Le pratiche commerciali scorrette

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    Alessandro Gallucci, Avvocato in Lecce.
    Le pratiche commerciali scorrette
    Il D.lgs. 2 agosto 2007, n. 146, in attuazione della direttiva CE 2005/29, ha sostituito gli articoli da 18 a 27 del D.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (c.d. Codice del consumo), introducendo nel testo legislativo la disciplina delle pratiche commerciali scorrette.

    INTRODUZIONE
    La tutela del consumatore è, da sempre, oggetto dell'azione normativa della Comunità europea. L'art. 153, comma 1, del Trattato CE concernente la tutela dei consumatori, recita: "Al fine di promuovere gli interessi dei consumatori ed assicurare un livello elevato di protezione dei consumatori, la Comunità contribuisce a tutelare la salute, la sicurezza e gli interessi economici dei consumatori nonché a promuovere il loro diritto all'informazione, all'educazione e all'organizzazione per la salvaguardia dei propri interessi". Anche in attuazione di tale disposto normativo la Comunità europea, con Direttiva del Parlamento e del Consiglio dell'11 maggio 2005, n. 29, è intervenuta regolamentando le pratiche commerciali sleali nel rapporto tra imprese e consumatori. Ratio dell'intervento, come sempre, quando la Comunità interviene con un proprio atto normativo è quello di armonizzare le normative nazionali. Infatti, la direttiva 2005/29 al terzo considerando dice che "le leggi degli Stati membri in materia di pratiche commerciali sleali sono caratterizzate da differenze notevoli che possono provocare sensibili distorsioni della concorrenza e costituire ostacoli al buon funzionamento del mercato interno". In questo contesto si è deciso di intervenire con una direttiva dettagliata che portasse ad una profonda convergenza ed armonizzazione delle normative nazionali. Lo Stato italiano ha recepito la direttiva comunitaria con il D.lgs. n. 146/2007.
    1 Il recepimento della direttiva comunitaria nell'ordinamento italiano
    Passando all'analisi della legislazione interna, in Italia, prima del recepimento della direttiva comunitaria, l'unica norma che si occupava delle pratiche commerciali sleali era l'art. 2598 c.c. (Atti di concorrenza sleale). La norma, tutt'ora vigente, è specificamente dettata, quindi applicabile, esclusivamente nell'ambito dei rapporti concorrenziali tra imprenditori. Ciò lasciava i consumatori privi di tutela in un settore fondamentale per la libera concorrenza quale appunto il rapporto con l'impresa. Naturalmente il riferimento non è al rapporto contrattuale che si va ad instaurare tra professionista e consumatore. Infatti, in questo settore il Legislatore comunitario, seguito da quello nazionale, con la propria opera ha dettato una serie di norme dando ai consumatori ed agli utenti tutto un insieme di strumenti per bilanciare le forze nel rapporto contrattuale. Il vuoto normativo, quindi, era individuabile in quella parte del rapporto estranea alle vicende specificamente contrattuali e che, tuttavia, aveva grossa incidenza sullo stesso vincolo negoziale. Con il recepimento della direttiva comunitaria si è colmata questa lacuna dotando i consumatori di un'utile strumento di contrasto all'azione degli imprenditori. La scelta del Legislatore nazionale è stata quella di recepire la direttiva comunitaria introducendo le relative norme nel D.lgs. n. 206/2005 (c.d. Codice del consumo). Questo Codice, come recita l'ultimo periodo dell'art. 1 "armonizza e riordina le normative concernenti i processi di acquisto e consumo, al fine di assicurare un elevato livello di tutela dei consumatori e degli utenti". In questo modo il Legislatore nazionale ha voluto riorganizzare in maniera sistematica tutte le norme vigenti dettate in materia di tutela del consumatore collocate in vari testi normativi. Il D.lgs. n. 146/2007, nel recepire la direttiva 2005/29, è intervenuto novellando il Titolo III della Parte II del Codice del consumo. In particolare sono stati modificati gli artt. da 18 a 27, un successivo D.lgs. (il n. 221/2007) ha completato l'opera andando a modificare la rubrica del Titolo III, che ora è rubricato "Pratiche commerciali, pubblicità e altre comunicazioni commerciali". Prima della modifica il Titolo III era dedicato alla sola pubblicità ed alle altre comunicazioni commerciali. Questo è un altro punto che merita di essere sottolineato: il Legislatore comunitario, di conseguenza quello nazionale, ha inteso allargare la tutela dei consumatori a tutte quelle azioni poste in essere dagli imprenditori, ulteriori rispetto alla pubblicità ed alle comunicazioni commerciali, capaci di incidere sul corretto svolgimento del rapporto commerciale. È utile in questa sede esaminare le ricadute pratiche della novella legislativa senza tralasciare eventuali aspetti di criticità.
