tribunali allestire una categoria forense qualificata, specializzata, aggiornata , preparata a raccogliere la sfida della post-moderità.

    Ma la giurisdizione non è solo in crisi per la crisi che attraversa la sovranità. E’ in crisi per la progressive dismissione del diritto-dovere di amministrare la giustizia da parte degli apparati dello Stato.

    L’eccessivo accumulo dei processi ha indotto il legislatore ad adottare misure , già sperimentate in material di assistenza ospedaliera e di servizio scolastico, a ridurre sempre di più le modalità di amminsitrazione della giustizia e così l’ambito delle competenze statuali in materia di giutizia. Quella che un tempo era una manifestazione del potere ma anche la offerta di un servizio sociale e una garanzia di imparzialità – a questi capisaldi di college l’idea di giustizia da Platone ai nostri giorni (v. nella sconfinata letteratura la voce Teorie della giustizia dell’ Enciclopedia delle scienze sociali Treccani ) – e finanche la materializzazione dei valori della moralità (Guzzo, La moralità, Torino, 1950), oggi è considerata un servizio che lo Stato può assicurare nei limiti in cui sia poco costoso, efficiente e propulsive delle attività economiche. Tutte caratteristiche che sembrerebbero incarnate più da un sistema privatistico della giustizia che non dal classico sistema pubblicistico.

    Non è questa la sede per discutere l’ideologia sottostante a questo modo di concepire la giustizia, per comprendere le ragioni della istituzione di tribunali specializzati in materie economiche la cui competenza sia circoscritta alle imprese, le rgioni della istituzione di organismi arbitrali e di concliazione nella material bancaria e finanziaria, le ragioni della progressiva riduzione del ruolo del difensore, le ragioni dell’aumento delel spese di giustizia accollate ai cittadini, per non parlare poi della soppressione delle sedi stesse nelle quali si amministra la giustizia. Ma anche in questa deplorevole prospettiva il ruolo dell’ Avvocatura potrebbe essere primario, sia attraverso la istituzione di camere arbitrali presso gli Ordini forensi territoriali, sia di organismi di concliazione volontaria.

    Prospettive: un nuovo modello di avvocato per un nuovo modello di società

    La prevenzione dei conflitti si raggiunge mediante una consulenza qualificata, mediante una analisi tecnica della posizione giuridica degli assistiti, mediante una strategia non affidata soltanto al conflitto ma anche al componimento dei conflitti.

    E’ una trasformazione in atto che connotano tutti gli ordinamenti, non solo il nostro, come hanno evidenziato le Journées internationales del 2011 promosse dalla Association Henri Capitant sul tema del “pluralismo delle professioni legali” di cui sopra ho fatto un cenno (v. Alpa e De Vita, Rapport general, in Rass.Forense, 2011, p. 283 ss.). Proprio esaminando i modelli diffusi nei diversi ordinamenti – e aggregabili in macromodelli per ragioni di lingua, di cultura, di orgamizzazione politica – abbiamo potuto riscontrare che ogni modello è in fase di evoluzione quando on di vera e propria trasformazione; che ogi modello abbina l’amministrazione della giustizia alla organizzazione della professione forense; che in nessun modello l’organizzazione della categoria forense è improntata ai principi “liberistici” così spinti come quelli che oggi si registrano nella nostra esperienza, per il momento immaginabile solo sulla carta, cioè sui testi normativi, e non ancora alla luce dell’esperienza, che dovrebbe restituirne un’immagine persino più fosca.

    Proprio la comparazione dei modelli ci convince della bontà delle nostre tesi e della nostra linea politica, rafforzata dalla consapevolezza che solo mediante l’apporto professionale dell’avvocato si può assicurare la tutela degli interessi deboli e la effettività dei rimedi.

    E’ mediante l’esperienza del diritto positivo, ottenuta attraverso la diuturna prassi forense, che si scopre il connotato essenziale della giustizia – pubblica e privata – quale usbergo delle società democratiche. Un nuovo modello di avvocato per un nuovo modello di società è quindi la prossima sfida che si apprestiamo a sostenere. Ma non possiamo procedere da soli: ci occorre l’aiuto delle istituzioni, in primis del Parlamento e del Governo. Altrimenti dovremo rivolgere il nostro ingegno e le nostre risorse a combattere solo per la sopravvivenza , sciupando irrimediabilmente il patrimonio acquisito nel corso degli anni e deludendo così, involontariamente, le attese dei cittadini.

