Buona fede e correttezza

Orientamento della più recente giurisprudenza

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  1. seppietta
     
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    Questo articolo mi fu molto utile in un tema che diedero su aspiranti uditori.
    Lo posto qui, perchè p scritto da un magistrato e quindi ha un taglio anche dottrinale.

    Buona fede e correttezza nella visione della più recente giurisprudenza di legittimità di Luca Buffoni, magistrato.

    Sommario: 1. Premessa. 2. Il quadro delle diverse pronunce del 2007: la buona fede e la correttezza nella visione delle Sezioni Unite. 2.1. Buona fede e obblighi di protezione. 2.2 Frazionamento giudiziale del credito unitario e abuso del diritto processuale. 2.3. Efficacia estintiva del pagamento effettuato con assegno circolare. 2.4. La violazione di regole comportamentali fondate sulla buona fede non da luogo a nullità. 3. La buona fede quale clausola generale in ambito negoziale: il problema della completezza dell’ordinamento e gli strumenti di integrazione. 4. Nostra tesi: buona fede quale principio generale dell’ordinamento nella materia negoziale. 5. Il contenuto della buona fede. 6. Integrazione dell’ordinamento e certezza del diritto: punti di frizione. La soluzione delle Sezioni Unite con riferimento alla buona fede.


    1. Premessa.

    La chiusura del 2007 è stata certamente un periodo felice per la giurisprudenza della Cassazione. Nella seconda metà dell’anno la Suprema Corte, con una serie di decisioni, ha esercitato la funzione nomofilattica su alcune questioni di fondamentale importanza, in particolare tentando di definire natura, contenuto ed esatta portata delle clausole generali di buona fede e correttezza.
    Tanto la materia affrontata, quanto la modalità degli interventi della Corte, per la gran parte a Sezioni Unite, lasciano trasparire il tentativo della giurisprudenza di emanciparsi dagli angusti confini del ruolo che istituzionalmente le compete (ossia la risoluzione di controversie relative ai casi concreti che le vengono sottoposti), per tentare un approccio nuovo, autenticamente sistematico, nel tentativo di ricostruire ed eventualmente rifondare su basi maggiormente attuali i principi fondamentali sui quali si regge l’impalcatura del nostro diritto civile.
    Dal canto suo, di fronte a interventi siffatti, l’interprete non può limitarsi ad un ruolo meramente descrittivo, ma deve porsi l’ulteriore problema di ricercare il filo conduttore che lega tra di loro le diverse pronunce, così solo raggiungendo una piena consapevolezza delle linee evolutive di un diritto vivente in perenne divenire.
    È proprio questo l’obiettivo (senz’altro ambizioso) che ci proponiamo nel presente lavoro.

    2. Il quadro delle diverse pronunce del 2007: la buona fede e la correttezza nella visione delle Sezioni Unite.

    Come detto in premessa, nell’arco dell’anno la Suprema Corte è tornata diverse volte sull’ermeneusi delle regole generali di buona fede e correttezza, a fini diversi certamente, ma disegnando probabilmente un orizzonte che dovrebbe garantire all’interprete di orientarsi nel mare magnum delle opzioni teoriche sul tappeto.

    2.1. Buona fede e obblighi di protezione.

    La prima questione esaminata dalla Cassazione (a Sezioni Unite) è quella relativa ai c.d. obblighi di protezione che darebbero la stura ad una responsabilità contrattuale orfana del contratto (Cass.14712/2007)[1].
    Si tratta, probabilmente, della decisione meno felice, ancorata ad un impianto dogmatico incerto, come si è avuto modo di notare in sede di commento alla specifica decisione (vedila in altra sezione della presente rivista).
    Significativo è il fatto che quella sentenza, nonostante la derivazione della teorica degli obblighi di protezione da una lettura ampliativa dell’ambito applicativo della nozione di buona fede, non richiami mai quest’ultima, giungendo anzi a rinnegare in motivazione gli stessi pilastri su cui si fonda l’impostazione teorica seguita.
    È noto, infatti, che l’idea di sottoporre al regime di cui all’art. 1218 cc la violazione di regole comportamentali che non trovino il loro fondamento in un contratto, presuppone la individuazione di una serie di fatti generatori di obbligazioni (non si dimentichi che l’art. 1218 cc disciplina la responsabilità per l’inadempimento delle obbligazioni) diversi dal contratto, e non riconducibili a quelli storicamente ricondotti alla formula di chiusura di cui all’art. 1173 cc (altri atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico, cui tradizionalmente si riconducono le c.d. obbligazioni da quasi-contratto).
    La soluzione al dilemma viene in genere fondata su una lettura precettiva della clausola generale di buona fede, che imporrebbe, anche al di fuori di un rapporto contrattuale (che preveda un obbligo di prestazione), degli obblighi di protezione reciproci tra soggetti che per qualsiasi ragione entrino in relazione (trattative contrattuali, contatto sociale).
    Il passo successivo è quello di elevare tali “obblighi” a vere e proprie obbligazioni, in base alla valvola di cui all’art. 1173 ultima parte cc, onde sottrarre il regime della relativa inosservanza alle regole di cui all’art. 2043 cc e ricondurlo ai più comodi lidi di cui all’art. 1218 cc (più comodi chiaramente in una prospettiva vittimologica con riferimento ai regimi probatorio e prescrizionale).
    Nella decisione 14712/2007, tuttavia, oltre alla menzionata mancanza del richiamo alla clausola di buona fede in chiave fondativa dei c.d. obblighi di protezione, si giunge persino a negare la natura aperta della formula di chiusura di cui all’art. 1173 cc.; tale atteggiamento di netta chiusura rispetto all’allargamento dell’ambito applicativo, in funzione precettiva delle clausole (o delle formule) generali, francamente difficilmente comprensibile nella cornice di quell’isolata sentenza, appare più chiaro adesso, alla luce delle pronunce successive di cui si va a trattare.

    2.2. Frazionamento giudiziale del credito unitario e abuso del diritto processuale.

    Altra decisione di rilievo è Cass. –Sez. Un. civili – 15 novembre 2007, n. 23726, con cui mutando l’orientamento consolidato, le Sezioni Unite stabiliscono il principio in base al quale il frazionamento giudiziale (contestuale o sequenziale) di un credito unitario è contrario alla regola generale di correttezza e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all'art. 2 Costituzione, e si risolve in abuso del processo (ostativo all'esame della domanda), in tal modo ponendo termine alla prassi deteriore, purtroppo invalsa nei nostri tribunali, di parcellizzare l’unica pretesa creditoria in diverse frazioni al fine della richiesta coattiva di adempimento da domandare all’autorità giudiziaria[2].
    In particolare con la sentenza n. 108 del 2000, le stesse Sezioni unite avevano ritenuto ammissibile la domanda giudiziale con la quale il creditore di una determinata somma, derivante dall'inadempimento di un unico rapporto, chieda un adempimento parziale con riserva di azione per il residuo, “trattandosi di un potere non negato dall'ordinamento e rispondente ad un interesse del creditore, meritevole di tutela, e che non sacrifica, in alcun modo, il diritto del debitore alla difesa delle proprie ragioni”.
    Osservava la Corte in quell’occasione, che il frazionamento del credito risponde ad un interesse non necessariamente emulativo del creditore (tale non sarebbe quello di adire un giudice inferiore, più celere nella soluzione delle controversie, confidando nell'adempimento spontaneo da parte del debitore del residuo debito), e per di più non determina neppure una modificazione aggravativa della posizione del debitore, in ragione del fatto che quest’ultimo “potrebbe ricorrere alla messa in mora del creditore, offrendo l’intera somma”.
    Le argomentazioni oggi portate a sostegno dell’opposta soluzione sono tuttavia tranchant: in primo luogo le Sezioni Unite affermano che la non emulatività del frazionamento, al più potrebbe ritenersi per l’ipotesi di frazionamento non contestuale, perdendo del tutto valore tale argomento nella diversa (e assai più ricorrente) ipotesi di frazionamento contestuale della pretesa creditoria con proposizione simultanea innanzi all’autorità giudiziaria delle diverse domande aventi ad oggetto il medesimo rapporto.
    Ancora, l’argomento in base al quale il debitore non subirebbe pregiudizio dal frazionamento in ragione della possibilità di attivazione della procedura di cui all’art. 1206 cc, si scontra con l’inconfutabile obiezione che l’attivazione di siffatta procedura presuppone la consapevolezza del debitore (fino a quel momento inadempiente) in ordine alla sua qualità, mentre in molti casi, lo stesso debitore, in perfetta buona fede, ritiene di non essere tenuto all’adempimento.
    Ciò che più interessa in questa sede è tuttavia la lettura che la sentenza in esame offre dei principi generali di buona fede e correttezza, nonché della categoria dell’abuso del diritto, dai quali la S.C. desume l’esistenza nell’ordinamento del divieto di frazionamento.
    Si tratta di una lettura che rifugge dagli estremi registrati in alcune recenti decisioni, nella quale la portata della clausola di buona fede debordava fino ad assurgere a regola di validità del contratto (cfr. lezione 1 corso on line); qui si fa applicazione in chiave progressista dei principi di buona fede e correttezza senza fraintenderne la portata di regole dettate essenzialmente in funzione di regolazione del comportamento delle parti in pendenza di rapporto.
    Ad avviso della Corte, infatti, il canone generale di correttezza e buona fede, in ragione del suo porsi in sinergia con il dovere inderogabile di solidarietà di cui all'art. 2 della Costituzione, “che a quella clausola generale attribuisce all'un tempo forza normativa e ricchezza di contenuti, inglobanti anche obblighi di protezione della persona e delle cose della controparte”, funzionalizza il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell'interesse del partner negoziale.
    In tale ottica è stata riconosciuto al principio in esame una funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi, che, come emerge dall’odierna decisione, deve essere mantenuto fermo in ogni fase del rapporto, ivi compresa quella giudiziale.
    L’alterazione di tale equilibrio seppure tramite strumenti non formalmente preclusi dall’ordinamento, può configurare ad avviso della Corte, un abuso del diritto ove comporti un’iniqua compromissione della posizione del debitore, per effetto della iniziativa (pur formalmente legittima) del creditore.
    L’abuso si pone dunque, nella visione delle Sezioni Unite quale limite all’esercizio del diritto in contrasto con i principi di buona fede e correttezza, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi.

    2.3. Efficacia estintiva del pagamento effettuato con assegno circolare.

    La terza decisione che viene in rilievo è la n. 26617/2007 (ancora Sezioni Unite) che riconosce efficacia estintiva del pagamento effettuato con assegno circolare[3].
    In questo caso la Cassazione, pur accogliendo (a ragione) l’orientamento progressista che ormai si imponeva alla luce dei mutamenti verificatesi in oltre 60 anni di vita del nostro codice nella realtà sociale, si picca di puntualizzare con estrema cura i presupposti dogmatici del revirement, sconfessando in particolare quegli argomenti che per l’appunto facevano leva su una lettura debordante dei principi comportamentali di correttezza e di buona fede la cui inosservanza veniva invocata addirittura in chiave estintiva del rapporto obbligatorio; e fondando invece la soluzione prescelta sul concetto, più corretto dal punto di vista dogmatico, di interpretazione evolutiva.

    2.4. La violazione di regole comportamentali fondate sulla buona fede non da luogo a nullità.

    Last (in ordine cronologico) but not least (quanto ad importanza)è certamente la sentenza n. 26724 del dicembre 2007[4].
    Le Sezioni Unite, infatti nel negare espressamente che la violazione di norme comportamentali (fondate sulla buona fede) possa dare luogo alla nullità del contratto (nel senso chiarito nella nota che precede) hanno modo di precisare che “il dovere di buona fede, ed i doveri di comportamento in generale, sono troppo immancabilmente legati alle circostanze del caso concreto per poter assurgere, in via di principio, a requisiti di validità che la certezza dei rapporti impone di verificare secondo regole predefinite”.
    Quest’affermazione, probabilmente dal sen fuggita, può essere la cartina di tornasole di una concezione più generale, foriera di implicazioni molto più rilevanti di quanto a prima vista potrebbe apparire.