    Un'ultima annotazione di carattere terminologico: la direttiva comunitaria parla di pratiche commerciali sleali, mentre la normativa di recepimento fa riferimento alle pratiche commerciali scorrette. Si tratta semplicemente di una scelta linguistica che non incide in alcun modo sul contenuto della disciplina ampliandone o diminuendone il campo applicativo.
    2 L'ambito applicativo del Titolo III
    Per comprendere fino in fondo la portata della normativa in materia di pratiche commerciali scorrette bisogna chiedersi:
    a) a quale fase del rapporto professionista consumatore si applica;
    b) come si armonizza con gli altri rimedi offerti dalla legge (compreso lo stesso Codice di consumo). L'art. 19, comma 1 recita: "Il presente titolo si applica alle pratiche commerciali scorrette tra professionisti e consumatori poste in essere prima, durante e dopo un'operazione commerciale relativa a un prodotto" Al comma 2 sono indicate specificamente tutte quelle norme che continuano ad applicarsi in concorrenza con il Titolo III. Ciò perché è diverso l'oggetto della tutela contemplato dalle norme richiamate (es. quelle relative alla formazione dei contratti), rispetto a quelle contenute nel Titolo III. Un esempio chiarirà quanto appena detto e permetterà di rispondere compiutamente alla domanda di cui al punto b). Si pensi ad un consumatore vittima di una pratica commerciale scorretta, che, in conseguenza di tale abuso, acquisti un prodotto. In questi casi nulla vieta al suddetto consumatore di poter agire in giudizio per ottenere, ad esempio, l'annullamento del contratto. Ancora: si potrà far valere la garanzia legale anche nei casi in cui l'acquisto sia diretta conseguenza di un comportamento sleale del professionista. In entrambi i casi in concorrenza con gli altri rimedi, sarà comunque possibile azionare gli strumenti di tutela previsti dal Codice del consumo in materia di pratiche commerciali scorrette. Ciò perché le norme, dettate a tal fine, hanno come oggetto di tutela principale il corretto funzionamento del mercato interno. Come vedremo oltre, questa distinzione, a dire una parte della dottrina, influisce sulla legittimazione ad agire in materia di pratiche commerciali scorrette. In questo caso stante la diversità dell'oggetto tutelato nulla quaestio. Si può, quindi, riepilogare affermando che le pratiche commerciali scorrette hanno un ambito applicativo che spazia dalla fase pre-contrattuale a quella post-vendita e che l'applicazione delle norme ad esse relative non pregiudica l'utilizzo di qualsiasi altro rimedio applicabile al caso di specie.
    Il problema si pone per quelle sovrapposizioni con norme che regolamentano specifiche pratiche commerciali scorrette. All'uopo interviene l'art. 19, comma 3, secondo cui "in caso di contrasto, le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni del presente titolo e si applicano a tali aspetti specifici". In tal senso si trova riscontro in un parere del Consiglio di Stato reso su richiesta dell'antitrust che intendeva evitare una sovrapposizione di competenze tra la propria attività e quella della Consob (si veda Cons. Stato, Sez. I, 3 dicembre 2008, parere n. 3999).