    Si è parlato degli effetti della crisi e delle categorie di avvocati che più sono esposte: le donne, da un lato, e i giovani, dall’altro lato.

    Le iscrizioni alla Facoltà di Giurisprudenza hanno mostrato un lieve cedimento in questi ultimi anni, segno che anche i giovani hanno capito che il mercato dei servizi legali è saturo e che l’ Avvocatura è destinata, nei primi anni di carriera professionale, a svolgere la funzione di ammortizzatore sociale. I giovani si iscrivono all’ Albo in attesa di una sistemazione migliore nel mercato del lavoro. Non era questo il nostro progetto. Tutt’altro: il testo della riforma forense in discussione alla Camera prevede un percorso guidato nella formazione culturale e deontologica nel periodo del tirocinio, affidato anche alle Scuole forensi, ai cui vorrebbe restituire legittimazione e dignità, al pari delle Scuole di specializzazione legale. L’anticipazione di un semestre del tirocinio nell’ambito della carriera universitaria non è parsa, per questo indirizzo, un’idea felice, atteso che la durata del corso è stata diluita in cinque anni, per poter consentire agli studenti di completare senza ritardi l’ iter degli esami e della redazione della tesi di laurea, e non sopporterebbe un ulteriore aggravio con spendita di tempo e di risorse . In ogni caso, il CNF ha già avviato i contatti con le Università per mettere a fuoco le diverse tipologie di tirocinio che si potrebbero definire – nel silenzio della nuova disciplina – e renderle oggetto della prevista convenzione con il Ministero dell’Istruzione e dell’ Università. Il CNF ha sempre sostenuto che nella formazione preparatoria all’esercizio dell’attività forense è necessario lo svolgimento di una pratica effettiva, corroborata dall’insegnamento diuturno dell’ avvocato di riferimento, arricchita dall’esame dei fascicoli, del rapporto con il cliente, dalla definizione della strategia della causa, dalla redazione degli atti difensivi: tutte attività che le scuole non possono garantire, ed ancor meno i corsi universitari.

    Ai giovani che hanno conseguito l’abilitazione di apre un futuro non semplice, reso più difficoltoso dalla crisi economica e dalla forte concorrenza. Solo la qualificazione, la specializzazione, l’aggiornamento sono presidio di un progressivo affinamento delle doti necessaire per garantire ai clienti l’affidabilità del patrocinio. Ed è per questo che il CNF, le sue Fondazioni, gli Ordini territoriali si stanno prodigando per l’allestimento di corsi e seminari idonei a soddisfare compiutamente queste esigenze.

    Vorrei concludere con le parole di Francesco Galgano tratte da uno degli ultimi saggi che ebbe la forza di scrivere prima di lasciarci e destinato ad onorare un Collega napoletano , Massimo di Lauro, che festeggiava tante decadi di prestigiosa attività professionale ( L’avvocato fra libera professione e impresa, negli Scritti in onore di Massimo di Lauro, Padova, 2012, p.192) . Si tratta di una sorta di testamento spirituale che riassume il suo modo di intendere la professione forense, a cui aveva dedicato, insieme con la edificazione del giuridico, la sua intera vita: <(…)ci si deve opporre alla mercificazione delle vere e proprie professioni intellettuali (e la Corte di Giustizia vi si è opposta riguardo agli avvocati) , cioè alla loro parificazione a qualsiasi attività di produzione di servizi. La professione di avvocato tocca il superiore interesse alla amministrazione della giustizia . Non la si può parificare a qualsiasi industria. Richiede una particolare disciplina dell’accesso alla professione, esige il rispetto di un rigoroso Codice etico, la sottoposizione ad un superiore potere disciplinare. Molte cose sono cambiate nella moderna organizzazione della professione legale; ma altre cose, retaggio del passato, debbono restare , a presidio della corretta amministrazione della giustizia>.

    Chi ha avuto il privilegio di studiare sui suoi libri e di ragionare con lui della evoluzione del diritto sa che Galgano non era un conservatore, che il suo orizzonte era sempre latissimo e proiettato nel futuro, che non svolgeva considerazioni di parte, che non aveva una idea castale dell’ Avvocatura. Quelle parole, che faccio mie, non riflettono una visione “di parte”, ma sono dettate dal coraggio ed hanno come postulato la difesa delle libertà.