    3. La buona fede quale clausola generale in ambito negoziale: il problema della completezza dell’ordinamento e gli strumenti di integrazione.

    Per comprendere appieno il senso dell’affermazione delle Sezioni Unite occorre interrogarsi sul ruolo che la buona fede assume nell’ambito dell’ordinamento.
    Sul punto in dottrina non si registra unanimità di vedute, pur potendosi osservare, anche in chiave comparatistica, delle preoccupazioni comuni, essenzialmente relative alla discrezionalità dell’interprete nella applicazione della clausola attesa la sua genericità e indeterminatezza.
    È un fatto, d’altro canto, come osserva autorevole dottrina (Alpa), che la clausola ha finito per assumere un ruolo essenziale “sia per adattare l’intero ordinamento alle nuove esigenze, economico-sociali, di cui il legislatore non può tempestivamente tener conto, sia per adattare la regola del caso alla fattispecie concreta”.
    Ciò posto, nella dottrina e nella giurisprudenza immediatamente successive all’entrata in vigore del nuovo codice le potenzialità della clausola di buona fede sono state per lungo periodo sottovalutate.
    Ciò per vari ordini di ragioni, che sinteticamente si indicano di seguito, valendosi della schematizzazione proposta da Guido Alpa: a) la scarsa dimestichezza dei giudici del tempo con la applicazione di disposizioni di contenuto indeterminato, essendo all’epoca prevalente l’indirizzo interpretativo formalistico che privilegiava l’applicazione letterale degli articoli del codice; b) la diffidenza della dottrina che tende a considerare i giudici «commessi di Stato» e a considerare l’applicazione delle clausole generali ai rapporti privati come segno di interventismo statualista negli affari; c) il timore di affidare ai giudici un potere discrezionale eccessivo.
    La situazione comincia a mutare negli anni settanta, quando la giurisprudenza inizia ad applicare la clausola con maggiore frequenza, pur se mai in modo sistematico: come è stato osservato, il ricorso alla clausola generale di buona fede raramente è determinante per la soluzione del caso concreto; spesso la citazione della buona fede è meramente esortativa o additiva, ed in alcune pronunce si tende addirittura a relegarla in una posizione marginale e sussidiaria rispetto all’applicazione di regole particolari (così specialmente in materia di interpretazione del contratto).
    Da ciò traspare con tutta evidenza un non sopito contrasto su significato e portata della clausola generale.
    Il dibattito dottrinale in materia non può essere certamente ripercorso nel breve spazio che ci consente la presente trattazione.
    Occorre dunque necessariamente essere schematici, indicando sommariamente le principali posizioni in campo e rinviando senz’altro per approfondimenti alle numerose trattazioni monografiche.
    A grandi linee, nella dottrina italiana[5], la clausola generale di buona fede può essere ed è stata intesa in tre diversi modi.
    Secondo alcuni l’obbligo di comportarsi secondo buona fede sarebbe un mera affermazione retorica, priva di un reale contenuto precettivo.
    Secondo altra tesi la buona fede avrebbe la funzione di correggere il rigoroso giudizio di formale conformità del comportamento alla legge[6].
    Altri ancora elevano la buona fede a principio generale dell’ordinamento e ne riconoscono un fondamento costituzionale[7].

    4. Nostra tesi: buona fede quale principio generale dell’ordinamento nella materia negoziale.

    A nostro avviso la clausola generale di buona fede (oggettiva) svolge nel settore negoziale quella stessa funzione che con riferimento all’ordinamento giuridico complessivamente inteso svolgono i principi generali dell’ordinamento e l’equità[8].
    È noto, infatti, che l’ordinamento normativo, ontologicamente incompleto, tende alla completezza prevedendo al suo interno degli strumenti di integrazione che possono attingere o alla stessa dimensione ordinamentale (consentendo all’interprete di desumere esso stesso la regola da applicare al caso concreto ad es. tramite il procedimento analogico, il ricorso ai principi generali o infine al c.d. argomentum e contrario), o ad ordinamenti esterni (quale ad es. quello morale, o secondo alcuni il c.d. diritto naturale).
    La buona fede sarebbe dunque uno strumento di integrazione della disciplina giuridica (necessariamente incompleta) che governa l’attività negoziale dalla fase delle trattative a quella dell’esecuzione, laddove da un lato la volontà imperativa o dispositiva della legge (che si esprime in termini generali) e dall’altro la volontà delle parti consacrata nelle clausole del contratto, risulti insufficiente.
    È discutibile se la buona fede possa ritenersi un criterio di auto o di eterointegrazione.
    Non mancano in dottrina e nella stessa giurisprudenza i tentativi di specificazione della buona fede nei predicati di schiettezza, senso di solidarietà sociale, di onestà, evocativi del tentativo di introdurre tramite tale valvola nell’ordinamento giuridico alcuni precetti propri della morale sociale (analogamente a quanto avviene con riferimento al buon costume: in particolare mentre il buon costume sarebbe applicabile a tutti i rapporti giuridici e si tradurrebbe in prescrizioni di carattere negativo, la buona fede presupporrebbe un rapporto concreto tra soggetti determinati e richiederebbe un comportamento positivo).
    Tale soluzione tuttavia non è del tutto convincente, apparendo preferibili le tesi che tendono ad individuare una dimensione esclusivamente giuridica della buona fede.
    Essa, in particolare, dovrebbe considerarsi, con riferimento alla materia negoziale, uno di quei principi generali dell’ordinamento giuridico cui testualmente fa riferimento l’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile.
    Come insegna un’autorevolissima dottrina, il ricorso ai principi generali presuppone l’incompletezza dell’ordinamento giuridico inteso quale insieme di espressioni normative dalle quali il giudice deve ricavare le norme da applicare al caso concreto. Ove manchi la disposizione normativa dalla quale ricavare la norma applicabile (all’esito del procedimento ermeneutico e del tentativo di ricorrere al c.d. argumentum a simili proprio del meccanismo dell’analogia legis), il giudice può individuare nel complesso dell’ordinamento, inteso come insieme di dati normativi “un atteggiamento, un senso, un orientamento valutativo, che può costituire criterio per la formazione della norma da parte dell’operatore” (principio generale).
    Attraverso gli strumenti della c.d. autointegrazione, dunque (argumentum a simili e ricorso ai principi generali) l’ordinamento giuridico “staticamente non completo è dinamicamente completabile”. Tale completamento tuttavia “è rimesso in ultima analisi al soggettivo apprezzamento dell’operatore-interprete e trova nell’ordinamento giuridico dato solo il punto di partenza e di riferimento”. Da ciò deriva che “il completamento dell’ordinamento giuridico attraverso gli strumenti dell’autointegrazione è sempre un completamento puntuale, episodico e occasionale, in definitiva di carattere processuale giurisdizionale”.
    In altre parole i criteri di autointegrazione offrono al giudice i criteri per individuare una norma applicabile qualora essa non risulti specificamente dall’ordinamento.
    Tale attività creativa però non potrà avere un valore generale, ma dovrà limitarsi alla disciplina del singolo caso concreto sottoposto all’attenzione del giudicante.
    Mediante le clausole generali di buona fede e correttezza[9] (artt. 1175, 1337, 1358, 1366, 1375 cc), tale “atteggiamento, senso orientamento valutativo”, che, si ribadisce, non deriva dalla contaminazione dell’ordinamento giuridico con valutazioni prettamente morali ma discende da una ricognizione delle scelte assiologiche che animano l’ispirazione di un determinato ordinamento positivo, viene in un certo modo positivizzato.
    Positivizzazione, quest’ultima, che tuttavia non riesce ad emancipare la buona fede e la correttezza dalla loro natura di principio per elevarle a norma.
    La regolamentazione di una condotta alla stregua del principio generale di buona fede e correttezza, implica, infatti un’attività creativa (e non meramente ricognitiva ed ermeneutica) della giurisprudenza, che opera però (necessariamente) non su un piano generale ed astratto ma su quello concreto della singola fattispecie da regolare.
    Ciò trova un indubbio riscontro anche nell’argomentazione di ordine storico.
    Si ricorderà infatti che nel diritto romano la buona fede (in senso oggettivo) trova il suo ambito di applicazione elettivo proprio nell’ambito del processo e in particolare nell’ambito dei c.d. iudicia bonae fidei , nei quali il giudice era chiamato a condannare il convenuto a fare o dare quidquid dare facere oportet ex fide bona. La buona fede dunque era lo strumento per attribuire rilevanza giuridica alle regole della prassi degli scambi, che tendeva sempre più ad emanciparsi dal formalismo del vetusto ius civile (applicato nei iudicia stricti iuris). La mentalità pratica dei giuristi romani consentì pienamente con uno strumento processuale ad hoc quell’opera creativa del diritto da parte del giudice, che oggi, in un sistema improntato al dogma della signoria del volere dello Stato legislatore (di volontà dello Stato quale forma di trascendenza terrena parla un’autorevole dottrina), suona quasi come un’eresia.

    5. Il contenuto della buona fede.

    Pur non essendo possibile, per definizione, individuare compiutamente, una volta per tutte la nozione di buona fede, che in quanto clausola generale è in costante divenire parallelamente al mutare delle scelte assiologiche di fondo che governano un determinato ordinamento, è tuttavia possibile esaminare in un determinato ordinamento ed in un determinato momento storico, quali contenuti essa concretamente assuma, mediante un procedimento di generalizzazione delle applicazioni che nelle singole fattispecie concrete la giurisprudenza ha fatto di tale principio.
    L’orientamento dominante in questo momento storico è quello di legare la nozione di buona fede ai principi di rilevanza costituzionale che governano le relazioni negoziali.
    In primo luogo il dovere di solidarietà sociale, espresso dall’art. 2 Cost., ed in secondo luogo il principio di libera iniziativa economica di cui all’art. 41 della carta fondamentale.
    E dunque il contenuto oggi prevalentemente accolto del principio generale di buona fede è frutto di un necessario contemperamento tra queste due disposizioni fondamentali.
    La buona fede (in senso oggettivo) può allora intendersi, aderendo all’insegnamento di un’autorevole dottrina alla stregua di “principio di solidarietà contrattuale che si specifica in due fondamentali canoni di condotta, la lealtà e la salvaguardia”[10].
    Il primo valevole essenzialmente nella fase di formazione ed attuazione del contratto, il secondo nella fase di esecuzione.
    Tale impegno di solidarietà trova tuttavia un limite nell’interesse proprio del soggetto: il soggetto sarà, infatti, tenuto a far salvo l’interesse altrui, senza tuttavia per questo subire un apprezzabile sacrificio personale ed economico.
    L’analisi del diritto vivente consente naturalmente di individuare quelli che nella prassi giurisprudenziale sono stati considerati comportamenti conformi a buona fede nell’ambito delle relazioni negoziali. Un’analisi compiuta di questo profilo tuttavia non è possibile nel limitato spazio che ci è dato in questa sede; ci si consenta dunque di rinviare per alcuni esempi alla casistica giurisprudenziale.

    6. Integrazione dell’ordinamento e certezza del diritto: punti di frizione. La soluzione delle Sezioni Unite con riferimento alla buona fede.