    Continuando l'analisi della disciplina appare utile accennare ad alcune definizioni date con riferimento alle pratiche sleali. L'art. 18 del Codice del consumo definisce i vari soggetti ed i concetti rilevanti ai fini dell'applicazione del Titolo III. Così, per consumatore dovrà intendersi "qualsiasi persona fisica che, nelle pratiche commerciali oggetto del presente titolo, agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale". Si tratta di una definizione leggermente diversa da quella, a carattere generale, contenuta nell'art. 3 dello stesso Codice. La definizione generale, infatti, fa rifermento al consumatore quale persona fisica che agisce per scopi estranei alla propria attività. La differenza tra "scopi estranei" e "agire per fini che non rientrano nel quadro (...)" a bene vedere non è di poco conto. La definizione dell'art. 18 permette di allargare il quadro a quei casi in cui potrebbe esserci anche un fine professionale, ma assolutamente trascurabile rispetto all'uso "domestico" cui sarebbe destinato il bene. Un esempio chiarirà il concetto. L'espressione estraneità (richiamata dall'art. 3 Codice del consumo) pone una linea di demarcazione netta tra attività professionale ed extra-professionale. Acquistare un bene chiedendone la fatturazione − piuttosto che il classico "scontrino fiscale" − è, in relazione al concetto di estraneità, un chiaro indice di azione compresa nell'ambito della professione. Relativamente al contenuto dell'art. 18 è sicuramente un indizio; tuttavia, la formulazione della norma sembrerebbe permettere la dimostrazione del contrario, ad esempio provando che di fatto il bene è utilizzato per scopi "domestici" (sul punto si veda anche E.M. Tripodi-C. Belli, Codice del consumo, 2008, 68). Si tratta di un'interpretazione che non trova riscontro in pronunce giurisprudenziali, ma che laddove confermata creerebbe una disparità di trattamento a seconda degli strumenti di tutela azionati. Come dire che, con riferimento alla nozione di consumatore, sarebbe più facile sanzionare una pratica commerciale scorretta piuttosto che ottenere la dichiarazione di vessatorietà di una clausola. Anche per la definizione di professionista si ipotizza un allargamento del concetto rispetto alla definizione generale contenuta nel succitato art. 3. A tanto si giungerebbe sulla base del fatto che il precitato articolo parla di soggetto che "nell'esercizio della propria attività (...)" mentre la definizione dell'art. 18 prende in considerazione "nel quadro della sua attività (...)". A dire di alcuni commentatori (E.M. Tripodi-C. Belli, op. cit.) ciò consentirebbe di comprendere nel novero dei soggetti coinvolti anche la P.A. nei casi in cui agisca iure privatorum. Come detto per la definizione di consumatore, non si segnalano pronunce giurisprudenziali sull'argomento. Proseguendo, prima di analizzare le singole condotte scorrette, è utile approfondire cosa si debba intendere, in linea generale, per pratica commerciale. È tale "qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posta in essere da un professionista, in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto al consumatore". Questa è la definizione di pratica commerciale che troviamo all'art. 18, lettera d), Codice del consumo Si tratta di un concetto molto ampio riferibile a tutti quei comportamenti del professionista nei rapporti con i consumatori in relazione alla propria attività imprenditoriale. L'Autorità garante per la Concorrenza ed il Mercato, con varie decisioni, ha contribuito a delineare meglio il concetto di "comunicazione commerciale". Sono considerabili tali, gli opuscoli e le guide, le promozioni attraverso internet, gli sms (cfr. tra le altre A.G.C.M. 21 dicembre 2000, n. 9061; A.G.C.M. 30 novembre 2006, n. 5399). La norma in questione, come d'altra parte le successive, non pone alcuna soglia applicativa. Ciò significa che quella di pratica commerciale è nozione suscettibile di applicazione a tutto il settore imprenditoriale. Quando si parla di pratiche sleali, pubblicità ingannevole, ecc. si è soliti rivolgere lo sguardo alle grosse multinazionali o, comunque, ad imprese operanti sul panorama nazionale. La nozione di pratica commerciale, oltre a contemplare questi comportamenti, trova applicazione rispetto a tutti i soggetti che sono considerabili professionisti. Per dirla in parole povere, il concetto di pratica commerciale è applicabile tanto alla grande multinazionale, quanto al droghiere vicino casa.