    (da Altalex.com del 4 dicembre 2013. Articolo di Guido Alpa, composto sulla base della relazione sull’attività svolta nell’anno 2011 e nel primo semestre del 2012)


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    Edited by § Salatiele § - 20/3/2015, 16:04
     
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  2. SALATIELE
     
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    IN EVIDENZA

    *** Arresto "tranchant" delle Sezioni Unite della Suprema Corte in tema incompatibilità fra impiego pubblico part-time ed esercizio della professione forense.

    Cassazione Civile, Sezioni Unite, sentenza del 5 dicembre 2013, n. 27266. Presidente L. A. Rovelli, Relatore V. Mazzacane

    (da www.cortedicassazione.it)

    AVVOCATO E PROCURATORE - DIPENDENTI PUBBLICI PART-TIME SVOLGENTI ATTIVITA' DI AVVOCATO EX L. N. 662 DEL 1996 - INCOMPATIBILITA' AI SENSI DELLA L. N. 339 DEL 2003 - ABROGAZIONE IN FORZA DI NORME SUCCESSIVE - ESCLUSIONE


    "La disciplina introdotta dalla legge 25 novembre 2003, n. 339, che sancisce l’incompatibilità tra impiego pubblico part-time e professione forense, non è stata tacitamente abrogata dalle norme successive, di cui al d.l. 13 agosto 2011, n. 138 (conv., con modif., dalla legge 14 settembre 2011, n. 148) e d.P.R. 7 agosto 2012, n. 137, né contrasta con la Costituzione e con i principî comunitari".


    ****Il testo per esteso dell'importante sentenza:

    www.cortedicassazione.it/Documenti/27266_12_13.pdf
     
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  3. SALATIELE
     
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    (fonte: http://www.diritto24.ilsole24ore.com/guida...n-crescita.html)


    CRISI: AVVOCATI IN TESTA

    Professionisti, redditi in calo ma numeri in crescita

    di Giuseppe Sileci
    (Guida al Diritto, 03 gennaio 2014)




    << Davanti all’attuale tasso di disoccupazione, in costante crescita e pericolosamente al di sopra del 12%, può lasciare indifferenti la flessione dei redditi dichiarati dai professionisti negli ultimi cinque anni (Il Sole 24 Ore del 16 Dicembre 2013). In fondo, potrebbe ragionevolmente osservarsi, ben diversa e più drammatica è la condizione di chi un reddito proprio non ce l’ha rispetto a chi, comunque, un lavoro ce l’ha.

    Il dato, però, merita ugualmente di essere analizzato perché molti professionisti sono solo formalmente occupati (soprattutto le fasce più giovani dichiarano redditi da fame) ed anche perché il trend di questo impoverimento non sembra essersi esaurito ed è destinato a peggiorare dal perdurare della crisi.

    Infatti, nonostante le rassicurazioni che provengono dalla classe politica, non è affatto detto che l’anno che sta per entrare segnerà una sostanziale inversione di tendenza.

    E se l’attuale recessione è certamente figlia dei mutui subprime, della contingente e prolungata turbolenza dei mercati finanziari e dell’enorme debito pubblico, è anche vero che nel nostro Paese la ripresa sembra ancora lontana perché si scontano gli effetti di talune politiche del lavoro.

    Contrazione del 10% dei redditi

    Possiamo avanzare il sospetto, infatti, che una contrazione del 10% dei redditi da professione negli ultimi cinque anni sia un ridimensionamento indotto, certo, dalla minore liquidità in circolazione (e dunque da una minore propensione alla spesa di cittadini ed imprese, a cominciare dall’acquisto dei servizi professionali) ma sia, anche, il logico effetto di una crescita di un mercato già saturo? (nello stesso periodo di riferimento, secondo dati Adepp, il numero dei professionisti iscritti alle casse di previdenza private è cresciuto dell’8,80% tra il 2007 ed il 2012 contro un tasso di crescita delle imprese di meno della metà nello stesso arco temporale, secondo dati Unioncamere).

    Le sviste della politica

    E possiamo ascrivere questo aumento, patologico in taluni casi (ad esempio per avvocati ed ingegneri), alla irresponsabile decisione politica, totalmente supina al dogma della necessità di convertire l’economia manifatturiera in una economia di servizi, di non orientare migliaia di giovani verso effettivi sbocchi occupazionali ed anzi di incoraggiarli ad intraprendere lunghi e costosi percorsi di formazione, ben sapendo che costoro avrebbero vissuto la cocente delusione di constatare che l’obiettivo, per il quale avevano a lungo faticato, altro non era che un terribile miraggio ed un futuro di incertezze e precarietà?

