La colpa della P.A. : dall’ arrogantia principis all’accertamento dell’elemento soggettivo dell’ill

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  1. giàavvocato
     
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    Per lungo tempo l’attività della Pubblica Amministrazione ha goduto del privilegio dell’immunità, fondato sul presupposto che lo Stato, depositario del diritto, non può commettere illeciti.
    Tale “ immunità” riguardava, peraltro, un tempo anche l’attività c.d. materiale della amministrazione, ivi compresi i fatti illeciti, lesivi delle posizioni giuridiche degli amministrati, posti in essere dai suoi agenti.
    Con l’avvento della Costituzione Repubblicana, venne in seguito sancita, a norma dell’art. 28 Cost., da leggersi oggi in combinato disposto con la clausola generale di cui all’art. 2043 c.c., la responsabilità dei funzionari e dei dipendenti dello Stato e degli altri enti pubblici per gli atti compiuti in violazione dei diritti e ha, quindi, consacrato l’estensione di tale responsabilità, in via diretta, solidale e in forza del rapporto organico o di immedesimazione, dai funzionari stessi all’ente pubblico.
    Nel nostro ordinamento , quindi, si è progressivamente radicato il convincimento che anche l’amministrazione sia soggetta, nella vita di relazione, a quelle norme di diritto comune che le impongono il rispetto della clausola generale del neminem ledere e, se anche originariamente, tale assunto rimaneva applicabile solo alle ipotesi di attività materiali poste in essere dalla P.A., successivamente esso è stato ritenuto riferibile anche ai danni causati dalla amministrazione nell’esercizio di attività amministrativa.
    In estrema sintesi, quindi, lo Stato e gli enti pubblici, anche nel momento in cui esercitano le potestà pubbliche, previste dalla legge, sono nondimeno soggetti alle regole della responsabilità civile, ricavabili principalmente dall’art. 2043 c.c..
    La stessa Corte Costituzionale, peraltro, in più di una occasione, si è trovata a dichiarare l’illegittimità costituzionale di quelle norme residuali che , in tema di illecito aquiliano, ancora prevedevano limitazioni di responsabilità a favore della P.A.
    D’altra parte, però, ben presto ci si è resi conto che lo stesso inquadramento delle responsabilità da fatto illecito della amministrazioni pubbliche nei confini descritti dall’art. 2043 c.c., non sempre si adattava, ad opinione di molti, ad un nuovo modello della P.A., ispirato a criteri di economicità , efficienza ed efficacia e del pari sempre più aperto alle istanze partecipative dei cittadini, queste ultime dapprima valorizzate dalla stessa L. 241/90 ed in seguito ulteriormente enfatizzate dalla L. 15/2005.
    Ed è pertanto stata elaborata la teoria della responsabilità da “ contatto amministrativo qualificato”, in specie allorché trattasi della lesioni di interessi legittimi, la quale si attaglia maggiormente ad un modulo di responsabilità di tipo contrattuale o da inadempimento ex art 1218 c.c., che non a quello di tipo extracontrattuale.
    Pur rimanendo, infatti, prevalente il paradigma aquiliano, ricavabile dall’art. 2043 c.c., parte della dottrina e della minoritaria giurisprudenza, individuano questa nuova tipologia di responsabilità fondata sulla tesi del c.d. “ contatto sociale” ( quest’ultima ha conosciuto peraltro un estesa applicazione giurisprudenziale, ad esempio, in tema di responsabilità medica) e che trova riscontro in tutti quei casi in cui il cittadino lamenti non tanto il danno da provvedimento che abbia illegittimamente negato il bene della vita, bensì quel pregiudizio che gli sia derivato da un comportamento procedimentale scorretto, a fronte della violazione degli obblighi di protezione, senza obbligo primario di prestazione e di cui all’ultima parte dell’art. 1173 c.c. , ovvero quegli “ altri fatti” , fonte di obbligazione.
    In realtà, anche a seguito della importante sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 500/99, si è aperta una nuova prospettiva nel tentativo di delineare le molteplici sfaccettature della responsabilità della P.A. e, di pari passo con importanti novellazioni normative dapprima con il Dlgs. 80/98 e dappoi con la L. 205/2000, il progressivo esame da parte della giurisprudenza delle domande risarcitorie proposte nei confronti delle amministrazioni ha posto il problema non solo di definire i presupposti e le regole dell’azione risarcitoria , ma anche quello di individuare la giurisdizione davanti alla quale le domande devono essere proposte.
    Ed è proprio sul tema della giurisdizione che, il più delle volte, la giurisprudenza si è trovata a dovere qualificare la natura giuridica della responsabilità della P.A., di tal guisa che dalla citata teoria del “contatto” si è passati a qualificarla in termini di responsabilità precontrattuale .
    Torna agevole, infatti, per alcuni interpreti, attingere alle regole della culpa in contrahendo, in quanto si sostiene che essa sia il modello prevalente di responsabilità della amministrazione, stante il preteso dovere di quest’ultima di comportarsi secondo buona fede e correttezza.
    Ne consegue che l’azione amministrativa, quale esercizio di potestà pubbliche, e l’azione del privato, quale esercizio dell’interesse legittimo, vanno riguardati alla stregua di comportamenti precontrattuali e, come tali, governati, oltre che dalle regole della discrezionalità, anche delle regole proprie della responsabilità precontrattuale ex art. 1337 c.c.
    Si citano, ad esempio, alcune pronunce nelle quali è stato affermato il contrasto con il principio di cui alla norma citata, del comportamento di una amministrazione che , pur essendosi accorta che mancavano i fondi necessari per la realizzazione di un opera conferita in appalto, non abbia disposto il rinvio della gara indetta per il loro affidamento ed abbia rilevato detta mancanza di fondi solo in sede di diniego di approvazione degli atti di gara.
    Tale comportamento, ritennero i giudici, determina il configurarsi , a carico della amministrazione, della responsabilità ex art. 1337 c.c. nei confronti di quella impresa che abbia partecipato, facendo incolpevole affidamento sulle regole della gara stessa.
    E’ stato, tuttavia, evidenziato anche il rischio che le difficoltà di inquadramento della responsabilità della P.A. , possano indurre l’interprete nella tentazione di scegliere una strada autonoma, nel ricostruire un tertium genus di responsabilità speciale della P.A.
    In un isolato pronunciamento , infatti, il Consiglio di Stato ha elaborato la tesi della c.d. responsabilità speciale , in cui si afferma la inadeguatezza sia del paradigma aquiliano che di quelli contrattuale e precontrattuale.
    Tale suggestiva teoria, parte dal presupposto, suffragato dall’evoluzione del contesto normativo avutasi a seguito dell’art. 35 del Dlgs. 80/98 e poi dell’art. 7 della L. 205/2006, in forza del quale in mancanza di una esatta qualificazione giuridica della responsabilità della P.A., spetta all’interprete ( rectius, al giudice amministrativo) il compito di determinare una ricostruzione dell’illecito della amministrazione, vagliandone di volta in volta la compatibilità con i principi desumibili dal diritto comune e inquadrandola talora in un tipo o nell’altro di responsabilità.
    Quest’ultima è una tesi che, tuttavia, non ha conosciuto una larga fortuna, in quanto , con ampia prevalenza, la responsabilità della P.A. derivante da attività provvedimentale lesiva di interessi legittimi viene ricondotta sempre nell’ambito della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.