    3 Le pratiche commerciali scorrette: definizione e catalogazione
    Tra le definizioni presenti nell'art. 18 non compare quella di scorrettezza. Se ne occupa l'art. 20, che sancisce un generale divieto di pratiche commerciali scorrette. La scelta del Legislatore comunitario, trasfusa nella normativa interna di recepimento, è stata quella di una definizione generale di pratica commerciale scorretta affiancata da alcune specificazioni. Così già dallo stesso contenuto del precitato articolo è possibile distinguere un concetto generale di comportamento scorretto, da alcune precisazioni legislative della condotta vietata. In generale, quindi, si sancisce un divieto di porre in essere pratiche commerciali scorrette. Nello specifico si puntualizzano alcuni elementi che caratterizzano una pratica sleale. Il Codice del consumo, infatti, parla di pratiche commerciali scorrette in quanto ingannevoli. Tale ingannevolezza può essere posta in essere mediante azioni (art. 21) o omissioni (art. 22). Continuando sono menzionate anche le pratiche aggressive (art. 24). Infine, l'ultimo comma dell'art. 20 indica quelle pratiche commerciali aggressive o ingannevoli che ex lege sono da ritenersi scorrette (artt. 23 e 26). Si tratta di circostanze che fanno presumere la scorrettezza della condotta del professionista. Prima di un'analisi delle peculiarità di ogni singola condotta che integra un illecito, è necessaria una premessa: con la novella legislativa non si è inteso introdurre e disciplinare differenti tipologie di pratiche commerciali scorrette. La fattispecie illecita è sempre unica (sul punto si veda il considerando 11 della direttiva 2005/29). Il Legislatore ha inteso specificare meglio che il ricorrere di determinati elementi in alcuni casi può essere indicativo di una violazione (artt. 21, 22 e 23) e che in taluni altri tale violazione sussiste certamente.
    Le pratiche commerciali scorrette in generale
    A norma del comma 2 del precitato articolo una pratica commerciale "è scorretta se è contraria alla diligenza professionale, ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori". Si tratta di una definizione di carattere generale volta a sanzionare tutti quei comportamenti sleali e non riconducibili nell'alveo delle pratiche ingannevoli o aggressive. I requisiti, affinché possa parlarsi di scorrettezza, sono sostanzialmente due. Il primo attiene più strettamente alla condotta del professionista che deve essere contraria a quanto prescritto dalla diligenza professionale. Il contenuto della diligenza professionale si sostanzia nel rispetto di quell'aspettativa del consumatore, riferita al comportamento del professionista che deve essere conforme a quei principi di correttezza e buona fede nel settore di attività del professionista stesso. Si tratta, come è possibile notare, di un requisito articolato che unisce al classico criterio della diligenza professionale quello dell'aspettativa del consumatore di un comportamento conforme. La prassi applicativa ci dirà, se tale ultimo requisito rimarrà lettera morta oppure richiederà una misura di diligenza professionale, superiore a quella richiesta dal Codice civile. Il secondo requisito attiene all'effetto che tale condotta sortisce: cioè deve falsare o essere idonea a falsare in misura apprezzabile un comportamento. Così data una pratica commerciale, essa sarà scorretta se contraria alla diligenza professionale e, proprio in virtù di tale contrarietà, idonea a falsare il comportamento economico del consumatore medio. Il parametro per valutare l'illiceità della condotta subita dal soggetto passivo della fattispecie non è quello del consumatore, sic et simpliciter, bensì quello del consumatore medio o del membro medio di un gruppo, qualora la pratica sia diretta ad un gruppo di consumatori. Tale soggetto è definito dal considerando 18 della direttiva 2005/29, sulla scorta della