    Adesso è chiaro che la flessibilità, peculiarità del lavoro autonomo, è stato il pannicello caldo adoperato per fronteggiare una latente crisi occupazionale come è chiaro che il manifatturiero traina l’economia.

    Eppure per anni la priorità dell’agenda europea è stata l’attuazione della “Strategia di Lisbona”, della quale oggi nessuno parla più, anche se questo progetto si è rivelato incapace di assicurare un robusto sviluppo economico perché, puntando tutto sui servizi, ha trascurato che questi sono indispensabili se si accompagnano alla tenuta dei settori produttivi tradizionali e che essi non sono in grado di assolvere a questo scopo quando – ed è quello che è accaduto in Italia - il mercato offre un surplus di alcune competenze e non soddisfa la domanda di altre professionalità.

    Avvocati sempre più nel mirino

    In tutto questo la condizione degli avvocati, se possibile, è ancora più grave (non c’è dubbio che nel nostro paese l’offerta di servizi legali è cresciuta ben più della domanda ed ha registrato un incremento degli iscritti alla Cassa Forense di quasi il 20% tra il 2007 ed il 2011, senza considerare tutti quegli avvocati che sono iscritti all’albo ma non all’ente previdenziale) ed è destinata a peggiorare a causa della sfiducia – oramai dichiarata – della politica verso questa scomoda categoria professionale: non altrimenti, infatti, può interpretarsi la volontà sottostante l’ultimo (ed ennesimo) intervento legislativo per ridurre i tempi della Giustizia civile.

    Ancora una volta, però, a rischiare di più sono i cittadini, le cui garanzie processuali potrebbero essere messe davvero a repentaglio da riforme normative irresponsabili, concepite da una classe politica che, dopo gli innumerevoli tentativi compiuti dal 1990 ad oggi senza che sia riuscita a rendere più efficienti i tribunali italiani, è l’unica vera colpevole di questa “Caporetto”.>>



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    COMUNICATO STAMPA

    Allegato: Comunicato stampa

    Data: 23/02/2015 Fonte: OUA - Comunicati Stampa - www.oua.it/



    LIBERALIZZAZIONI, DALL’OUA GIUDIZIO POSITIVO PER L’AMPLIAMENTO DELLE COMPETENZE SULLA COMPRAVENDITA DEGLI IMMOBILI. GRANDE ATTENZIONE SULLE SOCIETÀ MULTIPROFESSIONALI

    BOCCIATURA PER IL PACCHETTO SULLA RC AUTO: UN INTERVENTO CHE LIMITA IL LIBERO MERCATO, FAVORISCE SOLO LE ASSICURAZIONI E PESA SULLE TASCHE DEI CITTADINI IN QUANTO ALL’OBBLIGO DI PREVENTIVO: INVASIVO E INUTILE!

    ***



    L’Organismo Unitario dell’Avvocatura, che riunirà l’Assemblea dei delegati il prossimo venerdì 27 febbraio, a Roma, anche per discutere approfonditamente di questi temi, ha fatto una prima analisi del disegno di legge per la concorrenza approvato dal Consiglio di Ministri.

    Per Mirella Casiello, presidente Oua, il ddl «ha alcuni aspetti positivi come l’aumento delle competenze per quanto riguarda la compravendita degli immobili, che possono moderatamente contribuire al sostegno della professione in un momento di grave crisi.

    «Riteniamo anche - continua - che sia giunto il momento di intervenire sulle società multidisciplinari, tuttavia sarebbe stato più opportuno che questo tipo di provvedimento fosse stato concertato con l'avvocatura. Detto ciò, vista la situazione, non possiamo non cogliere l’opportunità del “multiprofessionale”, un passaggio importante per gli avvocati: ricordiamo che in questa direzione c’è un voto significativo dell’ultimo Congresso Forense di Venezia. Anche alla prossima assemblea di Roma del 27 inviteremo i delegati, le altre istituzioni forensi e le associazioni a fare una valutazione su questo punto».