    E ciò avviene anche in funzione della ritenuta insufficienza sul piano ricostruttivo delle varie tesi fin’ora esaminate.
    La teoria della responsabilità da contatto amministrativo qualificato, infatti , seppur innovativa sotto il profilo terminologico, non fa altro che definire, seppur in modo diverso, gli obblighi derivanti dal giusto procedimento amministrativo, che la giurisprudenza , peraltro, aveva già individuato ancor prima della sua canonizzazione avvenuta con la L. 241/90.
    E se, a monte, tale teoria ha sicuramente il pregio di risolvere , in favore del danneggiato, i problemi di determinazione della colpa in capo alla P.A. e del relativo onere della prova, oltre a quello della difficoltà di accertare la spettanza del bene della vita in tutte quelle ipotesi caratterizzate da una forte discrezionalità amministrativa, dall’altro, a valle, paventa il rischio di far sorgere , quasi in via automatica, una pretesa risarcitoria del privato ogniqualvolta vi sia la violazione di una regola procedimentale, prescindendo dalla sorte del provvedimento conclusivo del procedimento e, quindi, dalla spettanza della utilità che il privato stesso vuole conseguire o conservare.
    I critici verso la summenzionata teoria mostrano diffidenza verso quella ricostruzione della responsabilità che, prescindendo dall’elemento colposo, tende a definirla valorizzando maggiormente le pretese partecipative, piuttosto che gli interessi sostanziali concretamente lesi dall’azione amministrativa.
    In altre parole, tali osservazioni critiche, pur non negando che il cittadino possa subire un danno, non collegato al bene della vita, non ne ammettono allo stesso tempo la configurabilità in via automatica ( o quasi), senza che vi sia una rigorosa valutazione del danno stesso e del suo rapporto di causalità con la regola procedimentale violata
    Un generalizzato riconoscimento della tutela risarcitoria sganciato dalla effettiva spettanza del bene della vita e, vieppiù, fondato sulla mera violazione di regole procedimentali, unitamente al ricorso di modelli equitativi in sede di liquidazione del danno, verrebbe inevitabilmente a spostare tale tutela su di un piano più indennitario che su quello più propriamente risarcitorio.
    In via conclusiva , può aggiungersi che ciò che l’amministrato chiede all’organo giurisdizionale non è tanto l’accertamento della violazione di un obbligo procedimentale, quanto, piuttosto, quello relativo alla spettanza del bene della vita ovvero della sua concreta lesione.
    Anche l’accostamento con la responsabilità precontrattuale può contribuire a far emergere quelle ipotesi in cui il cittadino non sia direttamente leso da un provvedimento illegittimo, ma dal comportamento della P.A., la quale aveva dapprima generato e poi violato un affidamento.
    Nel qual caso, però, occorre distinguere tra la realtà delle trattative prenegoziali ed il rapporto che si instaura fra cittadino e pubblica amministrazione nella istruttoria procedimentale, ove l’interesse dell’amministrato non è soltanto quello a non essere coinvolto in trattative infruttuose, quanto quello di conseguire una determinata utilità.
    E se, da un lato, l’azione del privato, nella fase prenegoziale, è pur sempre “libera” nell’assoggettarsi all’osservanza delle regole di buona fede e correttezza desumibili dagli artt. 1337 e 1338 c.c., l’azione della amministrazione, dall’altro, ancor prima della emanazione del provvedimento, è comunque vincolata, o quasi, al rispetto delle norme del procedimento che ne condizionano lo sviluppo fino all’esito finale.
    La stessa Corte di Cassazione, nello specifico settore degli appalti, ha affermato che la responsabilità derivante dalla lesione di interessi legittimi è del tutto autonoma ed indipendente da quella precontrattuale ex art. 1337 c.c. e , quest’ultima, non assumerebbe rilevanza nel procedimento di aggiudicazione e partecipazione alla gara , ove le relazioni e i “ contatti” tra cittadino e P.A. sono solo quelli normativamente tipizzati ( nel procedimento di evidenza pubblica) e, pertanto, soli questi la stessa P.A. è tenuta ad osservare.
    D’altra parte, è stato anche evidenziato che l’identificazione della responsabilità della P.A. in quella precontrattuale comporterebbe un ampliamento ingiustificato della tutela risarcitoria che va ben oltre i confini della responsabilità da provvedimento illegittimo, valorizzando a dismisura l’elemento dell’affidamento.
    In altri termini, lo schema della responsabilità precontrattuale è fin troppo rigido e al contempo ristretto per poter assurgere a modello prevalente delle molteplici configurazioni della responsabilità della P.A., in cui spesso si chiede la tutela di qualcosa di più e di diverso dal ristoro del mero interesse ( negoziale) negativo a non esser coinvolto in trattative inutili o, più in generale, in rapporti giuridici arrecanti danni in violazione degli obblighi di correttezza e di protezione.
    Anche la tesi della responsabilità speciale va incontro ad una serie di critiche difficilmente superabili, in quanto si legittimerebbe il giudice ad operare una ricostruzione della specialità della responsabilità della P.A. del tutto sganciata da parametri di certezza normativa.
    La strada maestra rimane , quindi, quella della responsabilità extracontrattuale, la quale da tempo non coinvolge solo il fatto illecito commesso dal quisque de populo, ma sempre più spesso viene collegata all’esercizio di una data attività o a determinate professioni o status del soggetto danneggiante.
    E pertanto senza ricorrere a , più o meno sofisticate, finzioni contrattuali, quando la P.A., nell’adottare il provvedimento illegittimo, o nel comportarsi in violazione dei canoni di correttezza e buona fede, commette un illecito, quest’ultimo dovrebbe essere sempre risarcibile ex art. 2043 c.c..
    Ciò è quanto emerge dalla nota sentenza delle SS.UU n. 500/90, di tal guisa che rimane sufficiente per l’interprete , al fine di configurare la responsabilità aquiliana della P.A., accertare i requisiti oggettivi dell’illecito, ovvero il fatto lesivo, il danno ingiusto ( non jure e contra jus) ossia la lesione non giustificata dall’ordinamento di un valore giuridico tutelato, cui va aggiunta quella fattispecie di danno intesa quale deminutio del patrimonio giuridico dell’amministrato e, inoltre, il profilo soggettivo di responsabilità nelle forme del dolo o della colpa, oltre al nesso causale tra il fatto, doloso o colposo, e il danno.
    Un ulteriore e complessa problematica investe l’esatta individuazione della componente oggettiva e soggettiva dell’illecito aquiliano commesso dalla P.A., in specie allorché trattasi della lesione di interessi legittimi.
    Va rilevato sul punto che, ancor prima che andasse in frantumi il c.d. “ dogma” della irrisarcibilità delle posizioni giuridiche di interesse legittimo, ci si poneva la domanda, se, ed entro quali limiti, queste fossero risarcibili anche alla luce della importante dicotomia tra interessi legittimi oppositivi e interessi legittimi pretensivi.
    Per quanto concerne i primi, può ravvisarsi un danno ingiusto nel sacrificio dell’interesse alla conservazione del bene o della situazione di vantaggio conseguente all’illegittimo esercizio del potere amministrativo, ove peraltro è evidente il collegamento con il bene della vita preesistente in capo all’amministrato e, quindi, ancor prima della illegittimità commessa dalla P.A..