nozione elaborata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, come quell'individuo normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici. Si pone, quindi, il problema di individuare dei parametri atti a dare un significato pratico al concetto di consumatore medio. L'indirizzo della giurisprudenza della Cassazione sembra quello di lasciare spazio alla discrezionalità del giudicante, al fine di individuare tale categoria. In un recente giudizio la Suprema Corte ha considerato legittima l'esclusione di una consulenza tecnica d'ufficio volta a individuare per via demoscopica il concetto di consumatore medio. Ciò perché, "l'individuazione del concetto di consumatore medio non può essere collegata all'individuazione della media dei consumatori che assumono un determinato atteggiamento nei confronti di un certo prodotto, ma è il frutto di un'operazione squisitamente giudiziale che individua a priori il grado di intelligenza, prudenza ed informazione che si deve attribuire ad un consumatore (e pretendere da un consumatore) per valutare la decettività del marchio", onde "la delega all'équipe demoscopica di un'indagine comunque diretta a tale finalità (l'unica rilevante ai fini del giudizio) violerebbe quelli che essenzialmente sono i limiti dello strumento processuale, cioè la valutazione, sotto il profilo tecnico, di fatti già acquisiti, con esclusione di qualsivoglia giudizio rimesso alla competenza giuridica o valutativa del Giudice" (così Cass. 26 marzo 2004, n. 6080, ben più nota come caso Parmacotto). È chiaro, allora, che la valutazione dell'idoneità della condotta debba essere effettuata caso per caso in relazione al consumatore o gruppo di consumatori cui è indirizzata. Certamente, il mezzo di comunicazione utilizzato incide notevolmente sulla diligenza utilizzata dal professionista e sulla conseguente idoneità del messaggio a falsare il comportamento economico del destinatario. Il recente recepimento della normativa oggetto di questo approfondimento, che è sostanzialmente conforme nel settore pubblicità ingannevole permette di segnalare un orientamento consolidato nel tempo. Una recente decisione dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato (c.d. Antitrust) riprendendo questo orientamento ha ribadito che "il messaggio pubblicitario deve dare alle avvertenze che limitano le aspettative suscitate con il claim principale un rilievo ed un posizionamento nel contesto complessivo della comunicazione, tali da rendere ragionevolmente certo che il pubblico le percepisca e le valuti" (così A.G.C.M. 24 luglio 2008, n. 18675). Così dicendo, non è stato ritenuto sufficiente il richiamo al sito internet del professionista per ottenere ulteriori informazioni relative all'offerta. Certamente il mezzo di comunicazione utilizzato incide sull'idoneità del messaggio. In un intervento relativo ad un'offerta commerciale formulata a mezzo depliant inviati per posta ai consumatori, l'Antitrust ha evidenziato che le caratteristiche di tale mezzo di comunicazione sono idonee a consentire al consumatore di formarsi un'idea completa sulle condizioni dell'offerta, anche se la stessa è formulata con richiami a precisazioni riportate in note stampate con caratteri più piccoli. Ciò che conta, quindi, pare essere oltre che la possibilità per il consumatore di avere a disposizione tutte le informazioni anche quella di avere, inoltre, tutto il tempo necessario ad un'approfondita analisi delle stesse (A.G.C.M. del 13 novembre 2008). Un'ultima annotazione riferibile al concetto generale di pratiche commerciali scorrette. Esso non ha carattere puramente esplicativo, ma è direttamente applicabile. La differenza rispetto alla fattispecie connotate da ingannevolezza e aggressività va rintracciata nel fatto che queste ultime sono caratterizzate da una descrizione legislativa degli elementi idonei a caratterizzarle come scorrette.