    «Inutile e invasivo, infine, l’obbligo di preventivo – continua la presidente Oua –. I cittadini già lo chiedono e sono i primi che si rendono conto della difficoltà di fare una previsione, visti i tempi e le note storture del nostro sistema giudiziario. Questa scelta, sfortunata, del Governo sembra dettata solo da un riflesso vecchio e punitivo nei confronti degli avvocati».

    L’Oua, quindi, critica il pacchetto sulla Rc auto, perché lo considera un intervento che limita il libero mercato, favorisce solo le assicurazioni e pesa sulle tasche dei cittadini. In tal senso, è in preparazione una scheda analitica per “smascherare” una controriforma dai connotati profondamente illiberali.

    «Crediamo, comunque, - conclude Casiello - che in Parlamento nell’iter di approvazione, ci siano ampi margini per poter apportare le dovute modifiche, anche chiamando in causa in questa azione il ministero di Giustizia, visto che alcuni punti del provvedimento governativo, coordinato dal Ministero dello Sviluppo Economico, incidono, appunto, su diversi aspetti del processo civile».



    Roma, 23 febbraio 2015


    Allegato: Comunicato stampa

    Data: 23/02/2015 Fonte: OUA - Comunicati Stampa - www.oua.it/

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    GIUNTA DELL’UNIONE DELLE CAMERE PENALI ITALIANE

    Delibera dell’8 novembre 2018


    I PENALISTI ITALIANI PROMUOVONO LA MOBILITAZIONE DELLA COMUNITA’ DEI GIURISTI IN DIFESA DELLA COSTITUZIONE.

    GIUSTO PROCESSO, TERZIETA’ DEL GIUDICE, RAGIONEVOLE DURATA DEI PROCESSI, PRESUNZIONE DI NON COLPEVOLEZZA, LIBERTA’ PERSONALE, FUNZIONE RIEDUCATIVA DELLA PENA: QUESTE LE RISPOSTE AI PROGETTI DI CONTRORIFORMA DELLA GIUSTIZIA PENALE.

    PROCLAMATA L’ASTENSIONE DALLE UDIENZE PER I GIORNI 20, 21, 22 E 23 NOVEMBRE 2018



    Pesanti nubi si addensano intorno al sistema penale del nostro Paese. Com’era prevedibile la connotazione populista dell’attuale maggioranza di Governo sta determinando l’adozione da parte delle forze politiche che la compongono di sciagurate iniziative destinate ad incidere sui meccanismi della giustizia penale.

    La maggioranza parlamentare si sta attrezzando per una accelerazione che conduca in tempi rapidissimi alla approvazione del Disegno di Legge in materia di “Misure di contrasto dei reati contro la P.A.” attualmente all’esame delle Commissioni Giustizia e Affari costituzionali della Camera dei Deputati.

    È in relazione a tale Disegno di Legge che, come noto, è stato presentato l’emendamento governativo per l’abolizione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado.

    In questi giorni è stata incessante l’iniziativa dei penalisti italiani per denunziare sia la gravità del progetto sia lo strumento individuato.

    L’Unione delle Camere Penali si è resa protagonista di una campagna di denuncia del tentativo di colpo di mano di procedere con un emendamento alla sostanziale soppressione di un istituto di garanzia.

    La prescrizione nel nostro ordinamento è chiamata tra l’altro a svolgere la funzione di presidio del principio costituzionale della ragionevole durata del processo. Soppresso tale equilibratore il tempo dell’accertamento diviene infinito, definitivamente trasformandosi il processo stesso in pena, con evidenti ricadute sulla stabilità dei rapporti giuridici.

    Nella scorsa legislatura è già intervenuta la riforma della prescrizione –avversata dagli avvocati penalisti – che, concedendo un allungamento del tempo necessario a prescrivere per le fasi delle impugnazioni, ha già determinato l’inaccettabile procrastinarsi del processo penale.

    Nel nuovo progetto addirittura non si distingue tra sentenza di condanna o di assoluzione, così determinando incertezza anche nella condizione di chi sia stato assolto dal primo Giudice.

    Va poi ricordato che una mano tecnica si è inserita nella stesura della proposta ripristinando la disciplina prevista dal codice Rocco in materia di continuazione allungando, anche per questa via, i termini prescrizionali.

    Intorno all’iniziativa dell’Unione si sono coagulate prese di posizione di autorevolissimi esponenti dell’Accademia e di quella parte della Magistratura che ha a cuore i principi del giusto processo.