    Ben più problematica è la questione della tutela risarcitoria degli interessi legittimi c.d. pretensivi, una volta negata ed oggi invece ammessa seppur al ricorrere di determinate condizioni, che si configura allorquando la lesione derivi o da un illegittimo diniego o da un ingiustificato ritardo nella adozione del provvedimento.
    In tali casi si rende necessario un giudizio di tipo prognostico sulla fondatezza ( o meno) dell’istanza.
    A tal proposito, la dottrina ha spesso definito interessi a risultato garantito le posizioni, in relazioni alle quali, proprio per l’assenza di discrezionalità amministrativa , si può raggiungere la certezza del pregiudizio patito per la mancata acquisizione del bene della vita che, alla stregua della situazione di fatto e di diritto, doveva e poteva essere il risultato certo da raggiungere.
    E se la stessa dottrina spesso ha criticato l’eccessivo slancio di protezione nei confronti degli interessi c.d. oppositivi, ove la lesione di questi sia correlata alla violazione di regole procedurali e formali ed indipendentemente dall’esito provvedimentale ( non necessariamente privativo del bene della vita cui il privato aspira), allo stesso modo ha ritenuto cha la semplice lesione degli interessi pretensivi non sia da sola sufficiente a configurare un danno ingiusto, in quanto il privato non è titolare del bene della vita, ma aspira ad ottenerlo e non è quindi certo che l’atto amministrativo, sebbene illegittimo, abbia ingiustamente negato l’ampliamento della sua sfera giuridica.
    Sul punto va osservato come proprio la teoria del contatto amministrativo qualificato, venga utilizzata per ammettere la risarcibilità degli interessi legittimi pretensivi, prescindendo dalla effettiva spettanza del bene della vita.
    E tuttavia maggiormente seguito quell’orientamento che, pur non negandone in assoluto la risarcibilità , pone però in evidenza che, ove si tratti di interessi legittimi pretensivi, nella quasi totalità dei casi la pretesa risarcitoria ha ad oggetto un pregiudizio connesso alla mancata attribuzione del bene finale.
    Ne deriva che il giudice non dovrebbe liquidare il danno per la mera violazione di regole procedimentali, ma dovrebbe, invece, formulare un giudizio ( prognostico) sulla certa o statisticamente probabile spettanza della res favorabilis, cui aspira l’amministrato.
    Spesso tale pretesa, poi, viene avanzata dal privato, allorché l’amministrazione si induca al ri-esercizio della propria azione, a seguito dell’annullamento di un precedente atto illegittimo, laddove residuano poteri discrezionali consistenti e di tal guisa che la P.A. viene a riconoscere con ritardo la spettanza del bene della vita .
    Si tratta di una delle possibili configurazioni del c.d. danno da ritardo, la cui disamina ci porterebbe ben oltre i circoscritti propositi di questo elaborato, ma in ordine al quale non va tuttavia sottaciuto come la stessa Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ne abbia ancorato la riscarcibilità all’effettiva spettanza del bene della vita.
    Ancor più complessa rimane la questione relativa all’elemento soggettivo da individuarsi nella responsabilità della P.A., in specie sotto il profilo della colpa.
    In questo campo, proprio a seguito della pronuncia delle Sezioni Unite del 1999 e della giurisprudenza che ne è derivata, si è assistito al superamento di quell’orientamento secondo il quale l’illegittimità del provvedimento ( da accertarsi giudizialmente), in quanto violazione di norme che regolano l’azione amministrativa, riteneva la colpa in re ipsa.
    Le stesse Sezioni Unite, con la pronuncia richiamata, individuano, da un lato, l’” apparato” amministrativo, quale soggetto in capo al quale va individuato l’elemento psicologico dell’illecito , in tal modo prescindendo da ogni valutazione relativa all’elemento soggettivo riferibile al singolo funzionario ( sovente agganciato ai parametri della negligenza e della imperizia ex art. 2236 c.c.) e, dall’altro, chiariscono ed ampliano la nozione di colpa addebitabile alla P.A. , sancendone la derivazione anche dalla violazione delle regole di imparzialità correttezza e buona amministrazione , le quali ultime si pongono come chiari limiti esterni alla discrezionalità amministrativa.
    D’altra parte, viene anche affermato che il criterio di imputazione soggettiva della responsabilità extracontrattuale della P.A. non può essere accertato e desunto ( in via presuntiva) dal mero dato obiettivo della illegittimità del provvedimento, ma richieda necessariamente anche il suo accertamento in concreto.
    Tuttavia anche questa impostazione data dalla Suprema Corte, nello sforzo ricostruttivo della colpa della P.A., non è sempre stata accolta con entusiasmo dai giudici amministrativi, i quali hanno criticato la vaghezza classificatoria della nozione di “ apparato” ed hanno quindi stigmatizzato il rischio della sovrapponibilità dell’ elemento soggettivo con i vizi funzionali del provvedimento quali l’eccesso di potere o, anche , con puri vizi di merito.
    Sono stati quindi profusi nuovi sforzi ricostruttivi in chiave più propriamente oggettiva e da ciò ne è derivato che l’accertamento del grado di colpa in capo alla P.A. va fatto con riferimento ai vizi che inficiano il provvedimento, alla gravità della violazione commessa, all’ampiezza dei poteri discrezionali, anche avuto riguardo ai precedenti giurisprudenziali e alle condizioni concrete, nonché all’apporto partecipativo del privato.
    In consimili casi , quindi, il grado di colpa è tanto più evidente ove trattasi di attività vincolata e non , quindi discrezionale, perché l’illecito si configura nella sua componente soggettiva ove vi sia una normativa univoca di riferimento e una situazione di fatto definita e giammai dove residuano spazi di scelta in capo alla P.A..
    Si è anche ritenuto che l’illegittimità del provvedimento possa valere come indice presuntivo della colpa, di tal guisa che il danneggiato può provarla additando al giudice il vizio di legittimità alla stregua di una presunzione semplice ex artt. 2727 e 2720 c.c.
    L’utilizzo della presunzione semplice consente tuttavia l’” ammissione della prova a contrario”, ove la P.A. possa dimostrare che si è trattato di un errore scusabile.
    Un ultima suggestiva tesi ricostruisce la colpa alla luce del disposto di cui all’art. 2236 c.c., in quanto consente, alla stregua di quanto già prevedeva il T.U. degli impiegati civili dello Stato, di riconnettere il grado di colpa alla soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, di volta in volta affrontati nell’esercizio di un potere amministrativo.
    Ma una tale limitazione di responsabilità che esonera la amministrazione , al di fuori della culpa levis, viene tuttavia sovente esclusa, in particolare, ove la P.A. debba svolgere una mera attività interpretativa di norme giuridiche, mentre sempre più spesso la giurisprudenza amministrativa riesuma parametri soggettivi che si rifanno al buon padre di famiglia, ovvero al c.d. agente modello dell’homo eiusdem professionis ac condicionis.
    Si tratta di correnti ancora minoritarie non in grado di scalfire, tuttavia, il prevalente orientamento desumibile dalla SS.UU. 500/99 e dalla giurisprudenza che ne è seguita.
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  2. alex.falco
     