    Lumeggiata la natura giuridica della buona fede quale principio generale dell’ordinamento giuridico nella materia negoziale e conseguentemente la sua funzione di “autointegrazione” dell’ordinamento tramite l’opera creativa del giudice, s’impone, conclusivamente qualche ulteriore riflessione.
    Occorre, in particolare, interrogarsi sui limiti che tale sistema di integrazione (specie ove si sostanzi nell’imposizione di determinate regole di condotta) deve necessariamente incontrare in relazione all’esigenza che fa da contraltare a quella della completezza dell’ordinamento, ossia la certezza del diritto.
    È evidente, infatti, che un indiscriminato rinvio all’opera creativa della giurisprudenza tramite lo strumento dei principi generali rende quanto mai difficile ai consociati l’individuazione delle condotte giuridicamente dovute, finendo per rinnegare in ultima analisi la stessa funzione ordinante del diritto.
    Occorre dunque trovare un equilibrio tra le contrapposte esigenze della completezza (e dell’integrazione) e della certezza.
    Equilibrio che sembra perfettamente individuato dalle recenti decisioni delle Sezioni Unite.
    Se alla buona fede è oggi riconosciuto, a differenza che in passato, un contenuto precettivo e l’idoneità a fondare doveri di condotta anche al di fuori di un’espressa tipizzazione legislativa, l’esigenza di certezza del diritto viene in un certo modo recuperata sul piano dei rimedi, evitando che dalle inosservanze dei doveri imposti per mezzo della buona fede derivino conseguenze drastiche che mettano in discussione la stessa validità di rapporti giuridici formalmente creati secondo diritto.
    Si comprende, allora, alla luce delle riflessioni su esposte il senso pieno della affermazione delle Sezioni Unite dalla quale il nostro discorso ha preso le mosse a tenore della quale “il dovere di buona fede, ed i doveri di comportamento in generale, sono troppo immancabilmente legati alle circostanze del caso concreto per poter assurgere, in via di principio, a requisiti di validità che la certezza dei rapporti impone di verificare secondo regole predefinite”.
    Un primo argine, sul piano rimediale, alla capacità integrativa della buona fede è segnato dunque, nella visione della corte, dalle regole di validità del negozio, per le quali deve prevalere l’esigenza della certezza dei rapporti giuridici sulle esigenze di integrazione delle inevitabili lacune che si presentano nell’ordinamento (e che la clausola generale di buona fede tende a colmare non in via astratta ma con riferimento alle singole fattispecie concrete, tramite l’opera creativa della giurisprudenza).
    La violazione dei precetti derivanti nel caso concreto (per via del fenomeno creativo di matrice giurisprudenziale) dal principio generale di buona fede sarà allora sanzionabile solo mediante gli strumenti rimediali della responsabilità o della risoluzione, ma mai potrà riverberarsi sulla validità del negozio (sub specie di nullità).
    Alla luce della medesima ratio di certezza dei rapporti giuridici, deve leggersi l’ulteriore stop imposto dalle Sezione Unite con la decisione 26617/2007 al debordare della buona fede nella sfera delle cause di estinzione del rapporto obbligatorio.
    La Cassazione infatti afferma a chiare lettere che l’estinzione dell’obbligazione per effetto del pagamento effettuto con assegno circolare è ammissibile in base ad un’interpretazione evolutiva dell’art. 1277 cc, e non certo alla luce di una lettura estensiva del principio di buona fede e correttezza (cfr. la sentenza e la relativa nota in questa stessa rivista).
    Con la decisione 23726/2007, invece, la Suprema Corte desume dalle clausole generali di buona fede e correttezza il divieto in materia di frazionamento giudiziale del credito unitario.
    Anche qui peraltro dal percorso argomentativo della sentenza emerge limpidamente il punto di equilibrio tra le contrapposte esigenze di integrazione dell’ordinamento giuridico e di certezza del diritto.
    Le conclusioni delle sezioni unite si pongono infatti all’esito di una puntuale verifica della conformità della soluzione non formalmente vietata (per l’appunto il frazionamento del credito ai fini della tutela giurisdizionale) ai principi generali dell’ordinamento e solo di fronte all’esito negativo di tale indagine (il frazionamento cozza con i canoni del giusto processo sotto il profilo della ragionevole durata, nonché con le norme in tema di riparto di competenza per valore) la S.C. giunge a desumere la sussistenza del divieto di frazionamento del credito fondandola sulle clausole generali di buona fede e correttezza, e sulla correlata categoria dell’abuso del diritto.
    Il ricorso alle clausole generali, allora, in funzione preclusiva di comportamenti non espressamente vietati, dovrebbe configurare l’extrema ratio, l’ultimo sbarramento che l’ordinamento frappone a comportamenti che manifestamente cozzano non con i concetti vaghi di buona fede, correttezza o abuso del diritto, bensì con valori e principi fondamentali desumibili dall’ordinamento nel suo complesso, o, ancor meglio, consacrati in disposizioni puntuali e specifiche di rango primario (come avviene peraltro nel caso in esame, con le norme costituzionali in materia di giusto processo o con le regole di riparto di competenza espressione del principio del giudice naturale).
    La questione più delicata sembra dunque essere quella degli obblighi di protezione e della responsabilità derivante dal relativo inadempimento.
    In tale ipotesi, tuttavia, un problema di straripamento della buona fede sul piano della validità del negozio non si pone affatto. La funzione integrativa del principio generale è infatti limitata, nell’ambito del rimedio risarcitorio, ad una definizione dei confini tra la responsabilità contrattuale e quella aquiliana, consentendo in particolare l’individuazione giurisprudenziale di obbligazioni senza prestazione da attrarre alla disciplina di cui all’art. 1218 cc, al di fuori di un pregresso rapporto di natura contrattuale tra le parti.
    Qui, a ben vedere, sebbene chi scrive non condivida l’impostazione dogmatica di fondo volta a limitare in una prospettiva vittimologica l’ambito applicativo della responsabilità aquiliana ( rimedio elettivo per le lesioni determinate in assenza di un pregresso rapporto obbligatorio), la funzione integrativa della buona fede, sul piano rimediale, può ben essere compatibile con le esigenze di certezza giuridica cui sopra si è fatto riferimento. La condotta di chi viola gli obblighi di protezione resta infatti comunque illecita e da luogo a risarcimento tanto se si opti per la natura contrattuale quanto per quella aquiliana della relativa responsabilità. Il problema dunque non è quello di individuare il tipo di rimedio, ma di determinare la disciplina positiva alla quale l’unico rimedio risarcitorio è sottoposto.
    Luca Buffoni