    Le pratiche commerciali scorrette ingannevoli ed aggressive
    Gli artt. 21-26 Codice del consumo delineano quelle ipotesi nominate di pratiche commerciali scorrette. Si tratta delle pratiche commerciali ingannevoli mediante azione ed omissione, delle pratiche aggressive e di ricorso a coercizione o indebito condizionamento. Infine, gli artt. 23 e 26 disciplinano le ipotesi di pratiche ingannevoli ed aggressive in ogni caso. Così l'art. 21 ci dice che "è considerata ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più dei seguenti elementi e, in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso". Si tratta di pratiche che agendo sulla realtà esterna inducono, o sono idonee ad indurre, in errore il consumatore. A questa parte iniziale del comma 1 segue un'elencazione degli elementi sui quali deve incidere la comunicazione ingannevole. L'ingannevolezza non ricorre solo quando le informazioni contenute nella comunicazione non sono vere ma anche quando, pur essendo vere, generino comunque confusione ed inducano in errore. Stando alla formulazione della norma, la pratica deve essere idonea a trarre in inganno il consumatore medio. Certamente il fatto che la norma in esame indichi quegli elementi sui quali la condotta scorretta va ad incidere, aiuta e non poco in termini di certezza del diritto e di accertamento dell'illecito; questo era d'altra parte l'intento del Legislatore comunitario esplicitamente espresso nel considerando n. 17 della direttiva 2005/29. Così, per esemplificare, le informazioni scorrette, o in sé e per sé corrette ma idonee a trarre in inganno, riguardano le modalità di esercizio della garanzia [art. 20, comma 1, lett. g)]. Al fianco delle azioni ci sono le omissioni ingannevoli (art. 22), ossia quei comportamenti del professionista, il quale fornendo meno informazioni del dovuto induce il consumatore medio ad assumere decisioni che non avrebbe mai preso. Anche in questo caso vale quanto sopra detto con riferimento alle azioni ingannevoli. Le pratiche commerciali aggressive sono quelle che "nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, mediante molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica o indebito condizionamento, limita o è idonea a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto e, pertanto, lo induce o è idonea ad indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso" (art. 24, comma 1, Codice del consumo). In questi casi l'azione aggressiva è esercitata direttamente sul consumatore senza incidere sulla realtà estera. Così come per i casi di violenza nella formazione del contratto si è subito sottolineato che la coercizione non è solo quella fisica, tra l'altro espressamente prevista, ma anche quella psicologica (E.M. Tripodi-C. Belli, op. cit.).
    Infine, vanno citate le pratiche commerciali in ogni caso ingannevoli ed aggressive. Si tratta di una condotta caratterizzata da un'intrinseca idoneità lesiva che non necessità di alcun accertamento. Le ipotesi di pratica scorretta ex lege sono state dettagliate dalla direttiva comunitaria 2005/29 e possono essere modificare solo mediante una revisione della medesima direttiva [si veda considerando 17 direttiva cit.]. A solo titolo esemplificativo si pensi all'ingannevolezza insita nel sistema di vendita c.d. piramidale (art. 23, comma 1, lett. p), Codice del consumo) o alla pratica aggressiva che generi l'impressione che il consumatore possa lasciare i locali commerciali solo dopo aver concluso il contratto (art. 24, comma 1, lett. a), Codice del consumo).
    È importante segnalare, nell'ambito di una logica di prevenzione della pratiche scorrette, che la novella legislativa ha inteso promuovere la possibilità di adozione, da parte delle associazioni e organizzazioni imprenditoriali e professionali, di Codici di condotta volti a disciplinare il comportamento degli operatori economici. Tutto ciò nella direzione di un'eliminazione preventiva delle pratiche scorrette. Si tratta di un Codice che non ha nessun valore legislativo o regolamentare, ma solo di accordo tra le parti [si veda art. 18, comma 1, lett. f), Codice del consumo].
    4 Gli strumenti di tutela
    Appurato che il nostro ordinamento vieta ogni tipo di pratica commerciale scorretta, cercando di favorire l'adozione di strumenti di prevenzione delle stesse, è utile approfondire quali siano gli strumenti messi a disposizione dei consumatori per difendersi da questo tipo di condotte.
    Si è detto che le norme dettate per disciplinare le pratiche commerciali lasciano impregiudicata la possibilità di azionare le norme relative alla validità dei contratti, quelle sulla sicurezza dei prodotti, ecc. (art. 19, comma 2, Codice del consumo). Accanto ai "rimedi tradizionali" è prevista una forma di tutela amministrativa volta ad inibire e sanzionare le pratiche sleali. Si tratta fondamentalmente della possibilità di ricorrere all'Antitrust per segnalare le possibili violazioni della normativa. Sarà, poi compito dell'Autorità garante verificare, nell'ambito di un vero e proprio procedimento amministrativo, ed eventualmente sanzionare i comportamenti illeciti. Si è parlato, sostanzialmente di una doppia tutela (cfr. E.M. Tripodi-C. Belli, op. cit.) che distingue l'interesse individuale del singolo consumatore (cioè vedersi risarcito il danno subito, ecc.) da quello collettivo della categoria di consumatori, quali soggetti portatori di un interesse diffuso (quello del buon funzionamento del mercato).