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    dall'estratto studi e documentazione del consiglio di stato 2008-


    La colpa della p.a.

    Copiosa continua ad essere la giurisprudenza sull’elemento soggettivo dell’illecito commesso dalla p.a.

    L’orientamento che continua ad essere seguito in via prevalente è quello secondo cui sotto il profilo dell’elemento soggettivo al privato non è chiesto un particolare sforzo probatorio, potendo invocare l’illegittimità del provvedimento quale presunzione (semplice) della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che non si è trattato di un errore non scusabile.

    Spetterà a quel punto all’amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata (Cons. St., sez. VI, 9 giugno 2008 n. 2763; sez. VI, 7 ottobre 2008 n. 4812).


    In sostanza, mentre il privato può limitarsi a fornire al giudice elementi indiziari quali la gravità della violazione (come presunzione semplice di colpa e non già come criterio di valutazione assoluto), il carattere vincolato dell’azione amministrativa giudicata, l’univocità della normativa di riferimento ed il proprio apporto partecipativo al procedimento, dal canto suo l’amministrazione può allegare elementi, anch’essi indiziari, rientranti nello schema dell’errore scusabile, spettando poi al giudice apprezzarne e valutarne liberamente l’idoneità a comprovare o ad escludere la colpevolezza dell’amministrazione stessa, senza che possa considerarsi valida l’equazione "illegittimità dell’atto-colpa dell’apparato pubblico" (Cons. St., sez. V, 20 ottobre 2008 n. 5124).


    La colpa è una conseguenza altamente probabile della riscontrata illegittimità dell'atto; di regola, quindi, in base ad un apprezzamento di frequenza statistica, il danneggiato ben può limitarsi ad allegare l'illegittimità dell'atto amministrativo annullato, in quanto essa indica la violazione dei parametri che, nella generalità delle ipotesi, specificano la colpa dell'amministrazione: in tali eventualità, allora, spetta all'amministrazione l'onere di fornire seri elementi idonei a superare la presunzione (Cons. St., sez. VI, 17 luglio 2008 n. 3602).

    E’ stato, tuttavia, precisato che l’imputazione della responsabilità nei confronti della p.a. non può avvenire sulla base del mero dato obiettivo dell’illegittimità dell’azione amministrativa, giacché ciò si risolverebbe in un’inammissibile presunzione di colpa, ma comporta, invece, l’accertamento in concreto della colpa dell’amministrazione, che è configurabile quando l’esecuzione dell’atto illegittimo sia avvenuta in violazione delle regole proprie dell’azione amministrativa, desumibili sia dai principi costituzionali in punto di imparzialità e buon andamento, sia dalle norme di legge ordinaria in punto di celerità, efficienza, efficacia e trasparenza, sia dai principi generali dell’ordinamento, in punto di ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza. (Cons. St., sez. V, 8 settembre 2008 n. 4242).
    L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato non ha preso posizione tra i vari orientamenti in tema di colpa della p.a. ed ha comunque escluso la sussistenza dell’elemento soggettivo nel caso in cui l’illegittimità commessa dall’amministrazione a seguito di un’attività interpretativa giuridica e dei fatti processuali, svolta dal giudice sul filo di principi estremamente complessi, tesi a superare difficoltà poste da precedenti pronunce, rispetto alle quali era obiettivamente arduo individuare l’azione corretta da seguire (Cons. St., ad. plen., 3 dicembre 2008 n. 13).

    E’ stato anche precisato che non esclude la colpa la circostanza che il giudice di primo grado abbia dato ragione all'amministrazione con decisione ribaltata in appello, in quanto anche il Tar può incorrere in errore, e comunque non appare ragionevole dare rilevanza ad un fatto successivo a quello che ha generato l'illecito. Aderendo a tale impostazione, la sussistenza della colpa sarebbe ravvisabile nelle sole ipotesi in cui il privato ottenga ragione in entrambi i gradi del giudizio, finendo il giudizio di primo grado ad essere quello decisivo (Cons. St., sez. V, 17 ottobre 2008 n. 5100, che richiama Cons. St., sez. VI, 9 marzo 2007 n. 114).

    Secondo altra pronuncia, in caso di domande risarcitorie per danni relativi ad illegittime procedure di gara per l'affidamento di appalti pubblici, l'individuazione del soggetto onerato della prova deve necessariamente operarsi in conformità ai principi europei in materia di colpa della p.a. espressi dalla Corte Europea di Giustizia, a prescindere dal raggiungimento o meno della soglia comunitaria dell'appalto; pertanto, in tema di affidamento di appalti pubblici, va evitato il richiamo al meccanismo di prova della colpa e del dolo previsto dall'art. 2043, c.c., dovendo applicarsi la presunzione (relativa) di colpa della p.a. procedente, esonerando il danneggiato anche dalla semplice formalità di allegare nel suo ricorso risarcitorio l'ovvio indizio di colpevolezza connesso alla illegittimità dell'atto (Tar Abruzzo - L'Aquila, 4 settembre 2008 n. 1050).

    Edited by alex.falco - 26/11/2009, 21:03
     
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  3. alex.falco
     
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    sull'errore scusabile

    REPUBBLICA ITALIANA
    IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
    Il Consiglio di Stato
    in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
    ha pronunciato la presente
    SENTENZA
    sul ricorso in appello nr. 3796 del 2011, proposto da YESMOKE TOBACCO S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Gianluca Contaldi ed Enrico Morello, con domicilio eletto presso il primo in Roma, via Pierluigi da Palestrina, 63,
    contro
    la AZIENDA AUTONOMA DEI MONOPOLI DI STATO (AAMS), in persona del legale rappresentante pro tempore, e il MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, rappresentati e difesi ope legis dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliati per legge presso la stessa in Roma, via dei Portoghesi, 12,
    nei confronti di
    PHILIP MORRIS ITALIA S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita,
    per l’annullamento
    della sentenza del T.A.R. del Lazio, Sezione Seconda, nr. 850/2011, resa nel ricorso nr. 12468/08 R.G.

    Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
    Visto l’atto di costituzione in giudizio delle Amministrazioni appellate;
    Viste le memorie prodotte dalla appellante (in data 10 dicembre 2011) e dall’Amministrazione (in date 24 giugno, 18 luglio e 12 novembre 2011) a sostegno delle rispettive difese;
    Visti tutti gli atti della causa;
    Relatore, all’udienza pubblica del giorno 10 gennaio 2012, il Consigliere Raffaele Greco;
    Uditi l’avv. Contaldi per la appellante e gli avv.ti dello Stato Gabriella Palmieri e Amedeo Elefante per l’Amministrazione;
    Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

    FATTO
    La Yesmoke Tobacco S.p.a. ha impugnato, chiedendone la riforma, la sentenza con la quale il T.A.R. del Lazio, pur dopo aver accolto il ricorso dalla stessa proposto quanto alla domanda di annullamento del decreto dell’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato (AAMS) che imponeva l’aumento del prezzo al dettaglio delle sigarette dalla stessa società prodotte, ha respinto la domanda di risarcimento danni formulata in via consequenziale.
    A sostegno dell’appello, la predetta società ha dedotto:
    1) violazione di legge, e in particolare degli artt. 11 e 117 Cost., in relazione ai presupposti per l’accoglimento di domande di risarcimento danni per violazione del diritto dell’Unione Europea (con riferimento alla necessità, ritenuta dal giudice, che nella specie per configurare l’illecito fosse necessario l’elemento della colpa dell’Amministrazione);
    2) violazione di legge, in riferimento agli artt. 11 e 117 Cost., in relazione ai presupposti per il risarcimento danni da violazione del diritto comunitario (con riferimento, in ogni caso, alla sussistenza nella specie dei presupposti per affermare la sussistenza della colpa);
    3) motivazione illogica e contraddittoria; incompatibilità con il diritto dell’Unione Europea delle disposizioni nazionali che condizionano il risarcimento dei danni ad un comportamento colpevole dell’Amministrazione (con riferimento al contrasto della sentenza impugnata con la più recente giurisprudenza della Corte di giustizia UE).
    Di conseguenza, la appellante ha reiterato la domanda risarcitoria riproducendo i calcoli e gli elementi che hanno indotto a quantificare il danno risarcibile in € 6.164.000.
    Si sono costituiti in resistenza il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’AAMS, riproducendo le preliminari eccezioni di inammissibilità del ricorso di primo grado (non esaminate dal giudice) e opponendosi all’accoglimento dell’appello.
    Con successive memorie, le parti hanno ulteriormente sviluppato le rispettive tesi.
    All’udienza del 10 gennaio 2012, la causa è stata trattenuta in decisione.
    DIRITTO
    1. La società Yesmoke Tobacco S.p.a., operante nel settore della produzione e del confezionamento di sigarette con marchio proprio, ha impugnato dinanzi al T.A.R. del Lazio il decreto del 17 ottobre 2008 (nr. 15997/DAC/CTL), col quale l’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato (AAMS) ha aumentato – fissandolo in € 3,60 per il pacchetto da 20 sigarette e in € 1,80 per quello da 10 sigarette - il prezzo minimo di vendita delle sigarette con le modalità di cui al precedente decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 25 luglio 2005, adottato a sua volta ai sensi dell’art. 1, comma 486, della legge 30 dicembre 2004, nr. 311.
    Avverso il predetto provvedimento, è stata dedotta la violazione della disciplina comunitaria riveniente dalla direttiva 95/59/CE, in tema di imposte diverse dall’imposta sul volume d’affari gravanti sul consumo dei tabacchi lavorati, come modificata dalla direttiva 2002/10/CE.
    Nelle more del giudizio di primo grado, è intervenuta la sentenza della Sezione Terza della Corte di giustizia CE del 24 giugno 2010, con la quale, a conclusione della procedura avviata dalla Commissione europea ai sensi dell’art. 226 del Trattato CE (oggi art. 258 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea) contro la Repubblica italiana, è stato accertato che quest’ultima, prevedendo un prezzo minimo di vendita per le sigarette, è venuta meno agli obblighi rivenienti dall’art. 9, nr. 1, della direttiva suindicata.
    Di conseguenza il T.A.R., indipendentemente dai provvedimenti assunti a seguito della decisione testé richiamata (con l’art. 4 del decreto legislativo 29 marzo 2010, nr. 48, è stato abrogato il precitato comma 486 dell’art. 1 della legge nr. 311 del 2004, e contestualmente è stato introdotto il sistema delle “Tariffe di vendita” di cui al nuovo art. 39 quater del decreto legislativo 26 ottobre 1995, nr. 504), ha in ogni caso ritenuto di dover disapplicare la previgente normativa siccome confliggente col diritto comunitario, e pertanto, in accoglimento della domanda attorea, ha annullato l’impugnato decreto.
    Il primo giudice, invece, ha respinto la domanda di risarcimento danni formulata dalla ricorrente in via consequenziale, assumendo l’insussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito, tali da consentire di configurare una responsabilità aquiliana delle Amministrazioni intimate: in particolare, nella specie è stata esclusa la sussistenza dell’elemento soggettivo della colpa dell’Amministrazione.
    L’appello oggi proposto ha a oggetto solo quest’ultima statuizione, di cui l’originaria ricorrente sostiene l’erroneità sotto molteplici profili.
    2. In via preliminare, la Sezione deve rilevare che nelle difese scritte delle Amministrazioni appellate, pur dichiarandosi di riproporre tutte le eccezioni preliminari non esaminate dal primo giudice, vengono sostanzialmente riprodotti ex extenso gli argomenti svolti in prime cure a sostegno della legittimità del provvedimento impugnato.
    Tuttavia, è evidente che per rimettere in discussione le statuizioni del T.A.R. in punto di illegittimità del decreto impugnato col ricorso introduttivo – ammesso che tale fosse l’intento dell’Amministrazione, e al di là della plausibilità di siffatta linea di difesa – sarebbe stato necessario alla difesa erariale appellare in parte qua la sentenza di primo grado, ciò che non risulta avvenuto con conseguente formarsi del giudicato sul punto.
    Ne discende che, alla stregua dei comuni principi, l’unica eccezione formulata in primo grado non esaminata dal T.A.R., e che pertanto può essere delibata in questa sede, è quella afferente alla asserita inammissibilità del ricorso introduttivo, avendo l’istante impugnato – come detto – soltanto il decreto del 17 ottobre 2008, di adeguamento del prezzo minimo delle sigarette, e non anche il precedente d.m. del 25 luglio 2005, col quale per la prima volta tale prezzo minimo era stato fissato.
    L’eccezione va respinta, atteso che – come documentato e ribadito anche in sede di discussione orale – l’odierna appellante risulta entrata sul mercato italiano soltanto nel 2007, e pertanto le prime determinazioni per essa lesive vanno individuate appunto in quelle del 2008 (non potendosi escludere, peraltro, che il paventato pregiudizio patrimoniale derivasse alla istante solo dal maggior prezzo imposto con tali ultimi provvedimenti, e non anche da quello precedentemente in vigore).
    3. Nel merito, l’appello è infondato e va conseguentemente respinto.