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    [1]La questione che viene portata all’attenzione dei giudici di legittimità è quella relativa alla natura della responsabilità della banca girataria per l’incasso, la quale accrediti a favore di soggetto non legittimato un assegno di traenza munito di clausola di non trasferibilità, nei confronti della banca trattaria; ciò al fine di definire il regime della prescrizione, e in particolare l’applicabilità della disciplina generale ex art. 2946 cc cui è soggetta l’azione contrattuale, in luogo della prescrizione quinquennale prevista dall’art. 2947, comma 1, per l’azione volta a far valere la responsabilità aquiliana.
    Sulla questione, in effetti, si era registrato un contrasto tra le sezioni semplici.
    Le sezioni unite optano per la natura contrattuale della responsabilità.
    Il percorso argomentativo seguito è però ben distante da quello delle precedenti decisioni che in passato avevano sposato tale ricostruzione, in quanto secondo la sentenza che si annota per riconoscere natura contrattuale alla responsabilità in esame “non è necessario postulare che la banca girataria operi in veste di mandataria della banca sulla quale grava l’obbligazione cartolare di pagamento” (e dunque non è necessario postulare in capo alla banca la sussistenza di un’obbligazione contrattuale strictu sensu).
    Ricorrerebbe dunque una di quelle ipotesi, assai discusse e controverse in dottrina, di responsabilità contrattuale senza contratto, in cui l’obbligo inadempiuto discende “dall’inesatto adempimento di un’obbligazione preesistente quale che ne sia la fonte”.
    Il ragionamento delle Sezioni Unite scivola poi sulle figure riconosciute dalla giurisprudenza di responsabilità contrattuale c.d. da “contatto sociale qualificato”, con citazione dei casi paradigmatici della responsabilità del medico dipendente dell’ente ospedaliero nei confronti del paziente, o dell’insegnante per le autolesioni inflitte dal minore a sé stesso durante l’orario scolastico.
    Il tutto, a prima vista, per sostenere la vis expansiva della responsabilità contrattuale al di fuori delle ipotesi in cui l’obbligo di prestazione derivi dalla fonte contrattuale intesa in senso proprio (art. 1321 cc): per le Sezioni Unite “la distinzione tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale sta essenzialmente nel fatto che quest’ultima consegue alla violazione di un dovere primario di non ledere ingiustamente la sfera di interessi altrui, onde essa nasce con la stessa obbligazione risarcitoria, laddove quella contrattuale presuppone l’inadempimento di uno specifico obbligo giuridico già preesistente e volontariamente assunto nei confronti di un determinato soggetto (o di una determinata cerchia di soggetti)”.
    Il percorso argomentativo, peraltro, prosegue affrontando il problema dell’inadempimento delle obbligazioni nascenti “da altri fatti o atti idonei a produrli in conformità dell’ordinamento giuridico” (c.d. obbligazioni ex lege) secondo la definizione di cui all’art. 1173 n.3 cc. Ad avviso della Corte la distinzione tra le obbligazioni ex contractu ed obbligazioni ex lege, avrebbe, quantomeno – aggiungerei – con riferimento al regime della responsabilità per inadempimento, valore essenzialmente classificatorio, stante la comune soggezione al regime di cui all’art. 1218 cc.
    Tuttavia la Cassazione mostra una decisa riluttanza rispetto all’estensione dell’ambito applicativo della categoria delle obbligazioni ex lege ritenendo preferibile “circoscriverne la portata alle sole obbligazioni che con sicurezza ne costituiscono la base storica” (gestione d’affari altrui, pagamento dell’indebito, arricchimento senza giusta causa, ecc…).
    Esclusa dunque la riconducibilità della fattispecie de qua alla categoria da ultimo indicata, la S.C. (senza peraltro mai dirlo expressis verbis) pare inquadrare la responsabilità della banca girataria per violazione degli obblighi previsti dall’art. 43 l. assegni, nella responsabilità c.d. da contatto sociale, qualificato dalla relazione che intercorre tra un soggetto professionista (il banchiere) nei confronti della cerchia (non indeterminata, ma determinata) di soggetti che sono interessati alla circolazione del titolo di credito specifico (il prenditore, colui che appone sul titolo la clausola di non trasferibilità, la banca trattaria che abbia visto indebitamente utilizzata la provvista costituita presso se medesima).
    Ciò peraltro non è ancora sufficiente ad escludere la natura aquiliana della responsabilità: esistono, infatti, come osserva la Cassazione, ipotesi di responsabilità aquiliana contemplate da norme specifiche, che costituiscono specificazione del principio generale posto dall’art. 2043 cc. Il vero discrimen starebbe nel fatto che mentre la responsabilità extracontrattuale si manifesta “primariamente” con la previsione di un obbligo risarcitorio, nel caso in esame in capo al banchiere presso cui l’assegno non trasferibile è posto all’incasso sorge prima di tutto l’obbligo professionale (ricondotto alla categoria degli obblighi di protezione) di “far si che il titolo sia introdotto nel circuito di pagamento in conformità delle regole che ne presidiano la circolazione e l’incasso”, dalla cui violazione soltanto nascerebbe la responsabilità.
    [2]Le conseguenze di tale prassi sono certamente esecrabili.
    Da un lato si appesantisce la macchina giudiziaria ingolfandola di plurimi ricorsi per questioni identiche che potrebbero essere decise in un’unica istanza, in evidente dispregio del principio, oggi costituzionalizzato, della economia dei mezzi processuali (art. 111 cost.).
    Per altro verso si consente di derogare surrettiziamente alle regole di legge sulla competenza giurisdizionale, ottenendo con il frazionamento uno spostamento verso il basso (a favore del giudice di pace ed a scapito del tribunale) della competenza per valore.
    Ancora, in tal modo, si determina un aggravio della posizione del debitore tanto “per il profilo del prolungamento del vincolo coattivo cui egli dovrebbe sottostare per liberarsi della obbligazione nella sua interezza, sia per il profilo dell'aggravio di spese e dell’onere di molteplici opposizioni (per evitare la formazione di un giudicato pregiudizievole) cui il debitore dovrebbe sottostare, a fronte della moltiplicazione di (contestuali) iniziative giudiziarie”, a tutto vantaggio, aggiungerei, della categoria forense.
    [3]Con tale sentenza le Sezioni Unite pongono fine all’annoso contrasto giurisprudenziale relativo all’efficacia estintiva delle obbligazioni pecuniarie mediante il pagamento effettuato con assegno circolare.
    Sul punto infatti si erano registrati due orientamenti opposti.
    Secondo l'orientamento prevalente l'invio di assegni circolari o bancari da parte del debitore obbligato al pagamento di somme di denaro si configurerebbe come "datio in solutum" o più precisamente come proposta di "datio pro solvendo", la cui efficacia liberatoria dipende dal preventivo assenso del creditore (che può manifestarsi anche con comportamento concludente) ovvero dalla sua accettazione che è ravvisabile quando trattenga e riscuota l'assegno; in tale ipotesi la prestazione diversa da quella dovuta è da ritenere accettata con riserva, quanto al definitivo effetto liberatorio, dell'esito della condizione "salvo buon fine" o "salvo incasso" inerente all'accettazione di un credito anche cartolare, in pagamento dell'importo dovuto in numerario.
    Tale ricostruzione, tuttavia, incontra numerose obiezioni in dottrina, con particolare riguardo all’assunto in base al quale il danaro costituirebbe l’unico mezzo legale di pagamento delle obbligazioni pecuniarie.
    Tale concezione sarebbe superata nella realtà sociale e nella prassi degli scambi in cui si sono affermati una serie di mezzi alternativi di pagamento che eliminano il trasferimento materiale di moneta (come l'assegno circolare).
    Osservano le Sezioni unite che “la linea di tendenza è verso l'eliminazione degli spostamenti di moneta contante, oltre che per esigenze di semplificazione della tecnica dei pagamenti (evitando l'impiego di notevoli quantità di numerario), perché la custodia, la circolazione e lo scambio attraverso moneta contante sono valutati inefficienti ed insicuri specialmente per importi rilevanti”.
    Da ciò deriva che l'adempimento dell'obbligazione pecuniaria andrebbe inteso “non come atto materiale di consegna della moneta contante, bensì come prestazione diretta all'estinzione del debito, nella quale le parti debbono collaborare osservando un comportamento da valutare per il creditore secondo la regola della correttezza e per il debitore secondo la regola della diligenza”.
    Ai rilievi critici esposti, per vero, la giurisprudenza non era rimasta del tutto insensibile.
    Si era infatti affermato, anche in seno alla stessa giurisprudenza di legittimità, un orientamento minoritario, in base al quale la consegna di assegni circolari, pur non equivalendo a pagamento a mezzo somme di denaro, estinguerebbe l'obbligazione quando il rifiuto del creditore appaia contrario alle regole di correttezza che gli impongono di prestare collaborazione nell'adempimento dell'obbligazione a norma dell'art. 1175 c.c.
    Le sezioni unite, nel dirimere il contrasto, pur pervenendo alle conclusioni propugnate dall’orientamento minoritario non sembrano seguirne il percorso logico, affermando che l’ammissibilità dell’estinzione dei debiti pecuniari con mezzi alternativi al danaro può sostenersi solo invocando un’interpretazione evolutiva dell’art. 1277 cc. che superi il dato letterale e, cogliendone l'autentico senso, lo adegui alla mutata realtà.
    Ad avviso della Corte l'espressione "moneta avente corso legale nello Stato al momento del pagamento" significa che i mezzi monetari impiegati si debbono riferire al sistema valutario nazionale, senza che se ne possa indurre alcuna definizione della fattispecie del pagamento solutorio, con la conseguenza che la moneta avente corso legale non è l'oggetto del pagamento che è rappresentato dal valore monetario o quantità di denaro.
    Con questa interpretazione dell'art. 1277 risultano ammissibili altri sistemi di pagamento, purché garantiscano al creditore il medesimo effetto del pagamento per contanti e, cioè, forniscano la disponibilità della somma di denaro dovuta.
    Ad avviso della Corte “tale effetto sicuramente produce l'assegno circolare con il quale, stante la precostituzione della provvista, tramite l'intermediazione di una banca si realizza il trasferimento della somma di denaro con la messa a disposizione del creditore. Il rischio di convertibilità e, cioè, l'eventualità che per qualsiasi ragione la banca non sia in grado di assicurare la conversione dell'assegno in moneta legale rimane a carico del debitore, il quale si libera solo con il buon fine dell’operazione”.
    [4]Con tale decisione la Cassazione, questa volta a Sezioni Unite, tornando sulla dibattuta questione della violazione degli obblighi di informazione nel contratto di intermediazione finanziaria, ribadisce i principi già espressi dalla prima sezione con la nota sentenza 19024/2005.
    È noto che in materia si contrappongono in dottrina e nella giurisprudenza di merito diversi orientamenti, oscillanti tra la possibilità di ritenere che la violazione dell’obbligo di informazione comporti una mera violazione delle regole comportamentali imposte dalla buona fede, ponendo quindi solo un problema di responsabilità e conseguente risarcimento; e le tesi che configurano una violazione delle regole di validità del contratto nella misura in cui, il deficit informativo abbia inficiato il procedimento di formazione della volontà, determinando la nullità virtuale del contratto ex art. 1418, comma 1, c.c.
    In particolare molte sentenze di merito, hanno affermato (per vero con riferimento a fattispecie non del tutto assimilabili a quella oggetto della presente decisione) che la violazione dell’obbligo di informazione dell’intermediario sui rischi dell’operazione integra la violazione di una norma imperativa che non concerne solo la fase precontrattuale, ma anche la decisione sull’an del contrarre, elevando in tal modo la buona fede imposta nel corso delle trattative, da regola di correttezza comportamentale, a regola di validità del contratto.
    Siffatto orientamento è stato tuttavia immediatamente disatteso dalla Suprema Corte con la richiamata sentenza Cass.19024/2005 (alla quale si rinvia).
    Nel momento in cui sembrava consolidarsi l’orientamento maggioritario, fa irruzione l’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite (Cass., Sez. I, 16 febbraio 2007, n. 3683) con cui si chiede di far luce sul contrasto interpretativo concernente la possibilità che la violazione degli obblighi gravanti sulle parti nel corso delle trattative contrattuali, ed in specie la violazione degli specifici obblighi di informazione che la legge pone a carico degli intermediari finanziari nei confronti dei propri clienti, determini la nullità dei successivi contratti per violazione di norma imperativa ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c., soluzione a cui il Collegio rimettente aderisce a chiare lettere.
    Con la decisione n. 26724/2007 le Sezioni unite ribadiscono che il ricorso allo strumento di tutela della nullità radicale del contratto per violazione di norme di comportamento gravanti sull'intermediario nella fase prenegoziale ed in quella esecutiva, in assenza di disposizioni specifiche, di principi generali o di regole sistematiche che lo prevedano, non è giustificato.
    Gli ermellini confermono dunque la perdurante validità del tradizionale insegnamento per cui la violazione delle norme di comportamento, “tanto nella fase prenegoziale quanto in quella attuativa del rapporto, ove non sia altrimenti stabilito dalla legge, genera responsabilità e può esser causa di risoluzione del contratto, ove si traduca in una forma di non corretto adempimento del generale dovere di protezione e degli specifici obblighi di prestazione gravanti sul contraente, ma non incide sulla genesi dell'atto negoziale, quanto meno nel senso che non è idonea a provocarne la nullità”.
    Ciò non toglie che nella moderna legislazione (anche per incidenza della normativa europea), si assista ad uno sbiadire della tradizionale distinzione tra norme di validità e norme di comportamento conseguente ad un fenomeno di trascinamento del principio di buona fede sul terreno del giudizio di validità dell'atto; tuttavia, afferma la Corte, “sebbene sia possibile che una tendenza evolutiva in tal senso sia effettivamente presente in diversi settori della legislazione speciale, un conto è una tendenza altro conto è un'acquisizione”.
    La Cassazione, ancora, si interroga sull’ulteriore questione se un principio di segno diverso possa individuarsi nel particolare settore dei contratti dell’intermediario finanziario, pervenendo però, con diffusa argomentazione (alla quale si rinvia) alla soluzione negativa.
    Esclusa la nullità, dunque, la violazione da parte dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi d'investimento finanziario delle norme comportamentali che prescrivono doveri d'informazione del cliente (ove non siano integrati gli estremi di un vizio della volontà invalidante sotto il profilo dell’annullabilità) può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguente obbligo di risarcimento dei danni, ove tali violazioni avvengano nella fase precedente o coincidente con la stipulazione del contratto d'intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti (sempre che non siano integrati gli estremi di un vizio della volontà invalidante sotto il profilo dell’annullabilità). Alla configurazione di tale responsabilità peraltro, conformemente agli insegnamenti della migliore dottrinanon osterebbe l'avvenuta stipulazione del contratto: la violazione dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto assumerebbe rilievo “non soltanto nel caso di rottura ingiustificata delle trattative, ovvero qualora sia stipulato un contratto invalido o inefficace, ma anche se il contratto concluso sia valido e tuttavia risulti pregiudizievole per la parte rimasta vittima del comportamento scorretto; ed in siffatta ipotesi il risarcimento del danno deve essere commisurato al minor vantaggio, ovvero al maggior aggravio economico prodotto dal comportamento tenuto in violazione dell'obbligo di buona fede, salvo che sia dimostrata l'esistenza di ulteriori danni che risultino collegati a detto comportamento da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto”.
    La violazione dei doveri dell'intermediario riguardanti invece la fase successiva alla stipulazione del contratto d'intermediazione assumerebbe invece i connotati di un vero e proprio inadempimento (o non esatto adempimento) contrattuale: “giacché quei doveri, pur essendo di fonte legale, derivano da norme inderogabili e sono quindi destinati ad integrare a tutti gli effetti il regolamento negoziale vigente tra le parti. Ne consegue che l'eventuale loro violazione, oltre a generare eventuali obblighi risarcitori in forza dei principi generali sull'inadempimento contrattuale, può, ove ricorrano gli estremi di gravità postulati dall'art. 1455 c.c., condurre anche alla risoluzione del contratto d'intermediazione finanziaria in corso”.
    [5]Non può essere sottaciuto che il dibattito sulla materia de qua ha conosciuto le migliori teorizzazioni in seno alla dottrina tedesca. In particolare nella migliore dottrina germanica (Wieacker, Boehmer) sarebbero individuabili tre funzioni della clausola generale di buona fede: a) funzione applicativa del diritto, nel senso di coadiuvare il giudice nell’esplicazione del suo ufficio (si pensi ai c.d. doveri di protezione, che si affiancano alle obbligazioni dedotte in contratto, come accade per l’affermazione della responsabilità del venditore per i danni personali risentiti dal cliente a causa di vizi della cosa, o di vizi dei locali di vendita) ; b) funzione suppletiva del diritto, nel senso di consentire al giudice una interpretazione praeter legem, al fine di controllare se il comportamento delle parti sia conforme a giustizia (si pensi al principio pacta sunt servanda, che consente di ripartire il rischio tra le parti in modo da dare ingresso alla presupposizione ovvero a circostanze prevedibili ma non previste dalle parti e tali da sconvolgere l’economia del contratto; e ancora, all’exceptio doli); c) funzione correttiva del diritto, nel senso di individuare una soluzione che corregga lo strictum jus (gli esempi della terza funzione sono più difficili da individuare, perché non si deve correre il rischio di ammettere un diritto libero, che il giudice applica a propria discrezione; si pensi, tuttavia ai casi in cui le condizioni personali del debitore, di solito irrilevanti, suggeriscono di tenere conto delle circostanze di specie). (così ancora Alpa).
    [6] Questa tesi, in Italia, è stata autorevolmente sostenuta dal Natoli (L’attuazione del rapporto obbligatorio, 1974).per esemplificazioni cfr. precedente nota 5 lett. c).
    [7] Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, 1967; Alpa, Rdcomm, 1971, II, 293).
    [8] Chi scrive è perfettamente consapevole dell’insegnamento di Luigi Mengoni in punto di differenze tra la nozione di buona fede e quella di equità. In particolare l’insigne Maestro, col consueto rigore dogmatico, afferma che mentre alla buona fede dovrebbe attribuirsi una funzione essenzialmente valutativa della conformità di un comportamento alle prescrizioni ordinamentali (anche genericamente intese), l’equità consentirebbe al giudice di fare ricorso ad un potere più ampio, adattando il regolamento negoziale al fine di farvi penetrare esigenze di giustizia, tenendo conto delle circostanze peculiari del caso concreto. Tale ricostruzione, certamente corretta dal punto di vista dogmatico, non pare tuttavia essere in linea con le tendenze evolutive della più recente giurisprudenza, che tende a leggere la clausola generale di buona fede, per così dire “alla tedesca”, assegnandole una funzione correttiva dei precetti dell’autonomia privata.
    [9] Le nozioni di buona fede in senso oggettivo e correttezza devono considerarsi coincidenti. Per una distinzione cfr. tuttavia Betti, teoria generale delle obbligazioni, 1953, I, 68.
    [10] Bianca, Diritto civile III, Il contratto, 2000, 504.