    Le forze di Governo stanno tuttavia dimostrando di voler pervicacemente perseguire, attraverso l’adozione di ulteriori iniziative parlamentari, l’obiettivo della abrogazione della prescrizione, addirittura iscrivendola in una minacciosa prospettiva di generale riforma del processo, le cui premesse sloganistiche sono già sufficienti a dare il segno di una dissennata deriva giustizialista e populista. E ciò senza alcun confronto con la comunità dei giuristi che nel suo insieme ha espresso la contrarietà a tale modo di operare.

    D’altro canto, i primi interventi legislativi in tema di giustizia penale non lasciano adito a dubbi.

    Sul merito del Disegno di Legge per la repressione dei reati contro la P.A., l’Unione ha già avuto modo di segnalarne incongruenza ed inutilità. Le specifiche norme si distinguono per la loro incompatibilità con il dettato costituzionale. L’armamentario è quello dell’inasprimento delle pene principali, della previsione di pene accessorie perpetue, addirittura in grado di sopravvivere alla riabilitazione.

    Il Progetto introduce di fatto l’inquietante figura dell’agente infiltrato, attraverso la scorciatoia della speciale causa di non punibilità per l’autore del reato il quale non solo si manifesti ma consenta la individuazione, anche con collaborazione investigativa, dei correi. L’idea di fondo della riforma -inaccettabile per uno Stato democratico- è che l’organizzazione della Pubblica Amministrazione meriti di essere trattata come un fenomeno di criminalità organizzata, con ulteriore aggravio delle procedure anziché la previsione della loro semplificazione.

    La condizione del carcere sorregge poi il percorso di espiazione essendo reso assai più difficile l’accesso alle misure alternative quali l’affidamento in prova. La confisca sopravvive alla prescrizione.

    Se così alla Camera, il Senato della Repubblica si sta distinguendo quale fucina dei propositi giustizialisti della maggioranza parlamentare. È di recente intervenuta l’approvazione del Disegno di Legge in materia di legittima difesa modificando la struttura della scriminante in modo tale da prevedere (peraltro illusoriamente) la limitazione dello spazio per la doverosa valutazione da parte del Giudice delle condizioni per la sussistenza del presupposto della proporzione tra la difesa e l’offesa, così evocandosi la legittimità di forme di giustizia privata.

    Approvata dal Senato è anche la Legge di modifica del giudizio abbreviato.

    L’analisi specifica dei sei articoli porta semplicemente a segnalare come non sia più prevista la possibilità di definire il procedimento nelle forme del giudizio abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo, la previsione di meccanismi di recupero della diminuente qualora l’imputato chieda il giudizio speciale ora per allora nella speranza di una diversa qualificazione del fatto, la competenza della Corte di Assise - dunque anche con la componente dei Giudici popolari - per la celebrazione del rito abbreviato per i reati di riferimento.

    Il Disegno di Legge interviene poi con una modifica della parte generale del codice penale, inserendo la limitazione dei meccanismi di prevalenza ed equivalenza nell’attività di bilanciamento delle aggravanti speciali.

    Tale intervento è destinato a ridisegnare il senso e il ruolo dei riti speciali.

    È ben nota la natura di stampo inquisitorio del giudizio abbreviato, tollerata dal sistema solo per la sua portata deflattiva alla quale necessariamente si accompagna l’aspetto premiale.

    L’intervento odierno cambia la prospettiva, mortificando il presupposto della deflazione, in aperta contraddizione con le sbandierate intenzioni di velocizzazione del processo penale, impedendo il rito proprio per quei reati ai quali è associata la tremenda sanzione dell’ergastolo.

    Quanto all’intervento sul meccanismo di bilanciamento attenuanti-aggravanti la maggioranza parlamentare ha inteso intervenire nella regolamentazione del concorso eterogeneo di circostanze senza tener conto delle chiare indicazioni della Corte Costituzionale che ha già avuto modo di pronunciarsi sulla illegittimità di simili previsioni.

    Si tratta insomma, all’evidenza, di una riforma che tende ancora una volta ad individuare nel processo uno strumento di vendetta sociale.

    Ed infine, il Senato della Repubblica ha appena approvato il c.d. “Decreto sicurezza”. Il ricorso al voto di fiducia ha impedito la discussione e gli approfondimenti proposti, per il tramite degli emendamenti, di una legge destinata ad incidere profondamente nelle delicatissime materie di intervento.