    4. Col primo e col terzo dei motivi d’appello, la società istante assume – in modo per vero suggestivo, ed evocando problematiche non prive di interesse – l’erroneità della sentenza impugnata sulla scorta del principio, ricavabile dalla giurisprudenza della Corte di giustizia CE, secondo cui la responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario non sarebbe mai subordinata all’accertamento dell’elemento soggettivo della colpa dell’Amministrazione.
    4.1. Senza pregiudizio di quanto appresso si osserverà nel merito, la Sezione non può però esimersi dal rilevare che le doglianze così articolate possono suscitare dubbi di ammissibilità nella misura in cui, da una attenta lettura del ricorso introduttivo del giudizio, emerge che in primo grado l’istante ha articolato la domanda risarcitoria in via strettamente consequenziale a quella di annullamento del decreto impugnato, e quindi riconducendola a un’ipotizzata responsabilità aquiliana delle Amministrazioni convenute secondo i comuni principi (sia pure con le ovvie peculiarità connesse all’essere la condotta illecita in ipotesi consistente nell’adozione di un provvedimento illegittimo, segnatamente il decreto censurato).
    Al contrario, con i motivi qui in esame la domanda risarcitoria viene articolata – sia pure con richiamo alla giurisprudenza europea in materia – come riferita a una responsabilità di fatto oggettiva, ossia connessa alla sola materiale violazione di norme e svincolata da ogni considerazione di profili psicologici: ciò che, comportando una diversità sostanziale nel titolo della responsabilità di cui si chiede l’accertamento, potrebbe ritenersi configurare una mutatio libelli non consentita in grado d’appello, ai sensi dell’art. 104 cod. proc. amm.
    4.2. Ciò premesso, al fine di meglio comprendere la natura e la portata delle richieste di parte appellante nonché le conclusioni cui questa Sezione ritiene di dover pervenire, giova richiamare sinteticamente i principali approdi della giurisprudenza comunitaria in tema di responsabilità degli Stati per violazione del diritto europeo.
    In particolare, ponendo in primo piano l’esigenza di assicurare la massima effettività del diritto dell’Unione Europea, la Corte di giustizia CE ha costantemente affermato che il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai soggetti dell’ordinamento da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema stesso del Trattato CE, e conseguentemente ha sempre riconosciuto ai soggetti lesi un diritto al risarcimento, purché siano soddisfatte tre condizioni: 1) che la norma giuridica comunitaria violata sia preordinata a conferire loro diritti; 2) che la violazione di tale norma sia sufficientemente qualificata; 3) che esista un nesso causale diretto tra la violazione in parola e il danno subito da tali soggetti (cfr. Corte giust. CE, 19 novembre 1991, C-6/90 e C-9/90, Francovich; id., 5 marzo 1996, C-46/93 e C-48/93, Brasserie du pêcheur e Factortame; id., 23 maggio 1996, C-5/94, Hedley Lomas; id., 8 ottobre 1996, C-178/94, C-179/94 e da C-188/94 a C-190/94, Dillenkofer).
    Più specificamente, con riguardo al presupposto sopra indicato sub 2, la Corte ha ulteriormente chiarito che esso ricorre allorché la violazione sia “grave e manifesta” sulla base di una pluralità di indici rivelatori, che devono essere valutati caso per caso dal giudice interno applicando la disciplina nazionale in materia di responsabilità dello Stato (cfr. Corte giust. CE, Brasserie du pêcheur e Factortame, cit.).
    In questa sede, può prescindersi dalla questione – che pure ha per lungo tempo affaticato la giurisprudenza interna – se, ai fini dell’affermazione della responsabilità in discorso, possa qualificarsi come illecita l’attività del legislatore nell’ipotesi in cui la violazione del diritto europeo discenda dall’adozione di normative interne di rango primario confliggenti con i superiori principi comunitari: infatti, se è vero che tale era la situazione nel caso che qui occupa, può però sul punto convenirsi con l’avviso di parte appellante, la quale sottolinea come, al di là delle iniziative assunte per la rimozione dal mondo del diritto delle norme contrastanti col diritto europeo, ciò che viene in luce è l’obbligo di una loro immediata disapplicazione, un obbligo incombente non solo al giudice ma anche all’amministrazione pubblica che si trovi a doverle attuare.
    Il punto centrale della presente controversia, invece, deriva dalla considerazione che fra gli elementi costitutivi della responsabilità dello Stato da violazione del diritto comunitario, per come costantemente individuati dalla Corte europea, non vi è un elemento di natura soggettiva afferente alla natura dolosa o colposa della condotta illecita posta in essere dagli organi statuali; laddove, al contrario, fin da quando nel nostro ordinamento interno è stata per la prima volta affermata la responsabilità delle amministrazioni pubbliche per lesione di interessi legittimi da attività provvedimentale (cfr. Cass. civ., sez. un., 22 luglio 1999, nr. 500), detta responsabilità è stata prevalentemente inquadrata nello schema della responsabilità aquiliana con la conseguente necessità di individuare tutti gli elementi dell’illecito extracontrattuale ex art. 2043 cod. civ., ivi compreso quello soggettivo.
    Tuttavia, una più approfondita analisi dei presupposti e dei parametri in base ai quali si giunge ad affermare, nei due diversi ordinamenti (interno e comunitario), la responsabilità dello Stato induce a escludere – salvo quanto di seguito si rileverà in ordine ai più recenti arresti della Corte europea in materia di appalti pubblici - che possa pervenirsi a una semplicistica dicotomia tra il sistema comunitario, nel quale detta responsabilità avrebbe carattere oggettivo, e il sistema italiano, nel quale invece sarebbe sempre essenziale l’elemento psicologico dell’illecito; ciò che, a tacer d’altro, non potrebbe non ingenerare seri dubbi sulla compatibilità comunitaria dello stesso assetto generale della responsabilità aquiliana ricavabile dal già citato art. 2043 cod. civ., ove riferito ai rapporti tra amministrazione pubblica e amministrati.
    4.3. Per chiarire le ragioni che inducono la Sezione a escludere una tale incompatibilità, occorre richiamare il dibattito sorto, all’interno della dottrina e della giurisprudenza che si sono occupate della responsabilità da lesione di interessi legittimi, sull’elemento della colpa dell’amministrazione.
    Su tale versante, superati i più risalenti indirizzi che consideravano la colpa in re ipsa per effetto della stessa illegittimità del provvedimento lesivo, la S.C. ha chiarito che nella specie la colpa va riferita non al funzionario agente, bensì alla “p.a. intesa come apparato, che sarà configurabile nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo (lesivo dell’interesse del danneggiato), sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione (...)quali limiti esterni alla discrezionalità” (cfr. Cass. civ., nr. 500/1999, cit.).
    Se tale ricostruzione dell’elemento soggettivo dell’illecito come “colpa di apparato” nasceva dall’evidente esigenza di evitare al danneggiato la probatio diabolica connessa alla necessità di dimostrare l’atteggiamento psicologico colpevole (o doloso) del singolo funzionario o dei funzionari che avevano posto in essere il provvedimento lesivo, tuttavia il riferimento quale parametro essenziale alla violazione di “regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione”, e soprattutto ai “limiti esterni alla discrezionalità”, comportava il rischio di una nuova immedesimazione della colpa, in questo senso intesa, con gli stessi vizi di legittimità in ipotesi ravvisati nel provvedimento lesivo.