     
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  2. aradia09
     
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    Seppy, è uno degli argomenti di forza di un noto corso pugliese ..
    Stamattina ne hanno parlato anche al Congresso del CNF ..
     
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  3. seppietta
     
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    Io ho fatto due temi nelle varie scuole... al congresso non ci sono stata ma ho visto i tuoi commenti su facebook, ti è piaciuto quindi! Bentrovata!!!
     
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  4. aradia09
     
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    già che ci siamo, su la dottrina di www.ildirittopericoncorsi.it c'è un articolo di Cari fresco fresco sull'argomento.... :B):

    Seppietta dove te ne vai?
     
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  5. seppietta
     
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    Nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, le parti devono comportarsi secondo buona fede, intesa nella sua accezione oggettiva, quindi come regola di condotta che si sostanzia nel principio della solidarietà contrattuale, articolandosi nei due aspetti della lealtà e della salvaguardia.1

    Come è noto, vale a contrassegnare la "trattativa", come fase preliminare rispetto alla formazione del contratto, la circostanza secondo la quale i contatti in essa ricompresi non sono ancora finalizzati alla perfezione dell'accordo, bensì all'accertamento della idoneità dello stesso a soddisfare le proprie esigenze sulla base di valutazioni di opportunità e convenienza.

    La distinzione codicistica fra "trattative" e "formazione del contratto" è essenziale per comprendere che il comportamento secondo buona fede ivi prescritto è preteso dall'ordinamento sin dall'inizio, cioè anche in una fase meramente esplorativa, che non si sia ancora espressa in atti negoziali tipici (Trib. Bari 13 maggio 2004)2.

    Anche in dottrina si è affermato che il dato testuale dell'art. 1337 cod. civ. individua accadimenti, "svolgimento delle trattative" e "formazione del contratto", che non possono leggersi quale mera endiadi, in quanto, benché le trattative siano di massima finalizzate al raggiungimento del consenso, il momento di formazione del contratto può tuttavia segnare uno stadio ulteriore e addirittura autonomo, che già presuppone una certa definizione dell'assetto di interessi divisato.

    La distinzione -si è affermato- non vuole, così, essere pedante, ma vale a definire il novero delle situazioni rispetto alle quali il precetto è operante (in tal senso, cfr. V. Cuffaro, voce "Responsabilità precontrattuale" , Enc. dir. , Milano 1988, 1265 ss.)3.

    La sentenza che si commenta offre uno spunto assai interessante perché cristallizza l’ambito di rilevanza della regola posta dall’art. 1337 c.c. , spingendosi oltre le ipotesi tipiche individuate dalla giurisprudenza e dalla dottrina laddove si è voluto tutelare l’interesse del soggetto a non essere coinvolto in trattative inutili, a non stipulare contratti invalidi o inefficaci ovvero a non subire coartazioni o inganni in ordine ad atti negoziali.

    Ma andiamo per gradi.

    Una delle ipotesi più frequenti è il cosiddetto recesso ingiustificato (o rottura ingiustificata della trattativa affidante), che si configura ogni qualvolta chi ha creato nell'altra parte un legittimo affidamento in ordine alla conclusione del contratto recede senza valide e plausibili giustificazioni, provocando un danno all'altro contraente.

    La proposta contrattuale, infatti, può essere liberamente revocata, se non ferma ex art. 1329 cod. civ., fino a quando il contratto non sia concluso e l'esercizio di tale potere non costituisce come tale violazione di un obbligo di comportamento. La responsabilità del soggetto nasce, piuttosto, laddove lo stesso abbia dolosamente o colposamente indotto l'altra parte a confidare ragionevolmente nella conclusione del contratto.

    Il comportamento doloso si configura quando il soggetto inizia o prosegue le trattative pur avendo la precisa intenzione di non giungere alla conclusione del contratto. Si ha colpa quando il soggetto non si attiene alla normale prudenza nell'indurre l'altra parte a confidare nella conclusione del contratto, cioè porta avanti le trattative senza verificare le proprie possibilità o senza avere una sufficiente determinazione.

    E' dunque principio pacifico in giurisprudenza come il recesso ingiustificato operato da una parte durante la fase delle trattative, allorché le stesse abbiano ingenerato nell'altra parte la consapevolezza circa la conclusione del contratto, dà luogo a responsabilità precontrattuale (Cass. 14 giugno 1999, n. 5830).4

    Si è affermato, altresì, che l'ingiustificata rottura delle trattative precontrattuali obbliga al risarcimento del danno solo nell'ipotesi in cui vi sia stata una lesione dell'affidamento ingenerato nella controparte, avendo le parti preso in considerazione tutti gli elementi essenziali del contratto ed essendo rimasti da definire solo i dettagli (Trib. Rimini 9 novembre 2005).

    Recentissima è, sul punto, una pronuncia della Corte di Cassazione che ha affermato che la responsabilità precontrattuale è configurabile in tutti i casi in cui un soggetto abbia compiuto azioni o sia incorso in omissioni contrastanti con i principi della correttezza e della buona fede, nell'ambito del rispetto dei principi garantiti dall'art. 2043 cod. civ. Pertanto, ai fini dell'affermazione di tale responsabilità, è sufficiente il comportamento non intenzionale o meramente colposo della parte che -senza giusto motivo- abbia interrotto le trattative, eludendo così le aspettative della controparte, la quale, confidando nella conclusione del contratto, sia stata indotta a sostenere spese o abbia rinunciato a occasioni più favorevoli. In caso di violazione della norma di cui all'art. 1337 cod. civ., il risarcimento del danno è limitato al cosiddetto "interesse negativo", con la conseguenza che esso è cumulabile con il risarcimento del maggior danno previsto dall'art. 1591 cod. civ. (Cass. 7 febbraio 2006, n. 2525).

    Altra ipotesi di responsabilità precontrattuale è offerta dalla dolosa o colposa stipulazione di contratto invalido o inefficace. La differenza con la prima specie è che, qui, l’inutilità non afferisce la trattativa bensì la stessa stipulazione del contratto.

    In detta fattispecie, ciò che rileva è la conoscenza dell’esistenza di una causa d’invalidità senza darne notizia all’altra parte, così da essere tenuta a risarcire il danno subito dall'altra parte che ha confidato, senza sua colpa, nella piena validità del contratto.

    Caso passai particolare, e comunque avente il requisito della novità rispetto a quelli affrontati dalla giurisprudenza, è stato quello che ha riguardato l’indagine dei rapporti tra l’intermediatore finanziario e il cliente, laddove sono previsti degli ulteriori obblighi di comportamento (ai sensi dell’art. 6 delle legge n. 1 del 1991,ma non diversi da quelli di cui all’art. 21 del più recente d.lgs. 58 del 1998), tutti in qualche modo finalizzati al rispetto della clausola generale consistente nel dovere per l’intermediatore finanziario di comportarsi secondo diligenza, correttezza e professionalità nella cura dell’interresse del cliente, e che si collocano in parte nella fase che precede la stipulazione del contratto di intermediazione.

    Sul punto, la Corte di legittimità (S.U., n. 26724/06), ha focalizzato la propria attenzione sul dibattito sorto intorno alla riaffermazione della tradizionale distinzione tra norme di comportamento dei contraenti e norme di validità del contratto; la violazione delle prime, tanto nella fase prenegoziale quanto in quella attuativa del rapporto, genera responsabilità e può esser causa di risoluzione del contratto, ove si traduca in una forma di non corretto adempimento del generale dovere di protezione e degli specifichi obblighi di prestazione gravanti sul contraente, ma non incide sulla genesi dell’atto negoziale, quanto meno nel senso che non è idonea a provocarne la nullità.5

    L’assunto secondo il quale, nella moderna legislazione, la distinzione tra norme di validità e norme di comportamento starebbe tuttavia “sbiadendo” a sarebbe in atto un fenomeno di trascinamento del principio di buona fede sul terreno del giudizio di validità dell’atto non è sufficiente a dimostrare il già avvenuto sradicamento dell’anzidetto principio nel sistema del codice civile.

    E’ certo possibile, secondo il ragionamento seguito dai giudici della Corte, che una tendenza in tal senso sia effettivamente presente in diversi settori della legislazione speciale, ma occorre distinguere tra”tendenza” ed “acquisizione”, giungendo a concludere nel senso di escludere che nel settore della intermediazione finanziaria possa sussistere un principio di segno diverso, tale, cioè, di derogare al criterio di distinzione sopra tracciato tra norme di comportamento e norme di validità degli atti negoziali così da condurre ad una differente conclusione, dal momento che non è dato rinvenire indici univoci dell’intenzione del legislatore di trattare sempre e comunque le regole di comportamento, ivi compresi quelli riguardanti i doveri di informazione dell0’altro contraente, alla stregua di regole di validità dell’atto.

    La responsabilità in caso di contratto perfezionato

    Con un primo orientamento giurisprudenziale, seppur risalente, si era affermato il principio secondo il quale l’intervenuta conclusione del contratto escludeva la configurabilità della responsabilità prevista dall’art. 1337 c.c. (Cass. 23 dicembre 1950, n. 2820, Giur. It., 1951, I, 1, 484).

    Detto orientamento veniva ribadito (Cass. 19 maggio 1971, n. 1499, Foro pad. 1973, I, 1, 1486) e precisato come l’illecito comportamento presuppone che il contratto non sia stato validamente concluso, pur se sia stato già raggiunto un accordo di massima o anche un accordo completo, non espresso nelle forme di legge.

    Si precisava come qualora le trattative abbiano portato alla conclusione di un valido contratto, ai fini di una responsabilità per danni assume rilevanza solo l’inadempimento di obbligazioni nascenti dal contratto e non è più configurabile una responsabilità precontrattuale la quale trae origine da una fonte diversa e non può ritenersi in nessun caso “un precedente logicamente necessario” della responsabilità contrattuale (Cass. 21 maggio 1976, 1842)6.