    La svolta autoritaria prevede l’abolizione della protezione umanitaria, individuando pochi casi che consentono il rilascio del titolo di soggiorno. La misura, nella sua burocratica semplificazione, è certamente destinata ad alimentare il fenomeno di clandestinità.

    Contraria al dettato costituzionale e ai principi fondamentali in materia di libertà personale è la previsione del trattenimento delle persone prima in strutture temporanee per l’accertamento della loro identità e poi nei c.d. centri di permanenza per il rimpatrio, misura restrittiva prolungata fino a sei mesi. Si tratta di una pena senza delitto che per di più si consuma in condizioni inumane e degradanti, tale essendo la realtà dei centri di permanenza.

    I capi della maggioranza di Governo continuano ad annunciare ulteriori riforme del diritto processuale penale, prospettando soluzioni la cui vaghezza si accompagna alla volontà di restringere garanzie e diritti della difesa.

    Vi è nei penalisti italiani grande preoccupazione per tali ipotesi di riforma e per gli immaginati scenari che mirano a sottrarre pezzi di libertà e di garanzie di ciascuna persona e prefigurano la autoritaria involuzione delle leggi penali; ma vi è anche forte determinazione nel respingere un così imponente attacco ai principi del diritto penale liberale e del giusto processo.

    L’Unione delle Camere Penali ha dimostrato con la mobilitazione di questi giorni che unità di intenti e determinazione nell’iniziativa sono in grado di richiamare l’attenzione della pubblica opinione sulla reale portata di questi scomposti interventi di riforma della giustizia penale, determinando contraddizioni e ripensamenti nella stessa maggioranza di governo che ha dovuto infine differire di un anno l’entrata in vigore di quello scellerato emendamento sulla prescrizione dei reati.

    Solo un percorso di confronto, di partecipazione, di verifica tecnica che parta dalla dichiarata condivisione dei principi costituzionali di garanzia e di libertà – confronto al quale l’Unione è disponibile – può e deve caratterizzare le riforme in materia penale. A tutto ciò, all’evidenza, intende sottrarsi l’attuale maggioranza politica.

    L’Unione delle Camere Penali ritiene necessario procedere a una forma di protesta più radicale al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica, tutte le sedi di giurisdizione, le istituzioni parlamentari e governative sulla grave situazione di pregiudizio per le libertà individuali, denunziando la svolta illiberale che si intende imprimere al processo penale.

    Così evidenziato il chiarissimo segno autoritario delle iniziative legislative qui esaminate, l’U.C.P.I. chiama a raccolta, nell’ambito delle proprie manifestazioni, l’Avvocatura tutta, l’Accademia, la Magistratura, le rappresentanze delle forze politiche parlamentari, per sviluppare il confronto sulla gravità della situazione venutasi a determinare e per costruire una nuova comunicazione sociale fondata sulle idee di un diritto penale non vendicativo e sui principi del giusto processo.

    Processo e democrazia sono nati insieme, smantellare l’uno significa demolire l’altra.

    Tutto quanto sopra premesso e considerato, la Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane

    DELIBERA



    secondo le vigenti regole di autoregolamentazione, nel rispetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 180 del 2018 e dunque con esclusione dei processi con imputati detenuti in custodia cautelare, l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale nei giorni 20, 21, 22 e 23 novembre 2018, (esclusi i circondari di Salerno e Trieste interessati da astensioni indette dalle Camere Penali territoriali con delibere rispettivamente 24 ottobre 2018 e del 23 ottobre 2018);

    CONVOCA



    in Roma per il giorno 23 novembre 2018, con modalità che saranno tempestivamente rese note, una manifestazione nazionale in difesa dei valori costituzionali richiamati in delibera;

    INVITA



    le Camere Penali territoriali ad organizzare nei precedenti giorni di astensione iniziative locali ed eventi sui temi oggetto della presente delibera;

    DISPONE



    la trasmissione della presente delibera al Presidente della Repubblica, ai Presidenti della Camera e del Senato, al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Ministro della Giustizia, ai Capi degli Uffici giudiziari.

    Roma, 8 novembre 2018

    Il Presidente dell'Unione delle Camere Penali Italiane
    Avv. Gian Domenico Caiazza

    Il Segretario dell'Unione delle Camere Penali Italiane
    Avv. Eriberto Rosso



     
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