    Per questa ragione la giurisprudenza successiva, sia ordinaria che amministrativa, senza soffermarsi troppo su questioni di inquadramento teorico, ha operato soprattutto sul terreno del regime probatorio della responsabilità, al fine di bilanciare la necessità di introdurre un “filtro”, idoneo a impedire quella proliferazione di azioni risarcitorie che sarebbe derivata da una totale identificazione della responsabilità della p.a. con la stessa illegittimità degli atti impugnati, con l’esigenza di non rendere eccessivamente gravoso l’onere di allegazione imposto al privato danneggiato.
    In tale prospettiva – se si eccettua un minoritario indirizzo che è giunto addirittura a “spostare” la responsabilità de qua al di fuori dell’alveo dell’illecito extracontrattuale utilizzando lo schema del “contatto sociale qualificato” tra p.a. e privato (cfr. Cass. civ., 10 gennaio 2003, nr. 157; Cons. Stato, sez. V, 2 settembre 2005, nr. 4461; id., 20 gennaio 2003, nr. 204; id., 6 agosto 2001, nr. 4239) – l’orientamento prevalente, fermo restando il carattere aquiliano della responsabilità, ha utilizzato il concetto di “errore scusabile”; più specificamente, facendo ricorso al meccanismo delle presunzioni semplici di cui agli artt. 2727 e 2729 cod. civ., si è giunti ad affermare che l’illegittimità del provvedimento amministrativo, quand’anche acclarata, costituisce solo uno degli indici presuntivi della colpevolezza, da considerare unitamente ad altri quali il grado di chiarezza della normativa applicabile, la semplicità del fatto, il carattere pacifico della questione esaminata, il carattere vincolato o a bassa discrezionalità dell’azione amministrativa.
    In questo modo, se non a una vera e propria sua inversione, si è pervenuti a un sostanziale alleggerimento dell’onere probatorio incombente al privato in forza del quale – e ciò sostanzia l’elemento di “atipicità” di tale regime rispetto a quello generale ex art. 2043 cod. civ. – una volta accertata l’illegittimità dell’azione della p.a., è a quest’ultima che spetta di provare l’assenza di colpa, attraverso la deduzione di circostanze integranti gli estremi del c.d. errore scusabile, ovvero l’inesigibilità di una condotta alternativa lecita (cfr. Cons. Stato, sez. V, 6 dicembre 2010, n. 8549; id., 18 novembre 2010, nr. 8091; Cons. Stato, sez. VI, 27 aprile 2010, nr. 2384; id., sez. VI, 11 gennaio 2010, nr. 14; Cons. Stato, sez. V, 8 settembre 2008, nr. 4242).
    4.4. Le conclusioni appena richiamate della giurisprudenza interna, a ben vedere, in null’altro consistono che nel ricorso a parametri di natura oggettiva per la risoluzione dei problemi che si pongono, nello specifico settore della responsabilità delle amministrazioni pubbliche per lesione di interessi legittimi, in ordine all’individuazione e alla prova di quello che – in applicazione del regime normativo dell’art. 2043 cod. civ., cui comunque si continua a ricondurre la responsabilità in discorso – è qualificato come l’elemento “soggettivo” dell’illecito, ossia la colpa della p.a.
    In tale prospettiva, gli orientamenti testé richiamati, piuttosto che discostarsene, si pongono in significativa convergenza con gli approdi della Corte di giustizia dell’Unione Europea in tema di accertamento degli elementi costitutivi della responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario.
    Infatti, un’analisi attenta della casistica giurisprudenziale in subiecta materia rivela che ben rare sono le ipotesi nelle quali la Corte ha affermato la responsabilità di uno Stato considerandola in re ipsa sulla scorta della mera violazione di una norma o di un principio comunitario; queste ipotesi, inoltre, sono sempre relative a fattispecie nelle quali la normativa comunitaria di riferimento, oltre che immediatamente applicabile all’interno degli Stati membri, era anche estremamente analitica e dettagliata, in modo da lasciare poco o nessun margine di discrezionalità agli Stati membri (ciò è avvenuto, ad esempio, nel settore degli appalti pubblici, sul quale pure in appresso si tornerà).
    Più in generale, laddove si è posto il problema di individuare indici rivelatori del carattere “grave e manifesto” della violazione del diritto comunitario, e quindi di quella natura particolarmente qualificata della violazione che costituisce presupposto dell’affermazione della responsabilità dello Stato, la Corte ha fatto costantemente riferimento a elementi relativi “al grado di chiarezza e precisione della norma violata, all’ampiezza del potere discrezionale che tale norma riserva alle autorità nazionali o comunitarie, al carattere intenzionale o involontario della trasgressione commessa o del danno causato, alla scusabilità o inescusabilità di un eventuale errore di diritto, alla circostanza che i comportamenti adottati da un’istituzione comunitaria abbiano potuto concorrere alla violazione” (cfr. Corte di giust. CE, Brasserie du pêcheur e Factortame, cit.; negli stessi termini, Corte di giust. CE, Dillenkofer, cit.).
    Non v’è chi non veda come i concetti così enunciati dalla Corte europea in tema di “violazione grave e manifesta” si pongano in linea, in alcuni casi addirittura coincidendo letteralmente, con i parametri e i criteri individuati dalla nostra giurisprudenza interna al fine della definizione dei contorni della “colpa della p.a.”: in sostanza, identico – ancorché forse indotto da motivazioni diverse – è lo sforzo di individuare a livello oggettivo una serie di elementi destinati ad agire come presupposti o condizioni per il riconoscimento di una responsabilità del soggetto pubblico che non discenda sempre e comunque in modo automatico dalla mera illegittimità del suo operato.
    In siffatta prospettiva, se la giurisprudenza interna sèguita ad ancorare l’accertamento della responsabilità anche al requisito della colpa (o del dolo), ciò non comporta necessariamente una violazione dei principi del diritto europeo in subiecta materia, essendo soltanto la conseguenza dell’applicazione delle coordinate entro le quali la predetta responsabilità è inquadrata nell’ordinamento interno; ed è appena il caso di rammentare come la Corte europea abbia sempre ribadito che, una volta rispettati i parametri generali da essa fissati, sia sulla base del diritto interno che il giudice nazionale deve accertare la sussistenza o l’insussistenza della responsabilità nei singoli casi.
    4.5. Le conclusioni sopra raggiunte non mutano per effetto della recente sentenza della Corte di giustizia (sez. III, 30 settembre 2010, C-314/09, Graz Stadt) sulla quale l’odierna appellante concentra l’attenzione nel terzo motivo di impugnazione: in detta sentenza, effettivamente, la Corte ha configurato in modo molto più marcatamente oggettivo la responsabilità dello Stato da violazione del diritto comunitario, affermando che la direttiva 89/665/CEE, in tema di procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, “osta ad una normativa nazionale, la quale subordini il diritto ad avere un risarcimento (...) al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’amministrazione suddetta, nonché sull’impossibilità di far valere le proprie capacità individuali, e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata”.