    Tale orientamento negazionista nel senso che, in caso di violazione delle norme che impongono alle parti comportarsi secondo buona fede nel corso delle trattative e nella formazione del contratto, alla parte danneggiata, quando il contratto sia stato validamente concluso, non attribuiva alcuna possibilità di ottenere il risarcimento dei danni subiti, poggiava, quindi, sull'assunto che l'ambito di rilevanza della responsabilità contrattuale sia circoscritto alle ipotesi in cui il comportamento non conforme a buona fede abbia impedito la conclusione del contratto o abbia determinato la conclusione di una contratto invalido ovvero (originariamente) inefficace. Di qui la conclusione che, dopo la stipulazione del contratto, ogni questione relativa all'osservanza degli obblighi imposti alle parti nel corso delle trattative sarebbe preclusa, in quanto la tutela del contraente sarebbe affidata, a partire da quel momento, solo alle norme in tema di invalidità e di inefficacia del contratto, la cui applicazione, pur essendo in alcuni casi ricollegata a comportamenti certamente non conformi a "buona fede", è tuttavia subordinata alla ricorrenza di presupposti ulteriori (artt. 1434-1437, 1439, 1447-1448).

    Successivamente, si chiariva come l'ambito di rilevanza della regola posta dall'art. 1337 c.c. va ben oltre l'ipotesi della rottura ingiustificata delle trattative e assume il valore di una clausola generale, il cui contenuto non può essere predeterminato in maniera precisa, ma certamente implica il dovere di trattare in modo leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o anche solo reticenti e fornendo alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o anche solo conoscibile con l'ordinaria diligenza, ai fini della stipulazione del contratto.

    Con la sentenza n. 19024 del 20057, secondo la Corte di Cassazione, anche alla luce delle ragioni poste dalla migliore dottrina, la violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto assume rilievo non soltanto nel casi di rottura ingiustificata delle trattative, ovvero qualora sia stipulato un contratto invalido o inefficace, ma anche se il contratto concluso sia valido e tuttavia risulti pregiudizievole per la parte rimasta vittima de comportamento scorretto, ragguagliando il risarcimento del danno al minor vantaggio o al maggior aggravio economico determinato dal comportamento scorretto tenuto in violazione dell’obbligo di buona fede, salvo che sia dimostrata l’esistenza di ulteriori danni che risultino collegati a detto comportamento da un rapporto “rigorosamente consequenziale e diretto”(Cass. 29 settembre 2005, n. 19024).

    Le sentenze n. 26724 e 26725 del 2006

    Come accennato in precedenza, se fino ad un recente passato, i principali leading case in tema di responsabilità contrattuale e di violazione del principio di buona fede rientravano negli ambiti delle compravendite immobiliari ovvero nei rapporti commerciali, la diffusione dell’attività di intermediazione finanziaria ha consentito di cristallizzare il principio richiamato nella sentenza n. 19024/06.

    Difatti, il percorso argomentativo che ha animato detta decisione ha ricevuto continuità nelle sentenze 19 dicembre 2007, n. 26724/068 e n. 26725/06 che hanno chiarito come:
    a. la violazione dei doveri d'informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico degli intermediari nello svolgimento dei servizi di investimento può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguente obbligo di risarcimento dei danni, ove tali violazioni avvengano nella fase precedente o coincidente con la stipulazione del contratto d'intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti; può, invece, dar luogo a responsabilità contrattuale ed eventualmente condurre alla risoluzione del predetto contratto, ove si tratti di violazioni riguardanti operazioni di investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto d'intermediazione finanziaria in questione. In nessun caso, in difetto di previsione normativa in tal senso, la violazione dei suaccennati doveri di comportamento può, però, determinare la nullità del contratto d'intermediazione o dei singoli atti negoziali conseguenti, a norma dell'articolo 1418, comma 1, del Cc;
    b. il compimento delle operazioni relative alla prestazione dei servizi di investimento, ancorché queste possano a loro volta consistere in atti di natura negoziale (ma è significativo che la norma le definisca col generico termine di operazioni), si pone pur sempre come momento attuativo di obblighi che l'intermediario ha assunto all'atto della stipulazione col cliente del contratto quadro. Il divieto di compiere operazioni inadeguate o in conflitto d'interessi attiene, perciò, anch'esso alla fase esecutiva di detto contratto, costituendo, al pari del dovere d'informazione, una specificazione del primario dovere di diligenza, correttezza e professionalità nella cura degli interessi del cliente. Il modo stesso in cui la norma è formulata e l'esplicito accostamento dei suaccennati doveri di informazione e di cura dell'interesse del cliente, nel compimento delle singole operazioni, denota come il Legislatore abbia qui sempre voluto contemplare obblighi di comportamento precontrattuali e contrattuali, non già regole di validità del contratto, sia esso il contratto quadro d'intermediazione finanziaria o i singoli negozi con cui a quello viene data esecuzione.

    Le due pronunce delle Sezioni unite sono state generalmente ben accolte dalla dottrina; non sono mancate, tuttavia, perplessità e voci di aperto dissenso (si veda il paragrafo 3 della relazione - Sintesi dei contributi dottrinali a commento di Cassazione sezione Unite n. 26724 o n. 26725 del 2007).

    Si è precisato che la violazione dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto assume rilievo nel caso di rottura ingiustificata delle trattative, ovvero qualora sia stipulato un contratto invalido o inefficace e anche, quale dolo incidente, se il contratto concluso sia valido e tuttavia risulti pregiudizievole per la parte rimasta vittima del comportamento scorretto; in tale ipotesi il risarcimento del danno deve essere commisurato al "minor vantaggio" ovvero al "maggior aggravio economico" prodotto dal comportamento tenuto in violazione dell'obbligo di buona fede, salvo che sia dimostrata l'esistenza di ulteriori danni che risultino collegati a detto comportamento da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto (Trib. Firenze 18 ottobre 2005).

    Con la sentenza n. 24795/08 in commento, tale principio si consolida sia con riferimento alla misura del danno risarcibile sia avendo a riguardo alla possibilità di veder integrata la violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede allorquando il contratto risulti concluso, valido ed efficace ma tuttavia risulti pregiudizievole per la parte vittima del comportamento scorretto.

    Più segnatamente, il comportamento di una società di leasing che abbia omesso di informare la controparte circa la già avvenuta sospensione delle agevolazioni fiscali di cui alla legge n. 341 del 1995, circostanza questa aggravata dall’aver fornito assicurazioni circa la possibilità di far ricorso alle dette agevolazioni,per le quali la controparte medesima si era indotta alla stipula del contratto di locazione finanziaria, costituisce una estensione delle ipotesi sintomatiche concepite in tema di responsabilità precontrattuale.

    Del resto, la società di leasing ha perfettamente assunto il ruolo di “parte reticente”, manifestatosi nel doloso comportamento negativo di serbare silenzio in ordine a circostanze o situazioni giuridiche che potevano influire sulla conclusione del contratto e generando, al contempo, nell’altra parte il ragionevole affidamento circa l’insussistenze delle medesime.

    Considerazioni conclusive

    Nel corso della breve esposizione si è evidenziato come, di regola ovvero nella prassi, la responsabilità precontrattuale presuppone la mancata stipulazione di un contratto, o la stipulazione di un contratto invalido, escludendosi per converso l'insorgere della predetta responsabilità in tutte quelle ipotesi in cui comunque le parti addivengano alla stipulazione del contratto.

    La giurisprudenza prevalente, per diverso tempo, ha inteso avallare tale impostazione, considerando l'intervenuta conclusione negoziale come preclusiva per l'affermazione di un giudizio di responsabilità contrattuale, a nulla rilevando - salva l'applicazione dell'art. 1440 cod. civ. - l'eventuale danno rappresentato dalla conclusione di un negozio a condizioni diverse da quelle che si sarebbero avute se una delle parti avesse tenuto un comportamento conforme a buona fede.

    Tuttavia, da ultimo, lo stesso giudice di legittimità, e la sentenza in commento costituisce la fase conclusiva di tale revirement, ha di recente temprato il rigore del principio precisando che l'intervenuta conclusione del contratto in tanto può escludere l'obbligo risarcitorio per violazione del dovere di correttezza, in quanto si versi nell'ipotesi di responsabilità conseguente ad ingiustificata rottura delle trattative. In altre ipotesi, invece, in presenza di un comportamento contrario a buona fede, l'eventuale stipulazione del contratto non ha effetto sanante, non risultando perciò idonea ad escludere la responsabilità precontrattuale. Sotto tale aspetto, la giurisprudenza (Cass. n. 19024/2005) ha ulteriormente ribadito e specificato come la violazione della regola posta dall'art. 1337 cod. civ. assume rilievo non solo nel caso di rottura ingiustificata delle trattative (e, quindi, di mancata conclusione del contratto) o di conclusione di un contratto invalido o comunque inefficace (artt. 1338 e 1398 cod. civ.), ma anche quando il contratto posto in essere sia valido, e tuttavia pregiudizievole per la parte vittima del comportamento scorretto (come nel caso del dolo incidente ex art. 1440 cod. civ.).

    In tal caso, poi, sul fronte prettamente risarcitorio, il risarcimento del danno derivante da un contratto valido ed efficace ma "sconveniente", pur non potendo essere commisurato al pregiudizio derivante dalla mancata esecuzione del contratto posto in essere (il ben noto c.d. interesse positivo), non può neppure essere determinato, avuto esclusivo riguardo all'interesse della parte vittima del comportamento doloso o, comunque non conforme a buona fede, a non essere coinvolta nelle trattative, in quanto in tale ipotesi il contratto è stato validamente concluso, sia pure a condizioni diverse da quelle alle quali esso sarebbe stato stipulato senza l'interferenza del comportamento scorretto. Ne consegue che, in tale ipotesi, il risarcimento, deve essere ragguagliato al "minor vantaggio o al maggiore aggravio economico" determinato dal contegno sleale di una delle parti, salvo la prova di ulteriori danni che risultino collegati a tale comportamento "da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto".

    In altri termini, quindi, la stipulazione di un contratto valido ed efficace non costituisce un limite alla proposizione di un'azione risarcitoria fondata sulla violazione della regola posta dall'art. 1337 cod. civ. o di obblighi più specifici riconducibili a detta disposizione, a condizione tuttavia che il danno trovi il suo fondamento, non già nell'inadempimento di un'obbligazione derivante dal contratto, ma nella violazione di obblighi relativi alla condotta delle parti nel corso delle trattative e prima della conclusione del contratto medesimo.

    (Altalex, 15 aprile 2009. Nota di Alberto Cuccuru)

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    1 Sulla responsabilità contrattuale e sulla indagine circa la sua natura giuridica l’elencazione dei relativi contributi diviene assai difficile; una sorta di primogenitura, per la dottrina italiana anteriore al codice vigente, spetta a Verga, Errore e responsabilità nei contratti, Padova, 1941; Segrè, in Rdcomm., 1925, II, 633; più recente, cfr. Benatti, La responsabilità precontrattuale, Milano, 1963; Sacco, Il contratto, 919; Visentini, La reticenza nella formazione dei contratti, Padova, 1972; Bianca, Il contratto, vol. 3, pag. 159; Cuffaro, voce responsabilità precontrattuale,Enc. Dir. XXXIX, 1265, Milano; G. Stella Richter, la responsabilità precontrattuale, Torino, 1997.



    2 Secondo una parte della più antica giurisprudenza il rifiuto di proseguire le trattive è fonte di responsabilità, per mala fede e la scorrettezza che gli stanno alla base, quando sia manifestazione di una condotta maliziosamente preordinata (cfr. cass. 5 giugno 1952, n. 1599); ma già Cass. 30 marzo 1954, n. 982, Giur. Compl. Cass. Civ. 1954, IV, 215, con nota di Granata, affermava che il dovere di buona fede nelle trattative è violato anche se il comportamento tenuto sia oggettivamente contrastante con il dovere giuridico generale di correttezza imposto in tema di obbligazioni.