    Concentrandoci sulla tutela amministrativa prevista dall'art. 27 del Codice del consumo, è utile chiarire subito alcune questioni:
    a) come può essere azionata l'attività istruttoria dell'Antitrust?;
    b) esistono dei limiti alla legittimazione ad agire davanti all'Autorità?;
    c) quali sono le conseguenze dell'accertamento di una pratica scorretta?
    In primo luogo bisogna affermare che l'Autorità garante agisce su istanza di parte o anche d'ufficio. La parte che certamente può proporre istanza è il concorrente dell'impresa cui si imputa una violazione delle norme. Ciò è espressamente stabilito nell'articolo 11 della direttiva 2005/29. Alcuni autori (cfr. E.M. Tripodi-C. Belli, op. cit.) ritengono che un'interpretazione sistematica del Codice del consumo debba portare a considerare che i soggetti portatori d'interesse, cioè coloro che sono legittimati a proporre ricorso, siano quelli indicati dall'art. 139. Certamente questa interpretazione contrasta con il disposto del successivo art. 27-ter; da questa norma, dettata in materia di autodisciplina, sembrerebbe possibile desumere che il consumatore (singolarmente inteso o per mezzo delle associazioni di riferimento) abbia possibilità di agire singolarmente anche con ricorso all'Autorità garante (si veda art. 27-ter, commi 1 e 2, Codice del consumo).
    È utile segnalare come le problematiche attinenti alla legittimazione ad agire, quanto meno da un punto di vista strettamente pratico, siano state soppiantate dalla prassi dell'Autorità garante che ha istituito un numero verde, accessibile a tutti, per le segnalazioni di presunte violazioni. Fatta la segnalazione o presentato un ricorso, la questione è sottoposta ad una prima e preventiva valutazione da parte dell'Autorità che può decidere di archiviare la richiesta o viceversa aprire un'istruttoria al fine di approfondire ogni eventuale violazione. I poteri istruttori dell'Antitrust sono molto ampi: si parte dalla semplice richiesta di produzione documentale per arrivare a poteri investigativi di gran lunga più incisivi come la possibilità di avvalersi della Guardia di Finanza per ispezioni e/o accertamenti.
    È importante segnalare che nel corso dell'attività istruttoria − prima di giungere all'adozione di un provvedimento − l'A.G.C.M. ha a disposizione dei poteri c.d. di moral suasion. Infatti, nell'ottica di una maggiore tutela del consumatore finalizzata principalmente alla eliminazione più rapida dell'effetto lesivo e non solo all'irrogazione della sanzione, in quei casi di scorrettezze non manifestamente gravi l'Autorità garante può chiedere al professionista d'impegnarsi ad eliminare la pratica oggetto di attenzione. Si tratta di quei c.d. casi in cui l'istituzione preposta esercita il suo potere dissuasivo basato per l'appunto sulla propria autorità ed autorevolezza. Il mancato rispetto degli impegni assunti in questo modo è punibile con l'irrogazione di un sanzione pecuniaria e tutte le altre sanzioni del caso.
    Può accadere che in corso d'istruttoria si renda necessario sospendere una determinata pratica. L'art. 27, comma 3, Codice del consumo permette, nei casi di particolare urgenza, la sospensione della pratica in corso d'istruttoria.
    Giunta al termine del procedimento l'Antitrust ha a disposizione una serie di strumenti di reazione, sanzionatori, qualora abbia ritenuto sussistente una pratica commerciale scorretta. Gli strumenti di reazione e punizione dell'illecito sono i più classici e vanno dall'inibitoria (anche preventiva) della pratica scorretta alla sanzione pecuniaria. Contro i provvedimenti dell'Autorità garante è consentito il ricorso al Giudice amministrativo che ha giurisdizione esclusiva sulla materia (art. 27, comma 13, Codice del consumo).
     
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