    Al di là della questione più generale – che solo l’evoluzione giurisprudenziale futura potrà chiarire – di quali potranno essere le ricadute concrete del principio così enunciato, quand’anche esso dovesse essere inteso nel senso dell’affermazione di una vera e propria responsabilità oggettiva, è del tutto ragionevole che esso debba restare circoscritto al settore degli appalti pubblici, come si desume non solo dal richiamo alla disciplina europea specifica in materia di ricorsi giurisprudenziali in materia di procedure di aggiudicazione (la citata direttiva 89/665/CEE come modificata dalla direttiva 2007/66/CE), ma anche dall’evidente tensione della Corte all’effettività della tutela in un settore oggetto di particolare attenzione da parte delle istituzioni comunitarie per la sua incidenza sul corretto funzionamento del mercato e della concorrenza.
    E, difatti, dalla lettura della sentenza de qua risulta che in essa il risarcimento del danno viene qualificato come “alternativa procedurale” al conseguimento del “bene della vita” auspicato dall’impresa ricorrente, ossia l’aggiudicazione, in tutti i casi in cui tale tutela specifica non possa essere accordata all’esito del giudizio: a conferma di come in questo caso la Corte assegni al risarcimento una funzione “riparatorio-compensativa” (oltre che sanzionatoria dell’illegittimo operato della p.a.) più che “retributiva”, ossia di ristoro patrimoniale di un pregiudizio patito, e quindi – per converso – laddove si versi in settori diversi da quello degli appalti pubblici, debbano tornare a trovare applicazione i comuni principi enunciati dalla stessa Corte europea in tema di responsabilità degli Stati da violazione del diritto comunitario.
    Peraltro, la questione del carattere derogatorio o meno rispetto a tali principi di quanto affermato nella citata sentenza del 2010 è destinata a essere verosimilmente molto ridimensionata, se si considera che proprio nel settore delle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici la disciplina europea si connota ormai per sostanziale completezza e autoconclusività, oltre che per un estremo grado di dettaglio, tale da rendere estremamente raro il caso in cui una sua violazione da parte del diritto interno non risponda anche ai parametri generali cui la giurisprudenza comunitaria ha sempre condizionato la sussistenza della responsabilità dello Stato.
    5. Disattese le più generali doglianze articolate dalla società appellante con riguardo alla necessità o meno di accertare l’elemento della colpa della p.a., va respinto anche il secondo mezzo, col quale è lamentata – in via, evidentemente, subordinata rispetto a quanto assunto con gli altri due motivi – l’erroneità della sentenza impugnata laddove ha escluso che nella specie potesse configurarsi la responsabilità dell’Amministrazione intimata per difetto del predetto presupposto.
    Ed invero, sul punto appaiono pienamente condivisibili gli argomenti svolti dal primo giudice.
    Innanzi tutto, va sottolineato che il già citato art. 9, nr. 1, della direttiva 95/59/CE, dopo aver stabilito che: “...I produttori (...) stabiliscono liberamente i prezzi massimi di vendita al minuto di ciascuno dei loro prodotti per ciascuno Stato membro in cui sono destinati ad essere immessi in consumo”, aggiunge però che detta previsione “non osta, tuttavia, all’applicazione delle legislazioni nazionali sul controllo del livello dei prezzi imposti, sempreché siano compatibili con la normativa comunitaria”.
    In altri termini, nella stessa direttiva che nella fattispecie è stata violata dallo Stato italiano era contenuta un’espressa riserva in favore della legislazione interna degli Stati membri in materia di “prezzi imposti”, tale da non escludere in toto un intervento autoritativo dei legislatori e delle pubbliche amministrazioni nazionali nella determinazione del prezzo di vendita delle sigarette.
    E, difatti, nella pure citata sentenza del 24 giugno 2010 la Corte di giustizia ha ritenuto che la normativa italiana in materia di prezzo minimo fosse confliggente col diritto comunitario non già per il fatto di esistere in quanto tale, ma siccome strutturata “in modo tale da escludere, in ogni caso, che risulti pregiudicato il vantaggio concorrenziale che potrebbe risultare, per taluni produttori o importatori di prodotti siffatti, da prezzi di costo inferiori e che, pertanto, si produca una distorsione della concorrenza”.
    L’aver strettamente collegato l’illegittimità comunitaria del “sistema di prezzi imposti” ai suoi potenziali effetti anticoncorrenziali non è circostanza priva di significato, atteso che il giudizio di compatibilità comunitaria viene fatto discendere, fra l’altro, anche dall’analisi della situazione economica e delle condizioni di mercato in cui detto sistema viene a inserirsi: ciò che frustra il tentativo di chi, come si vorrebbe nel presente giudizio, intenda ricavare la prova certa della sussistenza dell’illecito dal fatto che la disposizione sopra richiamata era stata già in precedenza interpretata e applicata dalla Corte, che aveva condannato altri Stati dell’Unione per la sua violazione, essendo evidentemente ammissibile siffatta impostazione soltanto in presenza di una perfetta identità di situazioni fra dette fattispecie e quella oggi all’esame, ciò che non risulta affatto dimostrato.
    Inoltre, con riferimento alle difese spiegate dalla Repubblica italiana nel corso della procedura d’infrazione, la Corte non ha affatto escluso che le invocate esigenze di tutela della vita e della salute umana giustificassero – ai sensi dell’art. 30 del Trattato CE (oggi art. 33 del Trattato sul funzionamento dell’UE) – un intervento anche penetrante dello Stato, ma ha chiarito che l’obiettivo di salvaguardare i predetti valori “può essere adeguatamente perseguito mediante l’aumento dell’imposizione fiscale su tali prodotti, dal momento che gli aumenti dei diritti di accisa devono prima o poi tradursi in un aumento dei prezzi di vendita al minuto, senza con ciò compromettere la libertà di determinazione del prezzo”.
    In definitiva, ciò che emerge da una serena lettura della sentenza in discorso è che le istituzioni europee non hanno affatto escluso la possibilità di applicare un regime normativo di “prezzi imposti”, e nemmeno la legittimità delle finalità perseguite con la disciplina in contestazione, limitandosi a censurare – piuttosto – soltanto le modalità e gli strumenti tecnici con cui l’Amministrazione italiana ha proceduto; ciò che, come correttamente osservato dal primo giudice, è sufficiente a far ritenere scusabile l’errore di diritto in cui la medesima Amministrazione è incorsa, e pertanto inconfigurabile nella specie la sussistenza di un illecito idoneo a rendere accoglibile la domanda risarcitoria.
    6. Alla luce dei rilievi fin qui svolti, s’impone una decisione di reiezione dell’appello e di integrale conferma della sentenza impugnata.
    7. L’evidente complessità e la novità delle questioni di diritto esaminate giustificano la compensazione tra le parti delle spese di lite.
    P.Q.M.
    Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.
    Compensa tra le parti le spese del presente grado del giudizio.
    Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
    Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 gennaio 2012 con l’intervento dei magistrati:
    Anna Leoni, Presidente FF
    Raffaele Greco, Consigliere, Estensore
    Fabio Taormina, Consigliere
    Guido Romano, Consigliere
    Andrea Migliozzi, Consigliere


    L'ESTENSORE IL PRESIDENTE





    DEPOSITATA IN SEGRETERIA
    Il 31/01/2012
    IL SEGRETARIO
    (Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

     
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