    3 In questa sede non sembra il caso di evocare i termini del dibattito sorto intorno alla indagine sulla natura giuridica della responsabilità precontrattuale: mi limito a mentovare come una giurisprudenza risalente ritenva la natura extracontrattuale della responsabilità regolata dall’art. 1337 c.c. (Cass. 20 luglio 1943, n. 1892; 3 luglio 1964, n. 1738; 14 ottobre 1966, n. 2459; 28 gennaio 1972, n. 199) ; in dottrina, fra gli altri sostiene la natura contrattuale della responsabilità in argomento, Benfatti, op. cit.,; sostiene, invece, la natura extracontrattuale Patti, Il codice cvile. Commentario diretto da P. Schesinger, sub art. 1337, Milano, 1993.



    4 Ovviamente, allorquando l’interruzione delle trattative contrattuali è fondata su giusta causa, non si ha violazione del principio della buona fede con conseguente responsabilità, in quanto in tal caso la parte che interrompe le trattative stesse non arreca alcun sacrificio al ragionevole affidamento che la controparte aveva fatto sulla conclusione del contratto, cfr. Cass. 26 giugno 1985, n. 399.



    5 Del resto, che tale distinzione, sovente ribadita anche dalla dottrina, sia fortemente radicata nei principi del codice civile è difficilmente contestabile.



    6 Prendendo spunto dalla sentenza della Cassazione (la n. 4473 del 12.07.1980), qualche autore, cfr. Patti, op. cit., 98, dopo aver osservato che i giudici di legittimità nella menzionata sentenza non si erano discostati da un’ipotesi di responsabilità precontrattuale nell’ambito delle trattative relative alla stipula di un contratto di rinnovazione, sosteneva come la norma in questione sanzionava tutti i comportamenti contrati alla buona fede, indipendentemente dal fatto che il contratto sia stato o meno stipulato, e in caso di conclusione, se esso sia o meno valido.



    7 La Sentenza 19024/2005 è stata ulteriormente massimata e pubblicata in:
    Ipsoa, Il Corriere Giuridico, 2006, 5, pg. 669, annotata da G. Genovesi
    Ipsoa, Danno e Responsabilità, 2006, 1, pg. 25, annotata da V. Roppo - G. Afferni.



    8 La Sentenza s.U. 26724/07 è stata ulteriormente massimata e pubblicata in:
    Ipsoa, Il Corriere Giuridico, 2008, 2, pg. 223, annotata da V. Mariconda
    Ipsoa, I Contratti, 2008, 3, pg. 229, annotata da V. Sangiovanni
    Ipsoa, Le Società, 2008, 4, pg. 449, annotata da V. Scognamiglio
    Ipsoa, Le Società, 2008, 5, pg. 571, annotata da V. Carbone
    Ipsoa, I Contratti, 2008, 5, pg. 488.




    Civile | Responsabilità civile

    SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

    SEZIONE III CIVILE

    Sentenza 8 ottobre 2008, n. 24795

     
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  6. seppietta
     
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    CASSAZIONE TRIBUTARIA:
    NOZIONE DI ABUSO DI DIRITTO

    Richiamando l'orientamento espresso dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 30055 del 23 dicembre 2008 in materia di abuso di diritto, la Sezione Tributaria Civile ha rilevato che "il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un'agevolazione o un risparmio d'imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici. Tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati, nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell'imposizione, e non contrasta con il principio della riserva di legge, non traducendosi nell'imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge stessa, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l'applicazione di norme fiscali. Esso comporta l'inopponibilità del negozio all'Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall'operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell'operazione".

    (Corte di Cassazione - Sezione Tributaria Civile, Sentenza 13 maggio 2009, n.10981: Abuso di diritto).



     
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  7. seppietta
     
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    Articolo 05.10.09
    Diligenza e colpa nella responsabilità contrattuale

    Avv. Paolo Fais


    1. La diligenza di cui all'art. 1176 c.c.
    2. Criterio di valutazione dell'adempimento
    3. Criterio di imputazione dell'inadempimento
    4. Criterio di imputazione delll'impossibilità della prestazione
    Bibliografia


    1. La diligenza di cui all'art. 1176 c.c.

    L'art. 1176 c.c. dispone che “nell'adempiere l'obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia”; il secondo comma prescrive che “nell'adempimento delle obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attivita` professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata”.

    Secondo la Relazione al codice civile la diligenza consiste in “quel complesso di cure e di cautele che il debitore deve impiegare per soddisfare la propria obbligazione”.

    Il criterio della diligenza esprime un modello ideale di comportamento a cui il debitore deve uniformarsi nell'adempiere l'obbligazione.

    Tale modello (MaBfigur) viene ricostruito avendo riguardo all'uomo medio (bonus pater familias[1]): la diligenza del buon padre di famiglia, precisa la dottrina, non è un criterio statistico[2], bensì deontologico[3].

    In realtà, non si tratta di un'unica figura indifferenziata, bensì di una serie di diversi modelli ideali[4] che vengono determinati in riferimento, per lo più, all'attività svolta dai singoli soggetti coinvoli: il buon banchiere, il buon costruttore, il buon professionista, il buon automobilista, etc[5].

    Ogni modello impone il proprio standard[6]; attraverso tale modello, la regola della diligenza trova la sua concretizzazione[7].

    Dicendo che il debitore “nell'adempiere l'obbligazione deve usare la diligenza del buon padre di famiglia”, si intende che il debitore è obbligato ad osservare una condotta conforme allo standard di riferimento.

    Pena l'inadempimento e, al tempo stesso[8], la colpa.

    La diligenza svolge, infatti, più di un ruolo nell'area della responsabilità contrattuale: essa è criterio di determinazione delle modalità della prestazione, criterio di imputazione dell'inadempimento e criterio di imputazione dell'impossibilità della prestazione.


    2. Criterio di valutazione dell'adempimento.

    La regola della diligenza riguarda, anzitutto, il giudizio sull'adempimento del debitore.

    L'adempimento è l'esatta esecuzione della prestazione[9]: “l'esattezza della prestazione deve essere valutata rispetto a diversi criteri, che sono (a) le modalità della esecuzione, (b) il tempo dell'esecuzione, (c) il luogo dell'esecuzione, (d) la persona che esegue la prestazione, (e) la persona destinataria della prestazione, (f) l'identità della prestazione” (Galgano 1999, 197).

    Per valutare se la prestazione del debitore sia stata esattamente eseguita (in specie, sotto il profilo qualitativo), è necessario fare riferimento al criterio della diligenza[10]: l'esecuzione non diligente di una prestazione equivale ad inadempimento.

    Ciò vale, in particolare, con riguardo alle obbligazioni di mezzi[11], ove “il giudizio sull'inadempimento per definizione fa corpo con l'agire negligente, essendo per contrapposto l'agire diligente la materia dell'obbligazione” (Di Majo 2006, 40): l'adempimento presuppone l'osservanza della diligenza[12] prescritta dall'art. 1176 c.c.; così come, per contro, l'inosservanza della diligenza prescritta dall'art. 1176 c.c. determina l'inadempimento.

    Ciò è confermato dalla giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità del medico, del notaio, dell'avvocato, del mandatario professionista, dell'agente di assicurazione, della banca, etc.: “in queste obbligazioni [si intende, di mezzi] in cui l'oggetto è l'attività, l'inadempimento coincide con il difetto di diligenza nell'esecuzione della prestazione” (Cass. civ., Sez. III, 09/11/2006, n.23918); “la diligenza assume nella fattispecie un duplice significato: parametro di imputazione del mancato adempimento e criterio di determinazione del contenuto dell'obbligazione” (Cass. civ., Sez. III, 13/01/2005, n.583).

    La diligenza è criterio di determinazione della prestazione anche in relazione alle obbligazioni di risultato: “con riguardo all'obbligazione dell'appaltatore, ad es., (...) l'esattezza della prestazione deve infatti essere pur sempre verificata alla stregua dell'adeguato sforzo tecnico e dei risultati che normalmente si realizzino con l'impiego di tale sforzo: si giudicherà allora, tra l'altro, se l'opera sia stata eseguita a regola d'arte” (Bianca 2008, 90).

    Poniamo ad esempio che l'attore-creditore lamenti un'inesatta esecuzione della prestazione per mancato rispetto delle regole c.d. dell'arte; se il debitore-convenuto fornisce la prova in giudizio della sua diligenza, ovviamente, egli non sarà tenuto a risarcire danno alcuno, poichè ha provato l'adempimento, fatto estintivo dell'obbligazione.


    3. Criterio di imputazione dell'inadempimento.

    La diligenza rappresenta altresì criterio di imputazione dell'inadempimento al debitore.

    L'inosservanza della diligenza, infatti, costituisce colpa[13]: se il debitore tiene una condotta difforme da quella imposta dall'ordinamento attraverso la regola della diligenza, egli versa in colpa[14].

    Il giudizio di colpevolezza consiste nella difformità della condotta da un modello ideale di riferimento[15].

    Il primo comma dell'art. 1176 c.c. prende in considerazione le prestazioni non tecniche, prevedendo che il criterio normale della colpevolezza è quello della negligenza; il secondo prende in considerazione le prestazioni tecniche, stabilendo che, in questo caso, la misura della colpa deve essere desunta dalle regole dell'arte: il riferimento è pertanto all'imperizia[16].


    4. Criterio di imputazione delll'impossibilità della prestazione.

    In base all'art. 1218 c.c., il debitore “è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo[17] è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”[18].

    Sulla nozione di causa non imputabile non esiste una definizione legislativa, nè identità di vedute negli interpreti[19].

    La giurisprudenza utilizza il criterio della diligenza per valutare se la causa che ha determinato l'impossibilità della prestazione debba essere imputata al debitore, oppure no: la causa non è imputabile quando è imprevedibile o, quantomeno, inevitabile da parte del debitore[20]; in quest'ottica, l'imprevedibilità e l'inevitabilità sono intesi come endiadi designanti complessivamente la mancanza di colpa.

    La diligenza, quindi, rappresenta il criterio[21] per la valutazione del comportamento del debitore in relazione alla sopravvenuta impossibilità della prestazione[22] (cioè, in ultima analisi, per la decisione in ordine alla sussitenza della responsabilità dell'obbligato oppure no).



    Bibliografia:

    BIANCA C.M.

    2008

    Diritto civile, IV, L'obbligazione, Giuffrè, Milano.

    CABELLA PISU L.

    2009-1

    La causa non imputabile, in Inadempimento e rimedi, Trattato della responsabilità contrattuale diretto da Visintini G., I, CEDAM, 229-267.

    CANNATA C.A.

    2005

    Le obbligazioni in generale, in Trattato di diritto privato diretto da Rescigno P., 9, Utet, Torino.

    2006-1

    Responsabilità contrattuale nel diritto romano medioevale, e moderno, in Digesto delle Discipline Privatistiche, Sezione Civile, XVII, 2006, UTET, 66-82.

    CASTRONOVO C.

    1979

    Problema e sistema nel danno da prodotti, Giuffrè.

    D'AMICO G.

    2006

    Negligenza, in Digesto delle Discipline Privatistiche, Sezione Civile, XII, UTET, 24-47.

    DI MAJO A.

    2006

    Responsabilità contrattuale, in Digesto delle Discipline Privatistiche, Sezione Civile, XVII, UTET, 25-66.

    GALGANO F.

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    Diritto privato, Cedam, Padova.

    GIORGIANNI M.

    1958

    Buon padre di famiglia, in Novissimo Digesto italiano, II, Torino, 596 ss.

    MARINUCCI G.

    1965

    La colpa per inosservanza di leggi, Milano.

    MONATERI P.G.

    2006

    La responsabilità civile, Utet, Torino.

    OSTI G.

    1967

    Impossibilità sopravveniente, in Novissimo Digesto italiano, VIII, Torino.

    VISINTINI G.

    2009

    Un nuovo approccio al tema dell'inadempimento, prefazione al Trattato della responsabilità contrattuale diretto da Visintini G., I, CEDAM, XXI-XXVI.

    VISINTINI G. e CABELLA PISU L.

    2005

    L'indadempimento delle obbligazioni in Trattato di diritto privato diretto da Rescigno P., 9, Utet, Torino.
    [1] L'art. 1176 c.c. indica lo standard del buon padre di famiglia: Talis diligentia praestanda est, qualem quisque diligentissimus paterfamilias suis rebus adhibet, Gaio, D. 13, 6, 18.

    [2] L'uomo medio, cioè, non è l'uomo comune, il c.d. italiano medio di fantozziana memoria: “(...) e quel mercoledì sera davanti alla televisione Inghilterra-Italia da Wembley inizio previsto in telecronaca diretta ore 20,30. Aveva un programma formidabile: alle 8 a casa, la Pina gli preparava un tavolinetto di fronte al televisore, calze, mutande, vestaglione di flanella, frittata di cipolle per la quale andava pazzo, bicchiere di Peroni gelata, tifo indiavolato e rutto libero” (Villaggio P., Il secondo tragico libro di Fantozzi, Rizzoli Editore, Milano, 1974, 23); il riferimento è piuttosto alla mesòtes di Aristotele oppure all'aurea mediocritas di Orazio: “auream quisquis mediocritatem diligit” (Odi, II, 10).

    [3] Cfr. Giorgianni 1958, 596, secondo cui tale criterio indica “ciò che in una determinata situazione, secondo una retta coscienza sociale, può essere preteso da un buon debitore di quel tipo di obbligazioni”.

    [4] La pluralità di modelli, tuttavia, non scalfisce l'unitarietà di concetto.

    [5] “Chi dispone tegole sul tetto – anche se si tratta del padrone di casa – sarà giudicato col metro dell'operaio specializzato, esperto e accorto; chi si pone alla guida di un autoveicolo – anche se non è convenientemente addestrato... - dovrà comportarsi come un esperto e accorto automobilista: quel che conta, invero, è il fatto che una persona abbia agito come membro di un determinato gruppo sociale. E' decisiva, cioè, l'assunzione obiettiva dei compiti e dei doveri di un dato modello di diligenza – perchè con l'ingresso in un circolo di rapporti si garantisce, per così dire, di essere in grado di riconoscere e di affrontare i pericoli secondo lo standard di diligenza del circolo” (Marinucci 1965, 194).

    [6] Inteso come l'insieme di doveri di comportamento.

    [7] “La nozione di colpa civile oggi prevalente in giurisprudenza identifica tale elemento con la violazione di uno standard di diligenza” (Monateri 2006, 32).

    [8] “Quanto alla nozione di colpa contrattuale non è qualcosa di diverso dall'inadempimento, e laddove si voglia attribuirle un'autonomia concettuale rispetto a quest'ultimo, rischia di apparire un concetto inutile e superfluo, ma occorre fare i conti con gli usi inveterati del nostro linguaggio giuridico e, dunque, non potendo discostarsene, occorre fare chiarezza su certi concetti e circoscriverne il ricorso laddove essi presentano un'utilità. In particolare, nel terreno che ci interessa, la nozione di colpa-negligenza rileva quando l'impegno assunto dal debitore consiste in una attività di cui si deve misurare la conformità a certi standard” (Visintini 2009, XXII).

    [9] “La definizione usuale, tratta a contrario dal dettato dell'art. 1218, di “esatta esecuzione della prestazione dovuta”, è pure corretta, sol che si tenga presente che essa si riferisce propriamente ai singoli comportamenti esigibili quali oggetto del dovere di eseguire la prestazione principale e le prestazioni accessorie; i doveri sussidiari, infatti, non possono essere eseguiti o non eseguiti, ma solo rispettati o meno. Però, ripeto, la dizione “esatta esecuzione della prestazione dovuta” è corretta, poichè i doveri sussidiari non vengono in considerazione in relazione all'adempimento, ma solo in relazione all'inadempimento” (Cannata 2005, 70).

    [10] Ex art. 1176 c.c. “nell'adempiere l'obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia”; cfr. D'Amico 2006, 41: “la prestazione dovuta dal debitore, infatti, non è un qualcosa che possa concepirsi a prescindere dalla diligenza”.

    [11] Rectius, alle obbligazioni di fare con particolare struttura di obbligazioni di condotta (o di mezzi). Beninteso, il riferimento alla condotta o al risultato attiene alla mera identificazione della prestazione ma non comporta deroga alcuna alla regola della responsabilità per inadempimento.

    [12] “In tali casi il criterio di imputazione del danno, nella specie della colpa, viene ricondotta alla nozione del dovere di prestazione; il che non è totalmente estraneo alla nostra cultura: nella giurisprudenza romana classica, il verbo della prestazione, “praestare”, esprimeva “le prestazioni sussidiarie che corrispondono ai criteri di responsabilità o alle obbligazioni di garanzia (praestare dolum, culpam, casum, evictionem, ecc.). D'altra parte, l'idea che questi doveri connessi con i criteri di responsabilità abbiano ruolo sussidiario rispetto a quelli di eseguire prestazioni materiali che interessano direttamente il creditore, risulta dal fatto che nelle formule delle azioni in personam il verbo praestare non viene impiegato (...) il che precisamente significa che l'attore non potrà esperire un'azione lamentando in modo autonomo la violazione da parte del convenuto di un obbligo diverso da quello di dare o fare” (Cannata 2006-1, 71).

    [13] Così, letteralmente, Cass. civ., Sez. III, 9/11/2006, n.23918: “La colpa è inosservanza della diligenza richiesta”.

    Sulla definizione legislativa della colpa, cfr.: “una definizione legislativa della colpa si ritrova soltanto all'art. 43 3° co. c.p., secondo cui si ha delitto “colposo, o contro l'intenzione, quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per l'inosservanza di leggi e regolamenti, ordini o discipline”. Occorrerà vedere come questa definizione valga per l'ordinamento civile.

    Si intende per negligenza la violazione delle regole sociali che descrivono la condotta di un soggetto attento ed oculato nel raggiungimento dei suoi fini. L'imprudenza è la violazione delle modalità imposte dalle regole sociali per l'espletamento di certe attività. Costituisce invece imperizia la violazione delle regole tecniche generalmente seguite in un certo settore.

    L'uomo che entrando in un negozio urta un vaso cinese è negligente, chi va in bici con le mani dietro la schiena è imprudente, e la guida alpina che pianta male i chiodi è imperita” ( Monateri 2006, 28)

    [14] L'inosservanza della diligenza dovuta è inesatto adempimento e, insieme, colpa. Si utilizza la locuzione “inadempimento imputabile”; non sarebbe tuttavia errato dire, in forma meno ridondante, inadempimento tout court.

    [15] Cfr. Monateri 2006, 28 ss.

    [16] Non vi è dubbio infatti che la perizia sia riconducibile alla generale nozione della diligenza, di cui rappresenta una specificazione: “nella diligenza è compresa anche la perizia da intendersi come conoscenza ed attuazione delle regole tecniche proprie di una determinata arte o professione” (Cass. civ., Sez. III, 13/01/2005, n.583); in dottrina, cfr. Bianca 2008, 95, e, più diffusamente, D'Amico 2006, 43 ss.

    [17] I criteri di imputazione della responsabilità per inadempimento e di quella per ritardo sono identici.

    [18] L'art. 7.1.7 dei Principi Unidroit esonera da responsabilità la parte inadempiente che provi “che l'inadempimento era dovuto ad un impedimento derivante da circostanze estranee alla sua sfera di controllo e che non era ragionevolmente tenuta a prevedere tale impedimento al momento della conclusione del contratto o ad evitare o superare”.

    [19] In dottrina si perpetua il dualismo tra sostenitori di una concezione soggettiva e fautori di una concezione oggettiva: “in ordine alla nozione di causa non imputabile, persiste un dualismo di posizioni dottrinali, l'uno soggettivo che riduce sostanzialmente la causa non imputabile ad una assenza di colpa del debitore, l'altro, oggettivo, che equipara la causa non imputabile ad un impedimento estraneo alla persona del debitore ed alla sua sfera economica” (Visintini e Cabella Pisu 2005, 216); il che, peraltro, non necessariamente significa sostenere due tesi diverse: dipende ovviamente dalla concezione che si abbia della colpa.

    Per una esauriente analisi delle posizioni della dottrina, cfr. Cabella Pisu 2009-1, 229 ss., che così sintetizza: “(...) dalla riflessione sulle varie teorie, oggettive e soggettive, circa il criterio di imputazione della causa d'impossibilità al debitore, è inoltre emersa una sostanziale convergenza nel ritenere non imputabile quel fatto impeditivo, estraneo al rischio contrattualmente assunto, che il debitore non era tenuto a prevenire con i mezzi dedotti in obbligazione” (pag. 246).

    [20] Per un'applicazione di questi principi in tema di responsabilità medica, cfr. Cass. Civ., sez. III,13-04-2007 n. 8826: “La riconduzione dell’obbligazione professionale del medico c.d. strutturato nell’ambito del rapporto contrattuale, e della eventuale responsabilità che ne consegua nell’ambito di quella da inadempimento ex articoli 1218 ss. c.c., ha invero i suoi corollari anche sotto il profilo probatorio: (...) il paziente che agisce in giudizio deve, anche quando deduce l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria, provare il contratto e allegare l’inadempimento del sanitario, restando a carico del debitore (medico-struttura sanitaria) l’onere di dimostrare che la prestazione è stata eseguita in modo diligente, e che il mancato o inesatto adempimento è dovuto a causa a sé non imputabile, in quanto determinato da impedimento non prevedibile né prevenibile con la diligenza nel caso dovuta (per il riferimento all’evento imprevisto ed imprevedibile cfr., da ultimo, Cassazione, 12362/06; Cassazione, 22894/05). Pertanto, in base alla regola di cui all’articolo 1218 c.c. il paziente-creditore ha il mero onere di allegare il contratto ed il relativo inadempimento o inesatto adempimento, non essendo tenuto a provare la colpa del medico e/o della struttura sanitaria e la relativa gravità (da ultimo v. Cassazione, 12362/06; Cassazione, 11488/04)”.

    [21] Oltre che quello per la valutazione dell'attività del debitore in funzione dell'adempimento.

    [22] Com'è stato stato osservato in dottrina, la regola generale di cui all'art. 1218 c.c. sembrerebbe “muta” rispetto ai criteri di imputazione dell'impossibilità per cui “è tutta aperta alla scoperta di quali criteri di imputazione siano dietro all'espressione normativa” (Castronovo 1979, 506). Secondo l'impostazione tradizionale della dottrina, invece, la colpa (intesa come mancato uso della diligenza dovuta) costituisce il criterio di imputazione dell'impossibilità sopravvenuta al debitore; ciò vale anche per parte della dottrina che attribuisce natura oggettiva alla responsabilità contrattuale. Cfr., tuttavia, Osti 1967, 297-298 : “non sembra che vi sia ragione di adottare due critreri diversi per la valutazione dell'attività svolta dal debitore nell'adempimento dell'obbligazione, e, rispettivamente per quella del suo comportamento in relazione alla sopravvenuta impossibilità della prestazione”.


     
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  8. seppietta
     
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    User deleted


    Scatta l’abuso del processo per il creditore che aziona più esecuzioni in base a un titolo solo
    Il divieto di frazionamento del credito vale anche per le procedure se moltiplica le spese a carico del debitore e i rimborsi in favore del procedente

    (Sentenza del 9 aprile)


    a conferma del precedente orientamento sul frazionamento del credito.
     
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7 replies since 24/2/2009, 14:00   2701 views
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